Difendere il diritto del lavoro, per crearne altro collettivamente. L’esempio GKN
In Italia sono oltre 4 milioni le lavoratrici e i lavoratori con una retribuzione insufficiente per vivere
In Italia, si stima che ci siano oltre 3 milioni di lavoratori in situazione irregolare o che operano nel cosiddetto mercato nero. Inoltre, vi sono 3,8 milioni di lavoratori che vivono in condizioni di povertà, ricevendo una retribuzione annuale pari o inferiore a 6.000 euro.
La tendenza involutiva della società richiede risposte diverse e soprattutto nuove forme organizzative della rappresentanza dei lavoratori, partendo dalla collettività del lavoro precario. E’ una sfida per tutto il mondo sindacale che comporta una mutazione radicale di forma e contenuto, pena l’estinzione o la riduzione a semplice residuo.
Perché dagli anni ottanta del novecento lo smantellamento delle politiche di welfare sono procedute di pari passo con quelle di deregolamentazione del mercato del lavoro favorendo la proliferazione di forme alternative sempre più spinte di flessibilità di ingaggio e gestione del lavoro (contratti, orari, messa a disposizione,ecc) e favorendo la legislazione sui licenziamenti, ha subito una crescita abnorme rispetto a quella dei licenziamenti disincentivati per lo meno dagli anni 90.
A questo cambiamento solitamente le organizzazioni sindacali hanno risposto in questi ultimi trent’anni tutelando, al minimo della sopravvivenza sindacale, la parte organizzata o più facilmente organizzabile spesso con inconsapevoli modalità corporative, come quelle di introdurre i doppi regimi di trattamento fra i neo assunti e i più anziani, a partire dal nefasto accordo Dini sulle pensioni e ai diversi rinnovi dei CCNL dalla seconda metà degli anni 90, fino ad arrivare a vere e proprie forme di deregolamentazione sui part-time, sui tempi determinati, su diverse forme di lavoro flessibile o precario.
In quarant’anni il Paese che produce è cambiato: ha visto la crescita a dismisura del terziario (commercio e servizi) con il ridimensionamento del manifatturiero (oggi produttore 25% del PIL con il 20% dell’occupazione), sono scomparse le grandi concentrazioni produttive, si sono polverizzati i luoghi di lavoro, sono cresciuti i lavori precari, gli aumenti contrattuali si sono fatti sempre più modesti e dilazionati nel tempo, è cresciuto il fenomeno del lavoro povero e del part-time non volontario, cresce la popolazione inattiva, al disopra delle medie europee.
I salari sono vergognosamente bassi, vergognosamente bassi. Anche quei pochi “fortunati” (che i giornali padronali ancora scrivono “privilegiati”) che hanno un lavoro da molti anni, e dunque salari fissati da contratti nazionali stipulati in altre condizioni, negli ultimi anni hanno visto bloccarsi la dinamica verso l’alto.
Per precari e discontinui, invece, la dinamica è addirittura discendente, quando si passa da un lavoro all’altro. In molti comparti, specie nella grande distribuzione, i 600 euro al mese per orari settimanali decisi arbitrariamente dalle aziende, sono diventati quasi la normalità rendendo urgente una legge sul salario minimo legale.
Disincanto, disperazione?
Quello che è certo, e si tocca con le mani, è il conseguente imbarbarimento delle stesse relazioni sociali, fatte di indifferenza verso chi sta peggio, di nichilismo che amplifica, fino all’odio verso gli altri considerati diversi, il processo di distruzione degli ideali, dei valori di comunità per sostituirli con presunti nuovi valori impregnati di individualismo e di appartenenza a singole tribù con a capo personaggi vagamente mostruosi, e paradossali.
I poveri sconfessano conflitto e mobilitazioni collettive? Questa e la narrazione dominante – con i media nelle mani dei poteri finanziari – che giustifica l’impotenza dei grossi sindacati? Se invece di commentare i drammi sulla riduzione del 15% dei salari dal 2007, (i più bassi d’Europa da decenni) e fare inutili scioperi formali, combattessero questa lotta di classe ora solo unilaterale, il Paese non starebbe così malmesso. La sfiducia è tanta, ma se non si ricomincia a lottare duramente sarà incurabile.
Quali sono le cause del disagio collettivo?
Da una inchiesta della Cgil-Fondazione Di Vittorio sul malessere psico-sociale leggiamo che solo un lavoratrice/lavoratore su 10 nell’ultimo anno non ha avuto alcun disturbo – fisico o psicologico.
