Diritto di resistenza

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Lo stato di emergenza e la preoccupazione per i contagi stanno facendo entrare in un cono d’ombra la crescente repressione in atto nei confronti del conflitto sociale. Essa è il frutto amaro, sul piano legislativo, delle cosiddette “leggi sicurezza” che, come ho sostenuto dalla prima lettura, non sono solo xenofobe ma anche tese a reprimere o prevenire ed imbavagliare la lotta di classe, assicurando anche immunità ed impunità ai poteri militari.

Vediamo applicate, in questi mesi, autoritarie configurazioni di reato, abnormi sanzioni (sia penali che amministrative) per occupazione di spazi pubblici; vengono considerate associazioni sovversive le azioni conflittuali collettive ( come sono, del resto, tutti i conflitti), vengono , con il diffuso utilizzo dei “daspo”, con i domiciliari, con misure preventive, bloccate o allontanate le avanguardie di lotta. Inutile sperare che questo governo abroghi tali norme liberticide.

Dovremo sensibilizzare l’opinione pubblica democratica, riconnettere dialetticamente lotte sociali e lotte democratiche, denunciando la incostituzionalità di queste norme, intensificando ricorsi giurisdizionali e denunzie penali (i sindacati dovrebbero fare molto di più), rivendicando il nostro”diritto di resistenza”, che è contenuto implicitamente nella parte fondamentale della Costituzione.

Penso al “diritto di resistenza” perchè sulle ceneri dello Stato sociale, sempre più tenue, privatizzato,si rafforza lo “Stato penale”come coefficiente permanente della governabilità. L’autoritarismo è intrinseco al governo capitalistico dei processi di accumulazione, delle catene del valore contemporanee.
Il neoliberismo rafforza il populismo penale. E si rafforza anche una architettura globale di pervasiva sorveglianza dei comportamenti sociali.

Cresce, non a caso, una miriade di imprese specializzate nel mercato del controllo sicuritario. Poiché “siamo in guerra”(ha detto Macron nel discorso televisivo del 16 marzo) contro il coronavirus”tutte le strutture ed i servizi antiterrorismo vengono dispiegati”.
Ecco il grande alibi dello Stato di emergenza, che mette tra parentesi, sospende la legalità costituzionale.
E quindi anche il conflitto, assimilato al terrorismo in nome della “ragion di Stato”.

Crescono le difficoltà per i movimenti, per coloro che lottano per l’alternativa di sistema (o anche solo per il lavoro, per il reddito, contro il precariato,contro opere come il TAV). Perché il sistema politico alimenta la “politica della paura”. Essa dirada gli spazi pubblici, i luoghi di partecipazione , alimenta il disciplinamento (a volte l’autodisciplinamento) sociale.
La “politica della paura”, diventando norma, produce mutazione antropologica , perché mette il bavaglio alla lettura classista della società, all’analisi dei poteri, alla proprietà dei mezzi di produzione.

Viene imposto un clima di “unità nazionale”. Il quale ostacola il dispiegarsi dei conflitti, delle ribellioni, dell’autogoverno.
Mentre Confindustria e poteri padronali sembrano voler imporre una fase di nuova accumulazione “originaria” del capitale ( di cui la nomina del “falco”Bonomi a presidente della Confindustria é metafora).

Il governo é il tramite dell’ordoliberismo dirigista e liberista dell’ Unione Europea. Ci scontriamo con il classico contesto gramsciano di “sovversivismo delle classi dirigenti”. Una democrazia senza conflitti non é una democrazia.
E’ il momento di rafforzare il punto di vista autonomo e la visione del mondo delle sinistre alternative.

L’unico intervento pubblico, infatti, che il sistema delle imprese oggi concepisce ed impone al governo è una sorta di “capitalismo statalizzato”, nel senso che le imprese rastrellano tutte le risorse dello Stato sottraendole allo Stato sociale.

Dobbiamo rilanciare il ruolo dell’intervento pubblico, dopo decenni di liberalizzazioni/privatizzazioni. Il tema che poniamo non è “quanto Stato” ma “quale Stato”. Il vecchio Stato sociale novecentesco, infatti, non ha retto perchè al suo interno si è rafforzata l’ingiustizia della società “duale”.

Dobbiamo ripartire da una statualità diffusa, innervata nel territorio. Un welfare “dal basso”, che ricostruisca le strutture intermedie della società e la confederalità espressamente previste dalla Costituzione.

Va rovesciato l’ordine delle cose imposto dal capitale: i diritti universali devono vincolare l’economia; non viceversa. Le scelte di politica economica sono vincolate dal rispetto dei diritti universali.
E’ inammissibile correre il pericolo politico, sociale, culturale di rendere perpetuo lo Stato di emergenza.
Non ci stiamo. Il governo non può pretendere di dominare il paese, oggi, con poteri eccezionali, adducendo la paura del virus e, domani, usare quei poteri contro conflitti e tensioni sociali. Ci attende una grande sfida.

Giovanni Russo Spena

Costituzionalista.

Resp. nazionale PRC Area Democrazia, Istituzioni

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