Difendere la dignità da indebite intrusioni
Risparmiamoci l’ardua impresa di definire la dignità. Limitiamoci a evocare le associazioni mentali suscitate dai diversi contesti in cui si fa appello ad essa. L’attenzione si sposta quindi sul suo significato connotativo, piuttosto che su quello denotativo. Se la dignità viene menzionata in un contesto politico-culturale – esemplarmente, l’art. 3 della Costituzione italiana: “Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono uguali davanti alla legge”; o la Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo: “L’unico e sufficiente titolo necessario per il riconoscimento della dignità di un individuo è la sua partecipazione alla comune umanità” – l’associamo a diritti esigibili e a rivendicazioni. Diversamente avviene quando si fa appello alla dignità in un contesto di cura: il pensiero corre a trattamenti che sono indiziati di offendere la dignità di una persona.
Ci sono domande trasversali, che sono pertinenti per i diversi contesti in cui si fa appello alla dignità. A cominciare da quella relativa a chi ha il potere di proclamare che cosa promuove o ferisce la dignità di una persona. Definire la dignità di un altro può essere un esercizio di smaccato paternalismo. Soprattutto quando si tratta di un’”altra”, e a tracciare il perimetro della dignità è un maschio. “Vogliamo che le nostre sorelle vivano con dignità”: è il programma proclamato dal Ministero per la repressione del vizio e la promozione della virtù in Iran. Conosciamo le conseguenze di questa missione politico-religiosa nella vita delle donne di quel paese; compreso che cosa può succedere a quelle che lasciano sfuggire una ciocca di capelli dal velo…
Sandro Spinsanti
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7/12/2022
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