Diteci che cosa stiamo sbagliando
Dopo otto mesi senza reddito, per gli operai della ex-Gkn il Ministero ha autorizzato una nuova cassa integrazione straordinaria e retroattiva, portando avanti la tattica del logoramento della lotta operaia, mentre il Parlamento europeo approva il piano di incremento della produzione militare dei singoli Paesi. La transizione pianificata dal basso diventa allora terreno di affermazione ancora più impellente per una nuova visione della produzione e della società: il “modo di produzione” torna all’ordine del giorno. Infatti gli operai della GKN, insieme a un gruppo tecnico-scientifico, hanno sviluppato un piano per la reindustrializzazione dal basso del sito produttivo
1. Per questo
Dopo otto mesi senza reddito, per gli operai della QF (“Fiducia nel futuro della fabbrica di Firenze”, la ex-Gkn così ridenominata dall’acquirente Borgomeo) il Ministero ha autorizzato, ormai un mese fa, una nuova cassa integrazione straordinaria e retroattiva, con una mossa inedita sul piano giuslavorista. Si tratta di un ammortizzatore non motivato dalla cessazione dell’attività, nonostante la messa in liquidazione dell’azienda, ma una cassa in deroga senza causale specifica, concessa a un’azienda che prima della chiusura aveva un bilancio in attivo e che Borgomeo aveva rilevato con il compito di farla ripartire. La cassa in deroga retroattiva rappresenta una novità legislativa recente, introdotta con il “decreto lavoro” dello scorso 1 maggio poi convertito in legge: come vedremo sotto, uno dei molteplici regali alle imprese del governo italiano in carica. L’ammortizzatore, inoltre, non è stato concordato con le rappresentanze sindacali e non è dunque vincolato ad alcun accordo. Nonostante tutto ciò, questo consentirebbe fino a dicembre 2023 di tirare il fiato alle trecento famiglie sempre più strette nella morsa della discontinuità di reddito, del carovita e della morosità incolpevole. Con la retroattività della cassa, le rsu rivendicano allora il reintegro immediato dei colleghi indotti ingiustamente a licenziarsi.
Sebbene autorizzata, per oltre un mese la cassa non è stata effettivamente erogata fino a che il collettivo di fabbrica ha prima occupato gli uffici dell’Inps, poi per una settimana la torre San Niccolò in centro a Firenze. Meschina e stracciona oltre le aspettative, fino a che non è stata messa al muro, l’azienda non trasmetteva gli iban corretti e i flussi dei suoi dipendenti all’Inps. Dalla cima della torre, gli operai rivendicavano con urgenza gli immediati pagamenti dell’Inps e il rispetto del contratto collettivo nazionale e l’avvio del processo di reindustrializzazione degli stabilimenti produttivi, trovando ancora una volta una grande sostegno dalla città e dallə solidalə, accorse immediatamente in svariate centinaia ai piedi dell’edificio.
Al tempo stesso, tuttavia, il collettivo denuncia il pericoloso precedente della vicenda tra Borgomeo e l’Inps, tra imprenditore privato e istituzione pubblica. Il padrone non paga lo stipendio per otto mesi, senza alcun dimostrato motivo economico, anzi dopo aver rilevato l’azienda con l’obiettivo della ripartenza, al di fuori dunque di ogni legalità; lascia tre centinaia di nuclei famigliari in estrema difficoltà economica, e poi impone che il governo intervenga con decretazione d’urgenza per sopperire all’arbitrarietà arrogante del privato con le casse pubbliche.
Il governo, pienamente interno e funzionale alla tattica del logoramento della lotta operaia, autorizza l’ammortizzatore sociale a un’azienda priva di piano industriale e di prospettive e lo fa retroattivamente, con una misura ad hoc nel decreto lavoro.
