Diwan, il sogno di una cosa

L’ex primo segretario dell’ambasciata di Palestina in Italia e deputato Ali Rashid racconta la situazione a Gaza e la sua iniziava di dialogo e confronto

La rottura della tregua a Gaza da parte del governo israeliano, di fatto già avviata da settimane con il blocco dei valichi di accesso ai convogli di aiuti umanitari, è deflagrata pochi mesi dopo l’avvio della cosiddetta fase 1 del cessate-il-fuoco. Da giorni l’aviazione dell’Idf ha ripreso a bombardare la Striscia facendo centinaia di vittime civili, cercando nel rialzo della posta in gioco sulle richieste per la liberazione degli ostaggi un seppur labile pretesto per l’avvio della seconda fase del progetto genocidiario in corso.

Oltre all’evidenza dei fatti, con presidi sanitari, giornalisti, operatori umanitari presi di mira indiscriminatamente dagli attacchi israeliani insieme ai civili, i crimini di guerra in corso sono apertamente dichiarati anche dai proclami di annientamento e deportazione da parte dei ministri di estrema destra del governo di Tel Aviv.

Alla ripresa delle operazioni di pulizia etnica non è mancata l’indignazione della comunità internazionale, non tanto intesa come quella degli Stati e dei loro governi, composti da maggioranze fra le più filo-sioniste di sempre, quanto invece della popolazione civile, che in molte città in Italia e in Europa è subito scesa in piazza a manifestare solidarietà al popolo palestinese per il rispetto dei diritti umani.

Fra gli attivisti di più lungo corso per la causa di autodeterminazione della Palestina in Italia c’è Ali Rashid, segretario nazionale dell’Unione generale degli studenti palestinesi (Gups), poi membro dell’Unione generale degli scrittori e giornalisti palestinesi, successivamente Primo Segretario dell’Ambasciata di Palestina in Italia, dove ha svolto anche l’incarico di deputato alla Camera nella XV Legislatura con Rifondazione Comunista, contestualmente al suo impegno nel Consiglio d’Europa. Fondatore insieme a Moni Ovadia e Michele Nardelli dell’associazione Mezzaluna Fertile del Mediterraneo, il suo impegno per la pace in Medio Oriente non è venuto meno in questa ulteriore recrudescenza di una catastrofe lunga decenni per la popolazione palestinese. Ho contattato Ali Rashid in occasione dell’ottava edizione di Diwan, una “Goccia per Gaza”, la cui attenzione stavolta era puntata sull’Europa «matrice del colonialismo che colpisce anche la popolazione gazawi, nel silenzio totale di governi come quello italiano, quasi un silenzio assenso, per la complicità negli affari con un governo come quello israeliano, condannato per crimini contro l’umanità».

Di fronte alla ripresa dell’aggressione israeliana, Rashid non trascura quei segnali della diplomazia internazionale con posizioni di condanna da parte di alcune cancellerie europee come quelle di Francia, Germania e Regno unito. Un cambio di approccio rispetto al precedente appiattimento sul «diritto alla difesa di Israele», con una reprimenda maggiormente in linea con le Nazioni unite sul cessate-il-fuoco per il ritorno alle trattative. Poca cosa e del tutto insignificante sul piano pratico certo, a fronte di quasi cinquantamila vittime e alla sistematica violazione del diritto internazionale da parte di Tel Aviv.

Lo stesso piano di ricostruzione arabo, coordinato dall’Egitto insieme a Qatar, Emirati arabi uniti e Arabia saudita, viene visto dal diplomatico palestinese come semplici «promesse a parole, senza un aiuto concreto dei governi», che «per la natura stessa di certi regimi antidemocratici e dell’influenza degli affari occidentali, sembrano limitarsi solo a propaganda, condizionata anche dalla divisione per l’egemonia medio-orientale».

Un altro elemento di discontinuità viene individuato da Rashid proprio nella portata delle operazioni militari di Israele «che oggi è una potenza regionale consistente, schierata sul fronte atlantico come la Turchia; e che ha sviluppato piani anche per rivedere gli equilibri nell’intera area, conducendo incursioni in Libano e Siria». Anche per questo si sono registrate reazioni di alcuni governi arabi soprattutto dovute alle «preoccupazioni per la stabilità e la sicurezza nazionali, derivanti anche dal rischio di dover accogliere troppi sfollati, per il disegno strategico di nuove annessioni israeliane».

A questo proposito l’ex parlamentare invita a considerare anche i progetti di pulizia etnica in Cisgiordania, dove il ministro dell’estrema destra israeliana Smotrich, appena tornato in carica dopo la ripresa dei bombardamenti dell’Idf, «dichiarava di voler tredici nuovi insediamenti, alzando la bandiera con la stella di David nella West-Bank, come parte del territorio d’Israele». Qui la violenza colonialista di Tel Aviv dilaga in particolare nei campi profughi di Jenin e Tulkarem con devastazioni e continui sfollamenti delle persone. D’altro canto «l’Autorità nazionale palestinese (Anp) sta portando avanti – secondo Rashid – una reazione di sola condanna di per sé molto debole nella richiesta del rispetto del diritto internazionale, mantenendo l’accondiscendenza al disegno degli accordi di Oslo che hanno portato a un finto Stato senza sovranità». A suo avviso «soprattutto dopo la scomparsa del leader Yasser Arafat, l’Anp ha perso qualsiasi credibilità di tutela della causa palestinese, imponendo logiche di potere con alcune forme di corruzione e con l’accantonamento delle consultazioni elettorali, fino a restare invisa a molte persone in Cisgiordania».

