Discriminate dalla burocrazia

Le donne straniere in Italia vanno incontro a una forte segregazione lavorativa, a compensi più bassi e a un mancato riconoscimento dei loro titoli di studio e dei loro percorsi da parte di una burocrazia che quotidianamente le discrimina. Lo raccontano i dati sulle migrazioni a Roma e nel Lazio

Dopo gli eventi eccezionali della pandemia e della guerra russo-ucraina, che hanno segnato l’inizio del decennio che stiamo vivendo, nel 2022 la popolazione straniera residente nel nostro paese è tornata ad aumentare – in Italia del 2,2% e nel Lazio del 2,6% –, contribuendo a tal punto alla dinamica demografica che, dopo ben quattro anni di decremento ininterrotto, nella regione è cresciuta anche la popolazione complessiva.

Un andamento dovuto esclusivamente alla componente di cittadinanza straniera, al suo interno sempre più eterogenea quanto a origini: migrazioni da paesi esteri, ma anche nuove nascite da coppie straniere e rientri di discendenti di persone italiane in passato emigrate all’estero.

Il diciannovesimo rapporto dell’Osservatorio sulle migrazioni a Roma e nel Lazio, pubblicato nel mese di giugno 2024 dal Centro Studi e Ricerche Idos e dall’Istituto di Studi Politici “S. Pio V”, registra che  i cittadini e le cittadine straniere che vivono stabilmente nel Lazio sono 634.045, ovvero l’11,1% della popolazione residente al 1° gennaio 2022 (ultimo dato consolidato). Una percentuale che, nei singoli comuni della regione, può andare da meno di una persona straniera ogni cento residenti a casi in cui il rapporto è di oltre una ogni cinque.

Con questi numeri, il Lazio ospita il 12,3% delle persone straniere residenti in Italia. Sono dati che non segnalano grandi stravolgimenti, nonostante una percezione totalmente opposta – quotidianamente alimentata dalla politica e dai media – che vede le migrazioni come un fenomeno continuamente in crescita e, per questo, ingestibile. 

Piuttosto, si assiste a un quadro pressoché stabile nei numeri da almeno un quinquennio ma, soprattutto, immutato nelle sue ormai note e consolidate criticità, alcune delle quali particolarmente gravi perché causa diretta di nuova irregolarità e invisibilità dei cittadini e delle cittadine di origine immigrata.

Forse la carenza più grave riguarda il mercato del lavoro e l’inefficacia – nonché l’insensatezza – delle politiche di ingresso di nuovi lavoratori e lavoratrici dall’estero. 

Nonostante la riattivazione dei decreti flussi – dopo oltre un decennio di inerzia – queste misure hanno testardamente lasciato immodificate le regole della procedura (in primis la chiamata nominativa dall’estero, tra un datore di lavoro e un lavoratore o una lavoratrice che non si conoscono), alimentando ancora una volta gravissime distorsioni che non hanno tutelato né i datori di lavoro, né la potenziale forza lavoro di origine straniera. 

In tal senso, la situazione di Roma e della sua Prefettura è a dir poco allarmante, per via della vera e propria paralisi operativa in cui versano gli uffici e, conseguentemente, le procedure di ingresso, di avvio al lavoro e di rilascio dei documenti di soggiorno dei lavoratori e delle lavoratrici straniere che hanno fatto domanda di ingresso in Italia e nel Lazio. 

Analizzando le domande presentate con i decreti flussi 2021 e 2022, la campagna “Ero straniero” ha calcolato che i lavoratori e le lavoratrici straniere che, pur avendo ricevuto il nulla osta e il visto di ingresso, sono ancora in attesa di entrare nel Lazio sono il 16% per l’anno 2022 e poco più del 39% per il 2023. 

È stato anche riscontrato che, per l’anno 2022, meno del 28% dei nulla osta rilasciati in regione è stato convertito in un contratto di soggiorno (1.341 su 4.812). 

Nella Prefettura di Roma il tasso di conversione è di appena lo 0,6%. Si contano infatti soltanto dieci contratti firmati (e relative pratiche avviate per il rilascio del permesso di soggiorno) a fronte di 1.536 nulla osta rilasciati. 

Dati gravissimi e allarmanti, che svelano la totale inadeguatezza dei decreti flussi, che da canale di ingresso legale diventano leva di produzione di nuova irregolarità e, ancora una volta, non tutelano i diritti degli immigrati e delle immigrate che vivono tra noi. 