L’obiettivo comune del padrone- liquidatore e del Governo è quello di far fallire il progetto di reindustrializzazione e svendere gli stabilimenti della ex-Gkn in un’operazione di speculazione immobiliare, magari a favore di una delle multinazionali della logistica che da tempo hanno colonizzato la piana fiorentina. Lo stesso intervento pubblico, se accompagnato da una volontà politica differente, potrebbe invece servire al rilancio della fabbrica e al progetto di reindustrializzazione messo a punto dal basso dagli operai. Lo scorso 2 marzo, nell’ultimo incontro tenutosi al Ministero, di fronte all’ennesimo diniego di un intervento pubblico a sostegno del piano di reindustrializzazione operaio, una rsu della fabbrica ha così espresso la sua rabbia: «diteci che cosa stiamo sbagliando». La cassa integrazione dovrebbe (condizionale d’obbligo) essere concessa fino al dicembre 2023: altri sei mesi di respiro per gli operai in lotta che, sommati ai precedenti, porteranno a ben due anni la durata dell’ammortizzatore per la vertenza Gkn. Il pubblico si fa carico di mantenere dormienti gli operai attraverso l’erogazione della cassa in deroga e aspettando che pian piano, a fuoco lento, ognuno di loro decida di abbandonare la lotta e trovare occupazione altrove.
Come già scrivevamo mesi fa, governo e Regione puntano a logorare lentamente la lotta. Disinteressati a sviluppare una politica industriale pubblica, la loro tattica è fin troppo evidente: non fare nulla, lavarsene le mani, perdere tempo in attesa che lo stabilimento, privo di alternative, possa essere svuotato e svenduto. Per ricapitolare sinteticamente: prima (gennaio- novembre ’22) l’advisor- compratore Borgomeo non presenta nessun piano industriale concreto, ma solo vuote dichiarazioni di una presunta transizione al farmaceutico; poi smette di pagare arbitrariamente gli stipendi (novembre ’22) chiedendo l’intervento pubblico dell’Inps, inizialmente rigettato; poi (gennaio ’23) apre allora una nuova richiesta di cassa integrazione, questa volta per riorganizzazione industriale, che le rsu accolgono vincolandola però allo scouting pubblico per la verifica dei progetti di reindustrializzazione; poi (febbraio ’23) dichiara la messa in liquidazione della fabbrica, con la definitiva rinuncia alla ripartenza e l’ipotesi di una svendita al miglior offerente di stabilimenti e macchinari. Intanto il sindaco di Firenze Nardella (Pd) invita gli operai alla calma, il presidente di regione Giani (Pd) se ne chiama fuori dichiarandosi non competente, e Borgomeo stesso accusa il presidio operaio di “fare politica” e di ostacolare lo sviluppo di un piano industriale. Infine (maggio ’23) il Ministero approva il “decreto lavoro” in seguito al quale, con decretazione d’urgenza e retroattiva, concede quella cassa integrazione inizialmente rigettata per inadempienze dell’azienda, ma senza alcun accordo con le rappresentanze sindacali.
La rana viene cotta a fuoco lento, ma vi sono rane che, agitate dal calore della lotta e dell’insorgenza solidale, saltano fuori dal paiolo. Deve questo essere il secondo caso: ne va, a mio avviso, ben di più che della singola vertenza e delle – pur fondamentali – trecento persone coinvolte.
Gli operai, insieme a un gruppo tecnico-scientifico (ingegnerə, economistə, studiosə delle imprese recuperate, storichə del lavoro e delle relazioni sindacali) hanno ormai da tempo sviluppato un piano per la reindustrializzazione dal basso del sito produttivo. Si tratta a oggi dell’unica ipotesi concreta per il rilancio degli stabilimenti; eppure le istituzioni continuano a ignorarla. Il piano si articola su due direttrici fondamentali.
