Disoccupazione e precarietà. Ma tranquilli, va tutto bene

Va tutto bene. Aumentano i disoccupati, ma va tutto bene. Lo dicono anche esponenti del governo; lo affermano alte cariche del Partito democratico. A maggio rispetto ad aprile si sono persi 51mila posti di lavoro, ma non c’è da preoccuparsi, lascia intendere il ministro del Lavoro, Giuliano Poletti, dal momento che “dopo il forte aumento registrato ad aprile, la diminuzione degli occupati registrata a maggio non muta le tendenze di medio-lungo periodo dell’occupazione”. Sulla stessa lunghezza d’onda tutto il PD, che esprime coralmente lo stesso ottimismo di Poletti, sia pure con toni differenti: un po’ smorzato quello di Cesare Damiano, per il quale “I dati vanno valutati nel medio-lungo periodo. Saranno importanti le scelte del Governo nella prossima legge di Bilancio sul tema del lavoro”; addirittura entusiasta quello espresso dalla vicepresidente del gruppo PD alla Camera, Alessia Morani: “Io direi che per valutare davvero la bontà o il fallimento di una scelta politica sia più utile giudicare i risultati anno su anno. Oggi siamo comunque a +800.000 posti di lavoro rispetto al 2014”.

Peccato che posti di lavoro non sia sinonimo di occupati (basti pensare che nel 2016 i 9.434.743 rapporti di lavoro attivati hanno interessato 5,5 milioni di lavoratori) e peccato che se l’Italia non è il fanalino di coda dell’Europa è solo perché sul tasso di disoccupazione Spagna e Grecia fanno peggio di noi. Dati Eurostat alla mano, il nostro Paese, con un tasso di disoccupazione salito all’11,3% è ben oltre quello registrato per la zona euro (stabile al 9,3%) e nella Ue (stabile al 7,8%). A peggiorare il quadro, l’ultima Nota mensile sull’andamento dell’economia dell’Istat segnala che “Nell’Area euro si consolida la crescita”, per l’Italia si parla solo di “una tendenza di fondo positiva” ma “in presenza di una pausa nella crescita nel settore manifatturiero, negli investimenti e nell’occupazione”. Si dirà che però l’economia italiana ha segnalato nel primo trimestre 2017 un tasso di crescita tendenziale dell’1,2%. Ma intanto, tocca leggere nella Nota trimestrale sulle tendenze dell’occupazione riferita al primo trimestre 2017 pubblicata congiuntamente da Istat, il Ministero del lavoro e delle politiche sociali, l’Inps e l’Inail, che “l’input di lavoro misurato in termini di Ula (Unità di lavoro equivalenti a tempo pieno) mostra una dinamica più lenta di quella del Pil (+0,2% sotto il profilo congiunturale e +0,8% in termini tendenziali) segnalando una tendenza alla crescita della produttività del lavoro” [2]. Quale tipo di lavoro ha permesso una crescita del Pil? Dalle rilevazioni disponibili non certo il lavoro buono, cioè non certo quello stabile, ben pagato e garantito nei diritti dei lavoratori.

L’Istat, nella sua nota di maggio sull’occupazione, evidenzia che “diminuisce il numero di lavoratori indipendenti e dipendenti a tempo indeterminato mentre aumentano i dipendenti a termine. Tant’è che “Nel mese di maggio 2017” “Tra i dipendenti il calo è determinato dai lavoratori permanenti (-0,2%, -23 mila) a fronte di un leggero aumento di quelli a termine (+0,4%, +10 mila)”. Da questo punto di vista, per quanto ne dicano dalle parti del governo e da quelle del Pd, anche se su base annua si nota un risibile (un misero 0,6%) aumento degli occupati, questi riguardano in misura marginale i permanenti (+0,8%), mentre i contratti a termine crescono dell’8,2%.

Più nel dettaglio, i voucher continuano ad essere utilizzati (nel primo trimestre 2017 hanno visto una riduzione solo del 2,1%) anche per l’incetta fatta dalle aziende in vista della loro abolizione. Un’abolizione che si è rivelata essere truffaldina, ma intanto le imprese si sono date da fare ricorrendo a contratti di lavoro a termine, intermittente e di somministrazione, che dai dati Inps risultano essere in “forte aumento”; una crescita – continua l’Inps – da mettere “in relazione alla chiusura della possibilità di acquistare voucher per remunerare i prestatori di lavoro occasionale” [3]. E così, risulta dalla citata nota trimestrale che il numero dei lavoratori a chiamata o intermittenti “dopo 4 anni di progressiva riduzione tendenziale, interrotta solo dal leggero rimbalzo del quarto trimestre 2016 (+2,5%), nel primo trimestre 2017 subisce un notevole incremento (+13,1%)”. Una enormità di contratti a termine, considerando pure che “il contratto a Tempo Determinato si conferma contratto prevalente e si attesta al 70% del totale attivazioni dell’anno”. [4]