La morte – raccapricciante – del bracciante indiano Satnam Singh nelle campagne di Latina è solo l’apice estremo e più recente di questa situazione nelle tristi cronache nazionali. Impiegato a nero, Singh è stato vittima di un gravissimo incidente sul lavoro, privato di qualsiasi tipo di soccorso dal datore di lavoro e abbandonato per strada, oltretutto da parte di un’azienda che pare aver ripetutamente usufruito di finanziamenti pubblici nazionali ed europei. 

Consapevolmente o meno, la politica alimenta, o perlomeno non argina e non previene lo sfruttamento e la ricattabilità di lavoratori e lavoratrici. L’ennesimo esempio è stato l’aver confermato le regole – notoriamente impraticabili – dei decreti flussi anche nel 2023, e aver previsto che i lavoratori e le lavoratrici straniere potessero iniziare a lavorare in attesa del contratto di soggiorno, senza una verifica preventiva dei requisiti di regolarità dei datori di lavoro.

Ma le grandi assenti dalle politiche nazionali e da un’effettiva parità di diritti e opportunità sono le donne. Anche l’ultima edizione del rapporto Idos sull’immigrazione a Roma e nel Lazio rileva che le donne rappresentano la metà delle persone immigrate, ovvero il 50,9% tra le persone residenti nella regione e il 49,3% tra quelle soggiornanti non comunitarie. Eppure, la percentuale di donne nel mercato del lavoro dipendente cala al 44,4% – a eccezione dell’area dei servizi, in cui sale a oltre il 57% – e crolla al 22,7% tra le persone straniere che gestiscono attività autonome. 

In estrema sintesi, continuando a rispondere alla domanda di cura e di servizi di assistenza, le donne migranti sono tra le più relegate settorialmente, e le meno pagate per il loro lavoro.

Inoltre, a causa del mancato riconoscimento del genere come elemento di per sé generatore di discriminazione e violenza nei paesi di origine, durante il viaggio e nei paesi di arrivo, le donne sono anche le meno protette nei flussi forzati, come ampiamente riportato in un’altra pubblicazione del 2022 del Centro Idos. 

In questo senso, solo i flussi provenienti dall’Ucraina in guerra hanno rappresentato un’eccezione, grazie al riconoscimento della protezione temporanea di cui, per la quasi totalità, hanno potuto usufruire donne e minori.

Di queste e delle altre donne, arrivate nel Lazio e a Roma perché costrette a lasciare paesi in guerra e società che ne opprimono le libertà, il rapporto restituisce la forza e i faticosi percorsi di affermazione, dando particolare risalto ad alcune esperienze, volte a restituire loro una voce e un volto. 

Ne è un esempio il capitolo dedicato al progetto ‘Diaspore resistenti’, finalizzato a costruire reti femminili di supporto “inter-diaspore”, affinché le lezioni e gli strumenti di advocacy affinati da una comunità siano patrimonio disponibile per le altre realtà diasporiche. 

Al progetto hanno partecipato donne afghane, iraniane, palestinesi, ucraine, dalle cui testimonianze emergono difformità nelle procedure di protezione e accoglienza, problemi comunicativi nei centri di accoglienza, mancato riconoscimento dei titoli di studio, scarse opportunità di lavoro (senza contratto, sottopagato, limitato alla mediazione culturale o alla cura), attese troppo lunghe per le audizioni in Commissione o per il rilascio dei permessi di soggiorno e dei passaporti. 

Le donne che hanno potuto partecipare al progetto chiedono una maggiore semplificazione burocratica, il riconoscimento dei titoli di studio, la valorizzazione delle loro competenze, tirocini che facilitino l’accesso al lavoro, più informazioni sui servizi di orientamento al lavoro, sostegno alla ricerca di un alloggio, ma anche sportelli psicologici e spazi dove sentirsi al sicuro, nonché ludoteche e banche del tempo per i loro figli e le loro figlie. 

Tutte denunciano di subire e pagare in prima persona le politiche di isolamento internazionale applicate verso i governi dei loro paesi.