La prima riguarda la produzione di pannelli fotovoltaici con tecnologia “a pellicola”, dunque indipendenti da litio, silicio o terre rare, brevettata da una start-up italo-tedesca disponibile a investire il proprio progetto sulle forze produttive di Campi Bisenzio. La seconda, di minor scala, si dedica invece alla produzione delle cargo-bike, realizzate interamente nello stabilimento con l’utilizzo di materiali di recupero e beneficiando dei disegni di una rete di imprese emiliane. Filiera delle rinnovabili e mobilità dolce e sostenibile sono le due direttrici su cui immaginare il futuro – quello vero – non solo della fabbrica di Firenze, ma di tuttə noi. Con il Piano, il Collettivo avanza una visione politica della fabbrica “socialmente integrata”, intesa come luogo della “transizione ecologica dal basso” (vedi sotto), di relazione con il territorio e di convergenza tra lotte, istanze e bisogni della società (per un’analisi complessiva e dettagliata del piano si veda il precedente articolo). Ma ci vogliono, come per tutte le belle cose, i dindi…
La scorsa domenica 18 giugno, un’assemblea pubblica operaia- ecologista si è confrontata nel merito del piano di reindustrializzazione dal basso e sul sostegno sindacale e politico che richiede in questo momento. Non è così usuale che delegatə sindacalə, vertenze del sindacalismo di base, imprese recuperate da cooperative di ex-dipendenti, Fridays for future e attivistə dell’ecologia politica incrocino analisi e programmi e si confrontino sulle strategie di lotta “per questo, per altro, per tutto”. Il Collettivo di fabbrica ha fatto il punto sull’auto-recupero dell’azienda e la riconversione ecologica degli impianti. La nuova società sarebbe sostenuta in parte dalla costituzione in più fasi di un azionariato popolare, e in parte da un intervento pubblico di partenza. Dopo una prima fase entusiasmante e vincente del crowfunding, che ha raggiunto in un batter di ciglio oltre il doppio della cifra preventivata (174.000 €) – e che avrebbe raggiunto ben di più, se non fosse lo stesso Collettivo ad aver temporaneamente chiuso la raccolta – si apre ora una seconda fase, rivolta a investitori di taglia maggiore, per raggiungere la soglia prevista per la capitalizzazione iniziale della cooperativa operaia, che intanto nel corso della primavera ha ricevuto le manifestazioni d’interesse per chi voleva esserne socio e di recente costituzione. Soggetti singoli, enti pubblici, cooperative solidali, associazioni, fondazioni sono chiamate a questa “impresa comune”. Dall’altra parte, l’intervento pubblico può comporsi in varie forme: l’anticipo dei 24 mesi di Naspi che spetterebbero a ciascun socio dipendente, procedura prevista per la pratica di auto- recupero (Workers Buyout) di un’impresa in forma cooperativistica; l’intervento di Cfi (Cooperazione Finanza Impresa), investitore istituzionale sui progetti cooperativi, partecipato e vigilato dal Ministero – insieme a Invitalia, ai fondi mutualistici di Legacoop e Confcooperative, ecc. – che potrà finanziare il capitale sociale dell’impresa se decidesse politicamente di considerare la liquidazione della ex-Gkn come un fallimento aziendale non dichiarato, e su cui dunque applicare la “legge Marcora” (l. 49/1985, che destina fondi per la formazione di cooperative di ex-dipendenti di aziende in crisi); infine, la garanzia della Regione Toscana sui prestiti bancari, che consentirebbe un accesso al credito agevolato e sicuro per la cooperativa nascente.
Alla base, un’idea molto semplice: che i fondi pubblici vadano investiti per una produzione destinata ai bisogni sociali del territorio, alla transizione e all’interesse generale, non regalati ai privati.
A questi potranno aggiungersi altri interventi, come il Fondo Legacoop a cui la nuova cooperativa si potrebbe associare. In attesa delle certificazioni definitive sul prodotto fotovoltaico, l’ipotesi societaria consiste in uno schema tripartito tra la cooperativa, la start-up e un Fondo sociale, per ora riservato, garantito dagli enti pubblici di cui sopra. In questo schema, la cooperativa operaia avrebbe l’onere sia di gestire il ciclo produttivo, sia di controllante della start-up, per assumere il 51% delle quote complessive della società nell’arco di quattro anni.
Dopo lo scorso 25 marzo, in cui la lotta della ex-Gkn aveva riportato oltre 20.000 persone in piazza a Firenze, nello scorso mese la mobilitazione del collettivo di fabbrica ha consolidato una vera sinergia e alleanza di classe con il presidio dei lavoratori in appalto di Mondo Convenienza, a due passi dalla ex-Gkn, in sciopero da oltre un mese insieme al sindacato Si-cobas, contro orari di lavoro disumani, straordinari non pagati, contratti truffa irregolari. Insieme a questo, altro richiamo centrale della visione politica della “fabbrica socialmente integrata” è stato la mobilitazione di Bologna, non solo quella di piazza del 17 giugno, ma quella solidale di tutto il mese successivo all’alluvione, contro le cause dirette della tragedia, la speculazione del cemento, il consumo di suolo, grandi opere del cemento e del fossile come passante di mezzo e rigassificatori.