L’inchiesta capillare ha raggiunto circa 31 mila lavoratrici e lavoratori di tutti i settori pubblici e privati, tutte le dimensioni di impresa, tutte le tipologie contrattuali e anche a chi era senza contratto o disoccupato.
I disturbi più diffusi riguardano l’apparato muscolo-scheletrico e lo stress. Si tratta del 67,8 e del 65,2% di chi ha segnalato almeno un disturbo. Seguono i disturbi legati all’ansia (39,9%) alla vista (38,2%) e il mal di testa (32,5%). Rispetto alla distribuzione complessiva, tra i più giovani si rileva una maggiore diffusione di mal di testa, ansia e stress, così come pure per la componente femminile.
Il disagio psico-sociale ha un peso specifico è fortemente è legato a fattori organizzativi, ambientali: ciò vuol dire che scadenze rigide e strette, sostenere un ritmo di lavoro eccessivo, sostenere un carico di lavoro eccessivo, fare lavori ripetitivi e noiosi sono alcuni dei fattori che producono maggiore disagio, mentre un grado discreto di autonomia e di controllo dell’orario di lavoro diminuisce il disagio stesso.
Un dato più specifico riguarda le donne e i giovani. Per queste categorie lavorative entrano in gioco anche altri fattori, come la mancanza di autonomia. Per le donne è noto il peso del lavoro di cura, mentre per i giovani riguarda la ricerca di tempo libero nei weekend e la crescita professionale.
Aspetti non incompatibili con più e riduzione d’orario.
L’inchiesta ha colto anche una novità in merito al disagio psico-sociale.
Sono le operatrici e gli operatori dei servizi socio-sanitari a rappresentare il gruppo in cui la quota di persone con forme di disagio è maggiore (75,2%). Segue chi lavora nei servizi di vendita al pubblico (71,4%), mentre si è sempre creduto che al primo posto c’era il lavoro operaio o manuale, comunque sottoposto al disagio psico-sociale 54,6% dei casi.
Questa inchiesta conferma l’emergenziale esigenza di trasformazione nella contrattazione sindcale per intercettare il disagio lavorativo, e interloquire con le lavoratrici e i lavoratori.
Sono i licenziamenti volontari la risposta che tante/i si danno?
Le dimissioni volontarie sono considerate, da chi le sceglie, liberatorie per liberarsi da sofferenze, discriminazioni e impotenza nell’affrontarle sindacalmente e collettivamente.
Le ha raccontate Francesca Coin in un libro (Le grandi dimissioni. (Einaudi, 2023), chiarificatore di storie nei contesti lavorativi, nella sanità, nellala ristorazione, nella grande distribuzione, e spesso sono storie di lavoratrici, nelle quali esce fuori la rabbia, dalla disperazione di genere o per la provenienza di genere o per la provenienza geografica e il ricatto dei documenti,
Uno stato di prostrazione che innerva la stessa organizzazione del lavoro. Il caso delle dimissioni dal dalla sanità pubblica dal 2020 ad oggi ne è l’esempio piu ecclatante anche per le ricadute sulle condizioni di chi ci lavora.
Queste storie di abbandono volontario del lavoro non rappresentano una strada di liberazione quando una via d’uscita da contesti oppressivi ai limiti dello schiavismo. E’ anche questo il pregio dei racconti nel libro, che chiariscono che a dimettersi non è chi ha già altre opportunità, o un reddito familiare da benestante, ma è sempre di più quelle/i chi non possono fare a meno di lavorare.
L’aspetto più drammatico in queste storie è la solitudine che ha avuto un peso determinante nella scelta è il fallimento epocale, e non di fase, dell’azione – e non azione – sindacale inefficaci nell’organizzare adeguate risposte collettive, o spesso nel non tentare neanche di organizzarle.
I sindacati hanno colto pienamento la natura di queste dimissioni volontarie? Parlano dell’ormai insopportabile deterioramento delle condizioni di lavoro che incrementano ogni sorta di sopraffazione, di sfruttamento, di schiavismo e, quindi, di diseguaglianze che portano alla competizione tra poveri. La logistica ci racconta di forme legalizzate, e impunite, nelle quali crescono disperazione e individualismo che se non affrontate con coraggio e durezza d’intervento contrattuale determineranno agli occhi delle lavoratorici e dei lavoratori l’inutilità del sindacato.
Il presupposto l’hanno creato gli stessi sindacati maggiori con quelle tragiche scelte del welfare aziendale e delle altre misure rivelatesi solo utili solo a dividere la forza lavoro.
Il manuale lo offre la lotta del collettivo di fabbrica ex-GKN.
Redazione Lavoro e Salute
https://www.blog-lavoroesalute.org/lavoro-e-salute-gennaio-2024
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