Altrettanto pregnante è il capitolo sul Tribunale delle donne di Roma, dedicato al progetto Da vittime a testimoni. Un tribunale delle donne per i diritti delle donne in migrazione, finanziato dall’Otto per mille delle Chiese Valdesi, che, in una prima fase, ha coinvolto rifugiate afghane, con le quali collaborano le associazioni Binario 15, Nove onlus, Coordinamento italiano sostegno donne afghane (Cisda) e Differenza Donna.[1] 

Grazie all’impegno della Casa internazionale delle Donne di Roma, le loro testimonianze sono state occasione per avanzare pubblicamente la richiesta di una giustizia riparatoria – individuale e collettiva.

Il relatore speciale delle Nazioni Unite sulla situazione dei diritti umani in Afghanistan ha descritto il paese come “il peggiore al mondo in cui essere una donna o una ragazza”. La gravità delle violazioni dei diritti delle donne è immediatamente apparsa tale da configurare come persecuzioni e rilevare come crimini contro l’umanità, puniti dalla Corte penale internazionale, oltre alla costante minaccia alla vita, anche la privazione di tre diritti fondamentali: il diritto all’istruzione, quello di riunione e di espressione, a cui si aggiunge l’impedimento a ogni progetto di fuga e progettazione individuale e familiare.

Tra il 2021 e il 2022, le richieste di asilo dei e delle migranti afghane nel Lazio sono state 891, di cui 357 presentate da donne. Su 847 decisioni, il 78,9% ha riconosciuto una delle diverse forme di protezione internazionale, mentre le decisioni negative sono state solo otto.

Questi dati mostrano una grande differenza tra l’esito delle domande di donne e uomini afghani rispetto a quelle presentate da persone di altre nazionalità, come quelle provenienti dal continente africano, per le quali i casi di riconoscimento tra le donne sono di molto inferiori. 

Per le donne afghane, in particolare per quelle arrivate in Italia subito dopo l’avvento dei talebani, il problema quindi non è tanto la protezione internazionale, quanto il riconoscimento dei loro titoli di studio, delle loro professionalità, delle loro esperienze pregresse.

È esemplificativo quanto ha detto Mahboba Islami, medica chirurga, durante un incontro che si è tenuto presso la Casa internazionale delle donne di Roma il 27 maggio 2023, in cui le donne afghane presenti “avevano tutte una gran voglia di parlare”, titolo del documentario che riprende gli incontri del progetto. 

In Italia, Mahboba Islami è stata accolta e aiutata da Differenza Donna per tutte le procedure necessarie, ma non ha visto riconosciuti tutti i suoi studi e la sua professionalità: le offerte di lavoro sono come badante o lavoratrice nei ristoranti, o al massimo come mediatrice culturale. 

“Eppure” dice “l’Italia ha bisogno di personale medico, ma non sfrutta le nostre professionalità. Abbiamo lasciato il nostro paese perché non ci permettevano di studiare e lavorare, ma paradossalmente abbiamo trovato la stessa situazione anche qui”.

Così Sakina Hosseini: “ci dicono: ‘dimenticate le vostre lauree, i vostri ruoli, il vostro passato, ricominciate dalla terza media, andate a fare le badanti’. Le donne in Afghanistan muoiono per le loro lotte. Qui in Italia moriremo lentamente”.

C’è da dire inoltre che, in alcuni casi, l’organizzazione gerarchica familiare preclude la libertà individuale e l’autodeterminazione anche nei paesi di destinazione. 

La Commissione di ascolto del Tribunale delle donne ha inviato alla Convenzione sull’eliminazione di ogni forma di discriminazione contro le donne (Convention on the Elimination of all forms of Discrimination Against Women, Cedaw) un documento di testimonianza e di denuncia su tutte le problematiche che incontrano le donne afghane in Italia. 

Rispetto al riconoscimento dei titoli professionali, si stanno verificando la funzionalità del Centro informazioni mobilità equivalenza accademiche (Cimea) e degli uffici dei ministeri competenti, coinvolgendo alcune parlamentari.

Come a dire che, quello che non riescono a fare le politiche ufficiali e gli stati, lo realizzano nel frattempo le alleanze tra donne, nell’attesa che, prima o poi, si uniscano anche (e finalmente) le istituzioni.

Note

[1] Tutta la documentazione del progetto, compreso il documentario, si trova nella pagina “Progetti” del sito della Casa internazionale delle donne di Roma.


Ginevra Demaio, Isabella Peretti, Patrizia Sterpetti

15/7/2024 http://www.ingenere.it

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