2. Per altro
Mentre i fondi per difendere salari, reddito e servizi pubblici vengono smantellati, lo scorso 1 giugno il Parlamento europeo approvava il piano di incremento della produzione militare dei singoli Paesi proposto dalla Commissione di Van der Leyen (Asap: Act to Support Ammunition Production). Il nuovo regolamento prevede, in particolare, lo stanziamento straordinario di ulteriori di 500 milioni di euro per le spese militari comunitarie, che segue il rifinanziamento – anch’esso “straordinario”, se questa parola può avere ancora un senso – dello strumento europeo per la pace (European Peace Facility, EPF), destinato al sostegno miliare all’Ucraina, passato dai 5 ai 7 miliardi e prossimo a ulteriori incrementi. Le spese militari comunitarie si avvalgono così di un nuovo strumento finanziario, oltre all’ “ordinario” Fondo europeo della Difesa (Fes) per il quale erano stanziati nel bilancio Ue 2021-2027 8 miliardi. Inoltre, viene consolidato e reso costante il monitoraggio delle catene di approvvigionamento militare e favorita una maggior collaborazione produttiva tra paesi europei, attraverso la facilitazione normativa in materia di appalti congiunti che consentiranno acquisti in comune tra i vari paesi. Votata inoltre (art. 5 Asap) la fondamentale deroga sull’utilizzo per spese militari dei fondi di Coesione e Sviluppo e del Next Generation EU.
Il fondo da 500 milioni – in parte ricavati dal Fondo europeo della difesa, in parte dal Fondo per gli appalti Edirpa – potrà finanziare fino al 60% la produzione dell’industria bellica privata: piogge di fondi europei alle aziende produttrici di armi. Potranno accedere a questo partenariato pubblico- privato non solo aziende europee, ma anche extraeuropee: il sospetto va immediatamente sulle aziende americane che tanto hanno premuto sul riarmo dell’Europa, dopo la riunione dello scorso maggio di tutti i ministri della difesa della Nato con le principali industrie militari transatlantiche. Come ha ricostruito Salvatore Cannavò sul FQ, un reticolo opaco e segreto di commistione di interessi tra la Commissione Europea e le lobby militari si annida dietro Asap. Oltre alla realizzazione di nuovi assetti produttivi, sarà sostenuta anche l’ottimizzazione e modernizzazione delle capacità produttive esistenti. Il regolamento – votato con procedura d’urgenza – mira a incrementare la produzione fino al miliardo di munizioni entro l’anno prossimo, con il duplice obiettivo di sostenere un continuo invio di armi in Ucraina e di ricostituire le munizioni svuotate degli eserciti nazionali dopo quasi 18 mesi di conflitto. Non che ci fosse bisogno di conferme, il Commissario UE al mercato unico Breton ammetteva che «bisogna accelerare il passaggio a un’economia di guerra» e alla conversione militare degli apparati produttivi attraverso piogge di finanziamenti pubblici. La difesa e l’escalation bellica è conclamata tra le priorità UE.
Se il trattato originario sull’Unione Europea (Tue) vietava che nel bilancio comune rientrassero le spese militari, siamo indubbiamente di fronte a un passaggio storico dell’Unione, che va ricostituendosi su nuove basi e nuovi equilibri. Il 2% del Pil investito in spese militari diviene un obiettivo minimo: i paesi leader raggiungeranno la soglia del 4%, come nel caso della Polonia, ormai il più grande esercito europeo.
Hanno votato contro l’approvazione di Asap soltanto gli eurodeputati di Movimento 5 Stelle e Alleanza Verdi Sinistra, insieme alla restante delegazione del gruppo europeo della sinistra GUE/NGL, che si oppongono da prospettive neokeynesiane, ecologiste e multilateraliste (cioè pacifiste). A un anno dalle elezioni europee, si tratta di una votazione destinata a tracciare nuovi equilibri nel campo delle sinistre europee.