«Il fulcro del problema risiede negli Stati uniti e nel governo di destra israeliano – prosegue Rashid – che condividono l’obiettivo di guerra per arrivare a quella che è stata definita da Nyethaniau una ’vittoria definitiva’, termine raccapricciante che assomiglia alla ‘soluzione finale’ di una volta, se si considerano i piani di trasferimento forzato della popolazione, lasciata da venti giorni fra le macerie della guerra, senza medicine, né cibo». Analogamente a quanto accaduto nel 2023, per mantenersi saldamente al potere e superare problemi politici interni, come la votazione del bilancio, o peggio ancora guai giudiziari con il Qatargate, il primo ministro Netanyahu fa ricorso al conflitto bellico con la Palestina, utilizzando l’espediente del nemico esterno per compattare il consenso sul proprio operato.

Guardando le migliaia di persone scese in strada a manifestare a Gerusalemme e Tel Aviv però, si direbbe che l’indignazione per l’abbandono degli ostaggi al loro destino si sia unita al crescente malcontento per la malversazione del governo, soprattutto dopo la rimozione del capo dei servizi segreti dello Shin Bet, Ronen Bar, formalmente licenziato il 21 marzo scorso per il venir meno del rapporto di fiducia con l’esecutivo.

«Dall’inizio della ripresa del conflitto fra Israele e Gaza – afferma Rashid – si è delineata una spaccatura dentro la società israeliana su due questioni in particolare: sull’ordinamento giuridico e sul destino degli ostaggi di Hamas». Per questo «siamo di fronte a una nuova pagina per Tel Aviv, che esce dalla definizione di ‘unica democrazia del Medio Oriente’ per mostrare che, oltre al sistema di apartheid e alle colonie illegali a danno dei palestinesi, l’estrema destra assume un carattere eversivo anche rispetto allo stato di diritto e alle sue istituzioni democratiche». 

Nonostante le proteste possano far sperare in una maggiore presa di coscienza della spregiudicatezza del governo Netanyahu che piega l’incolumità di due popoli al proprio tornaconto politico, secondo Rashid «il destino dei palestinesi non è un elemento discriminante nel dibattito pubblico e nelle mobilitazioni israeliane, dove prevale l’approccio sionista e sembra perdurare il supporto all’aggressione su Gaza, eccezion fatta per una piccola minoranza». E fra le minoranze presenti in territorio israeliano ci sono anche cittadini di origine palestinese, rimasti dal 1948 e ora altrettanto sotto minaccia di espulsione verso Siria, Libano, Giordania o Egitto.

E la condizione di segregazione così come la violazione del diritto internazionale da parte soprattutto dell’espansionismo guerrafondaio sionista è un elemento insanabile della lotta di autodeterminazione palestinese, se si considera che «già la risoluzione n.181 del 1945 prescriveva accordi contravvenuti con l’espulsione in massa della popolazione e l’occupazione del 78% del territorio. Purtroppo l’inosservanza del diritto internazionale e delle risoluzioni dell’assemblea generale – ribadisce Rashid – sono un fatto cronico nelle rivendicazioni di pace e indipendenza della Palestina, che senza l’impegno vincolante garantito da altrettante potenze coinvolte, resta meramente sulla carta». 

Proprio per rimettere al centro del dibattito pubblico le questioni in corso, recuperando un’antica tradizione «di socializzazione e narrazione molto diffusa in Palestina, dove tutti i villaggi avevano un Diwan, come centro della discussione politica», dallo scorso anno Alì Rashid ha promosso a Firenze e dintorni incontri con questo titolo. «L’intento è quello di affrontare un problema fondamentale – spiega Rashid – tornando a un luogo comodo, da cui deriva anche il nome italiano della seduta da salotto, dove ci si trova a parlare per capire e risolvere i problemi in un contesto di scambio culturale, come avveniva nelle periferie dell’impero ottomano, quando erano le comunità locali a prendere le decisioni».

«Diwan, una goccia per Gaza» è un’iniziativa ospitata sotto il tendone da circo di InStabile e si compone di interventi di esperti, spettacoli artistici e momenti di convivialità e riflessione, che ha visto la partecipazione anche del Palestine Children’s Relief Fund (Pcrf) e di altre organizzazioni, invitate per «stimolare una coscienza diffusa a livello popolare e dei giovani sulla questione palestinese, nonostante il contesto di repressione e censura che dilaga in Europa e in altri paesi occidentali, come gli Usa», dove di recente lo studente della Columbia University e attivista palestinese, Mahmoud Khalil è stato arrestato con l’accusa di terrorismo.

Nel Diwan vere protagoniste sono le parole e secondo la presentazione di Rashid questo rappresenta «quello che Marx in modo suggestivo definisce ‘il sogno di una cosa’, il soggetto umano che attende il tempo che non c’è ancora, l’uomo inedito, in tensione verso il futuro, verso il suo adempimento per creare il futuro che non è più certezza ma è una pura ipotesi. Il futuro ci sarà se lo avremo creato».

Tommaso Chiti, attivista e coordinatore regionale del progetto Antifascist Europe della fondazione Rosa Luxemburg, è laureato in Studi europei alla facoltà Cesare Alfieri dell’università di Firenze.

1/4/2025 https://jacobinitalia.it/

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