Dieci minuti
Datemi solo 15 minuti ancora”, ha implorato telefonicamente ieri pomeriggio un giornalista dell’Associated Press (Ap) ad un ufficiale israeliano prima che i jet d’Israele radessero al suolo la torre Jalaa, sede della sua agenzia. “Abbiamo attrezzature, telecamere e altre cose. Le posso portare tutte fuori”. “No”, fanno sapere da Israele.
Poco dopo anche Jawad Mahdi – il proprietario dello stesso edificio – ha fatto all’ufficiale la stessa richiesta. “Rispettiamo i vostri desideri – ha detto umilmente – ma almeno dateci 10 minuti”. Un’implorazione che è stata più un’ammissione di resa, una umiliazione e che forse riassume da sola la sperequazione di forze tra i palestinesi e gli israeliani. “Non ci saranno 10 minuti, nessuno entrerà, vi abbiamo dato un’ora di tempo per evacuare tutto”, ha risposto di nuovo bruscamente l’ufficiale nella conversazione registrata e riportata da al-Jazeera.
Su al-Jazeera in arabo, poco prima del crollo, l’inviato racconta in diretta televisiva cosa sta succedendo. Ha la voce che gli trema mentre risponde lentamente in arabo standard alle domande postegli da Doha dalla presentatrice. Non si vede il suo volto perché le telecamere puntano fisso alla torre Jalaa in attesa del momento del crollo.
E’ tutto surreale: giornalisti e spettatori sono in attesa della distruzione annunciata e imminente. Ogni tanto il corrispondente si ferma, misura le parole, sembra sforzarsi di parlare in arabo standard e non nel quotidiano dialetto in cui si sentirebbe più a casa. Il suo arabo è una lingua-gabbia in cui deve rinchiudere per professionalità in parte le sue emozioni.
Quella “Torre”, la sua sede lavorativa, era dopotutto una sua seconda casa. Arriva il primo raid, il palazzo non crolla. “La terra trema per le esplosioni forti”, commenta. Poi subito dopo il secondo colpo: “La terra ha tremato”. Si ferma, dice qualcosa in dialetto palestinese alla gente che gli è attorno e che incomincia a gridare di rabbia contro Israele. Sembra più naturale.
Arriva poi il colpo definitivo ed è laconico il suo commento: “Inharat al binaya”. “E’ crollato l’edificio”. Tace. Da Doha, sede dell’emittente, la presentatrice capisce lo stato d’animo del collega e interviene quasi a consolarlo: “Immaginiamo quanti ricordi di quel luogo”.
Le foto di giornalisti e tecnici diffuse in queste ore con la divisa “Press” raccolti vicino allo scheletro della Torre Jalaa sono un pugno al cuore. Non meno dei massacri dei civili che da decine di anni si ripetono in Palestina per opera d’Israele.
In una foto si vede un gruppo di loro seduti a guardare quel che resta del loro posto di lavoro, le poche attrezzature da un lato. Quel poco che Israele ha permesso loro di salvare. Le attrezzature distrutte non hanno un prezzo economico, ma morale e umano. 10 minuti non avrebbero cambiato molto. Non avrebbero cancellato il crimine israeliano. Eppure 10 irrilevanti minuti per noi, avrebbero significato molto per le vittime. Avrebbero risparmiato la chiusura di altri occhi che permettono e hanno permesso di raccontare Gaza. Occhi che ricordano oggi al mondo del massacro della famiglia al-Hatab. Microfoni/Bocche che registrano la voce degli oppressi assediati terra, cielo e aria da Israele.
Quelle attrezzature sono ricordi di vita andati persi. Persi non meno che gli esseri umani di Gaza trucidati in questi anni. Sono storie, testimonianze. Perché poi non si dica: “Il mondo non lo sapeva”. Quelle attrezzature sono il giornalismo, libertà di una narrazione diversa, che oggi – e non solo oggi – Israele ha voluto azzerare. La stessa Israele che scendeva in piazza con lo stesso premier di oggi nel 2015 a Parigi al grido “Je Suis Charlie” per la libertà di espressione.
Ma Parigi è lontana. Troppo. Perché il racconto dei palestinesi all’esterno, al mondo, fa più paura a Tel Aviv delle pietre scagliate in Cisgiordania o dei razzi sparati da Gaza. Hai voglia di avere dalla tua parte tutti i grandi media e i potenti del mondo: non c’è sistema difensivo Iron Dome che ferma le migliaia di persone scese in piazza in tutto il mondo in questi giorni per gridare: “Palestina Libera” nelle differenti lingue del pianeta.
Fa paura l’insolenza dei palestinesi di continuare – nonostante tutto – a esistere, a parlare, a ricordare la loro storia. “L’edificio è crollato”. Ma se ne costruirà a breve un altro. E’ così che va avanti da oltre 70 anni in Palestina.
Fonte: Gaza FREEstyle
16/5/2021 https://comune-info.net
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