Non si può sminuire il ruolo centrale del governo Meloni nel riassestamento atlantista e “confederale” dell’Europa in guerra. La missione in Tunisia per l’esternalizzazione della frontiera ne è la rappresentazione più plastica. Bisognerà attendere i prossimi sviluppi, per verificare quanto la formula della coalizione di governo italiana (popolari, sovranisti di “Identità e democrazia” e neocon di “Conservatori e riformisti europei”) possa estendersi in Europa, come dibattuto recentemente sulle pagine del “Corsera”. Difficile immaginare il Pse fuori dalla governance, ma significativo che dalle colonne del quotidiano più venduto d’Italia aleggi esplicitamente questo scenario. La bocciatura in commissione ambiente della legge sul ripristino della natura – poi approvata in sede plenaria dell’Europarlamento – con il voto contrario proprio di popolari, sovranisti e conservatori, sembrava una prova tecnica di nuove maggioranze europee. L’opposizione alla legge europea del governo Meloni riprendeva il vecchio slogan per cui la transizione ecologica non deve danneggiare l’economia. Prima il profitto.
Intanto, il governo italiano chiudeva le porte alle pressioni sul salario minimo legale e convertiva in legge il “decreto lavoro” del 1 maggio, con l’eliminazione del Reddito di Cittadinanza e la sua sostituzione, in misura drasticamente ridotta, con il programma “Supporto formazione lavoro”. Per gli occupabili tra i 18 e i 59 anni che non hanno disabili, minori o ultra 60enni nel nucleo famigliare, rispetto al precedente istituto di sostegno al reddito, si tratta di una riduzione sia dei criteri isee di accessibilità, sia della durata (12 mesi non rinnovabili), sia dell’erogazione (350€ mensili), sia della possibilità di valutazione sulla congruità della proposta di lavoro (obbligo di accettare qualsiasi proposta congrua entro gli 80 km dal domicilio).
Aumento dei tassi d’interesse, restrizione monetaria, reintroduzione del Patto di stabilità, contrazione della spesa e dei servizi di welfare e riarmo massiccio costituiscono i pilastri di un processo di ridisciplinamento violento dello spazio politico europeo sotto l’egida finanziaria e militare degli Usa.
La mobilitazione contro la guerra è stata pressoché assente sullo spazio politico transnazionale: anche di fronte a scioperi di massa, come in Inghilterra e in Francia, a scioperi di categoria per gli aumenti salariali, capaci in taluni casi di incrociare le lotte ecologiste, come in Germania, o a mobilitazioni massificate per il rifinanziamento della sanità pubblica, come in Spagna, in nessuno di questi casi la connessione transnazionale contro il regime di guerra è sbocciata. In più luoghi, e in numerosi dibattiti, si è discusso di questa mancanza, degli elementi oggettivi e dei limiti soggettivi che la qualificano. Ma proprio contro la guerra, a maggior ragione, il “metodo” della convergenza dovrebbe spingerci ad andare oltre se stessi, oltre alla propria identità storico- politica, alla pretesa e difesa ostinata dell’egemonia su singoli percorsi di lotta, alle accelerazioni escludenti.
Ecco, allora, che da qualche parte sbagliamo ancora e troppo. Al livello dell’offensiva reazionaria e bellicista sullo spazio europeo, può (ambire a) collocarsi soltanto una cooperazione sociale, reticolare diffusa tra lavoratorə, migranti, comitati territoriali, movimenti, ecologismo radicale, associazioni pacifiste, cattolicesimo sociale, partiti della sinistra, e via dicendo, tra tuttə coloro che si oppongono all’economia di guerra senza esclusioni stabilite a tavolino, ma nella convinzione che la combinazione possa essere generativa, moltiplicare le energie e non semplicemente sommarle. Una combinazione sperimentale di pratiche e storie politiche differenti, eppure tenute insieme dall’orizzonte comune di un’ecologia di pace contrapposta all’economia di guerra. Proprio le mobilitazioni per la giustizia climatica hanno saputo, più di altre, ricostituire reti transnazionali capaci sia di coordinamento strategico, sia di confronto politico costante.
3. Per tutto
In Gkn proviamo a immaginare, insieme, il futuro: Gkn for future. La fabbrica rappresenta un reale luogo di ritrovo per molte reti e percorsi di lotta climatica e sindacale. Si immagina, come sempre, a partire dalle pratiche, dalle relazioni presenti, dal “vissuto”, dal cosa e come si fa insieme: difficile immaginare con chi ti guarda male. Il discorso e l’immaginario si formano dentro le pratiche e lì vi ritornano come materia viva capace di amplificarle e allargarle. Le pratiche collettive dell’ecologia politica e i processi di transizione ecologica dal basso sono, su scale variabili e molteplici, un terreno di sperimentazione ontologica di un nuovo modo di relazionarsi con la vita, la Terra, e di apertura di un nuovo “senso” dell’essere. Tali processi stimolano l’immaginazione di forme istituzionali corrispondenti, a stretto contatto con la vita delle persone e dei territori, che sappiano al tempo stesso sostenere nella durata i molteplici esperimenti e fronti di lotta e favorire la loro articolazione.