Di cosa parliamo, fuori dalla freddezza dei numeri? Parliamo di centinaia e centinaia di migliaia di lavoratrici e lavoratori che oggi sono occupati e domani no (a proposito, si consideri che l’Istat considera occupato chi nella settimana di riferimento abbia svolto almeno un’ora di lavoro, anche non retribuito). Giovani e meno giovani, donne e uomini, che si vedono attivare un contratto di lavoro che nel caso di contratti di somministrazione quasi sicuramente (oltre il 99% dei casi) durerà meno di un anno; molto probabilmente durerà meno di un mese (per il 74,8% dei casi) o addirittura un solo giorno (il 28,5% dei contratti di somministrazione) [5]. Come a dire che quell’aumento di Pil che tanto ha fatto gioire anche gli industriali [6], si basa per molta parte sul lavoro precario, sempre più precario, con sempre meno diritti a tutela dei lavoratori, con un salario sempre più basso. Un lavoro che determina quella miserabile accumulazione portata avanti a forza di aumenti della produttività che si reggono sull’impoverimento dei lavoratori.

D’altronde è passato poco più di un anno da quando l’allora presidente di Confindustria, Giorgio Squinzi, parlando dei rinnovi contrattuali, affermava candidamente che “La quota del valore aggiunto che va al lavoro è ai massimi storici, mentre la redditività delle imprese è ai minimi, con un impatto negativo sulla dinamica degli investimenti e sulla crescita, anche futura”. Come a dire Cari lavoratori, guadagnate troppo! E quando voi, cari lavoratori, guadagnate troppo, siete causa di “una forte erosione dei margini di profitto” e questa situazione “scoraggia gli investimenti, il cui minor livello indebolisce la crescita, anche futura”. Ed ecco che i nuovi contratti garantiscono ai metalmeccanici aumenti salariali per miserabili 80 centesimi al terzo livello (non è un errore: 80 centesimi!) ed ai chimici toglie 22 euro dei 35 previsti.

Tutto bene, quindi, ma solo per i padroni, che sfoggiano all’occorrenza sorrisetti alla Farinetti e sostengono e ripetono come un mantra che l’Italia per salvarsi deve raddoppiare turismo ed esportazioni, quindi, per dirla con il fondatore di Eataly, che ci si salva solo se “riusciamo a raddoppiare i volumi non solo quantitativi ma anche di prezzo medio sulle nostre vocazioni” [7]. E per far questo occorrono lavoratori a basso costo, che producano merci da vendere all’estero; lavori che si facciano un mazzo così con la spada di damocle della disoccupazione sulla testa; lavoratori precari, quindi, o a tempo indeterminato ma ricattabili con il licenziamento e a cui togliere progressivamente ogni diritto: dall’articolo 18 alla possibilità di scioperare.

E’ il capitalismo, bellezza. Che della crisi ha approfittato per frantumare ulteriormente il lavoro, anche attraverso la scomposizione del ciclo produttivo in una miriade di appalti e contratti di esternalizzazione, per garantirsi profitti da far pagare ai lavoratori. E mentre i camerieri del padronato ci invitano a non guardare ai dati congiunturali, è stata posta quella frammentazione come base strutturale della produzione di valore. Nel frattempo, noi guardavamo, colpevolmente, con troppa attenzione a sempre nuovi e troppo uguali soggetti unitari della sinistra; noi stavamo, colpevolmente, troppo spesso nei teatri e troppo poco impegnati nella “unione sempre più estesa” dei lavoratori [8].

Sarà il caso di cambiare strategia, facendo irrompere il conflitto nella realtà, ridandogli protagonismo nei luoghi dello sfruttamento. E sarà il caso di farlo velocemente.

Note:
[1] Vedi tabelle Eurostat Harmonised unemployment rate by sex
[2] Nota trimestrale sulle tendenze dell’occupazione, I trimestre 2017, pubblicata il 27 giugno 2017
[3] Osservatorio sul Precariato, Dati sui nuovi rapporti di lavoro, report mensile gennaio-aprile 2017
[4] Rapporto annuale sulle comunicazioni obbligatorie, Ministero del lavoro e delle politiche sociali, 2017
[5] ivi
[6] Vedi Scenari economici n. 29 del 28 giugno 2017 pubblicato dal Centro Studi Confindustria
[7] W. Bukowski, La danza delle mozzarelle. Slow Food, Eataly, Coop e la loro narrazione, Edizioni Alegre, febbraio 2016
[8] Marx – Engels, Manifesto del Partito Comunista

Carmine Tomeo

9/7/2017 www.lacittafutura.it

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