Con il Piano operaio di reindustrializzazione ecologica della fabbrica, si afferma un’immagine materiale e alternativa della “giusta transizione” pianificata dallə lavoratorə. La transizione ecologica dall’alto, fondata sull’ipotesi della crescita verde, mette al centro il progresso tecnoscientifico e il sostegno all’imprenditoria e all’innovazione tecnologica delle imprese, a discapito della tutela e della dignità del lavoro. Essa è utilizzata per giustificare lo smantellamento di posti di lavoro e, paradossalmente, i continui investimenti sull’estrazione e trasporto di gas. Si ipotizzava che, internalizzando il vincolo ecologico, esso potesse essere non più un limite dello sviluppo capitalistico, bensì il fondamento di un nuovo ciclo di accumulazione. Il fallimento della Cop26 di Glasgow, da molti salutata come l’ “ultima Cop”, seguita agli impegni non soddisfacenti di Parigi, hanno segnato il fallimento completo dell’iniziativa dall’alto della governance climatica. Dal ripensamento in chiave ecologica del lavoro e dei rapporti sociali complessivi di produzione, e dalla conversione verso le fonti di energia pulita, passa la nostra capacità di pianificare la riparazione politica della crisi climatica e di istituire nuove forme democratiche.
La transizione pianificata dal basso diventa terreno di affermazione di una nuova visione della produzione e della società. La categoria di “modo di produzione” torna all’ordine del giorno. La reindustrializzazione della Gkn e la vittoria della vertenza specifica rappresenterebbe, per questo e per altro, un tassello non secondario, simbolicamente decisivo sebbene materialmente parziale.
Certo, smettere di estrarre e bruciare combustibili fossili è essenziale, ma non l’unica risposta nello scenario complesso della crisi climatica, in cui politiche di ripristino della natura, manutenzione preventiva e cura costante dei territori, trasporto pubblico capillare sono parallelamente urgenti. Ciò detto, dalla ex-Gkn proviene una proposta politica avanzata, in un Paese che procede molto più lentamente di altri nella transizione ecologica, che ha ridotto negli anni Dieci gli incentivi alle rinnovabili a favore di accordi commerciali sul gas, in cui il mercato dell’energia pulita è in trend calante, i fondi del RepowerEU sono dirottati su impianti di Eni e di Snam (rigassificatori, rete adriatica gasdotti, impianti di cattura di co2) e non esiste una strategia di sviluppo di batterie meno dannose di litio e cobalto (diverso il caso di altri Paesi, come gli Usa, dove la progettazione di batteria a base di alluminio, zolfo o ferro, è in forte sviluppo). Seppur virtuoso e avanzato, non è di certo questo l’unico caso di una lotta che abbia saputo mobilitare il proprio territorio e articolare bisogni sociali e transizione ecologica in un’alternativa praticabile. Non siamo infatti a corto di idee, abbiamo moltissimi progetti: sui pannelli solari, sull’elettrificazione del trasporto e degli edifici, sulle centrali eoliche in luogo di centrali a carbone o a gas, sulla mobilità pubblica e sostenibile contro la cementificazione dilagante e semplificata del post- pandemia; sul salario minimo legale, sull’estensione del reddito di cittadinanza, sulla riduzione delle disuguaglianza, sulla a tassazione progressiva sui grandi patrimoni; alternative agroecologiche e contadine, che lottano contro la filiera agroalimentare industriale. Abbiamo molti progetti, ma manca indubbiamente un’immagine complessiva di come questi si incastrano insieme.
Brevissima digressione filosofica. Come noto, Spinoza aveva riconosciuto una specifica potenza dell’immaginazione: quella di istituire un ordine proprio delle rappresentazioni, i cui effetti si possono ritrovare nella memoria collettiva e nel linguaggio. Secondo il celebre esempio spinoziano, gli esseri umani immaginano il sole a soli duecento piedi e, anche quando apprendono scientificamente la reale lontananza che li separa dall’astro solare, non per questo cessano di immaginarsi vicini al sole. Non si esce mai dall’immaginazione. L’immaginazione non è la facoltà di un soggetto che riproduce un oggetto (il sole), ma l’effetto delle relazioni (fisiche e affettive) tra corpi, che affettandosi depositano immagini uno sull’altro e si immaginano (positivamente o negativamente) insieme. L’immaginazione è associazione continua delle singole immagini e relazioni in una visione d’insieme. Per Althusser, spinozista eretico, è un rapporto “vissuto” con i rapporti “reali”, o più semplicemente un modo di sentire la realtà sotto la pelle.
In quanto tale, l’immaginazione è una forza associativa che può costituire legami e connessioni utili alla vita e, al tempo stesso, ingannare. Essa richiede di sedimentarsi in forme comuni, non individualizzate né identitarie (fuori, cioè, dalla coppia individuo- identità), pena il delirio e lo squilibrio costante. La vivida immaginazione dei profeti è generativa di un modello di vita in comune per gli Ebrei in fuga dalla schiavitù d’Egitto. Ciò che associa le immagini in un immaginario collettivo è quella possibilità di “far vedere” l’invisibile: i precetti morali di Dio nel loro caso, la crisi climatica e l’azione antropica all’origine dei gas climalteranti nel nostro. Riprendendo, nel Novecento, il tema della potenza performativa dell’immaginazione, Cornelius Castoriadis la intende proprio non come un insieme di immagini da incastrare insieme, ma la capacità di associare ciò che sembra slegato, mostrare come relazione ciò che è ancora invisibile, e così instaurare nuovi ordini simbolici e discorsivi.
L’immaginazione è un campo di battaglia fondamentale, oggi dominato dalla produzione neoliberale di individui in competizione tra loro, affannati a far sempre di più ma perpetuamente insoddisfatti. È la forza associativa e strutturante dell’immaginazione a risultare fondamentale per la convergenza: l’insistenza nel generare relazioni e combinazioni tra dimensioni distanti della società. Torniamo al concreto.
La lotta dentro la ex-Gkn costituisce un patrimonio prezioso per la convergenza di pratiche e differenze in un immaginario condiviso e desiderabile. Non per merito soltanto degli operai del collettivo di fabbrica, ma per la confluenza intorno ai cancelli di Campi di movimenti eco- climatici, studenteschi, occupazioni abitative, lotte sindacali di svariate single e appartenenze, mobilitazioni transfemministe, pacifistə, circoli, associazioni, parrocchie, partiti, fabbriche recuperate, ricercatorə solidalə, comunità energetiche, vertenze ambientali, esperienze contadine genuine, mutualismo, case editrici, ecc. Incontrandoci a Campi Bisenzio, ci siamo fattə pezzi di un puzzle ancora molto fragile.
La convergenza si è proposta come un metodo politico istituente, in cui le relazioni sono generative ed esperienze di lotta differenti si integrano e ampliano reciprocamente, tenute insieme da un orizzonte comune dell’alternativa socio- ecologica materiale. Si è posta la necessità di rompere la gruppuscolizzazione della sinistra radicale, di uscire dal recinto della “propria” lotta conservata con attaccamento, di rinunciare a pratiche o discorsi identitari. Solo questo ha potuto liberare una forza di immaginazione collettiva che tuttə vivono dentro e sotto la pelle, ognunə a proprio modo e con la propria specificità. La sperimentazione di nuove relazioni ha moltiplicato la capacità di raggiungere persone e ambienti sopiti. Con l’ambizione che tale sperimentazione si estenda alla società nel suo complesso. Chi scrive, ad esempio, non avrebbe mai onestamente creduto di trovare in un collettivo di metalmeccanici gli alleati delle lotte sul welfare universale e sulla giusta transizione fuori dal capitalismo fossile. Eppure… bisogna quello che è. A due anni dall’occupazione della fabbrica, si tratta di insistere in questa direzione per costruire una durata del processo che vada oltre la vertenza della singola fabbrica.
Andrea Moresco
12/7/2023 https://www.dinamopress.it
Immagine di copertina di Luca Mangiacotti, “Convergere per insorgere” 22 ottobre Bologna
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