Donne, migranti e braccianti

Le forme di autorganizzazione e rivendicazione di welfare dal basso delle lavoratrici dell’agricoltura nella provincia di Bari e dell’Arco ionico da Taranto a Cosenza

Nella provincia di Bari e lungo l’Arco ionico, da Taranto a Cosenza, le donne costituiscono una componente significativa della manodopera agricola. Sono 22.702 (16.801 italiane e 5.901 straniere), di cui il 76% comunitarie provenienti soprattutto da Romania e Bulgaria. A queste, dal marzo 2022, si sono aggiunte le rifugiate ucraine, in fuga dalla guerra e con progetti migratori maturati in una o due settimane. Né la protezione temporanea né la cittadinanza europea proteggono le donne da forme strutturate di sfruttamento e discriminazione che in molti casi regolano il lavoro nei campi.

L’autorganizzazione delle donne 

Nell’Arco ionico, le forme collettive di partecipazione delle lavoratrici agricole nei contesti sociali e lavorativi sono destrutturate, segnando una prima differenza significativa con i lavoratori uomini stranieri che – attraverso forme strutturate di leadership e associazionismo – esprimono rappresentanza sindacale, partecipazione sociale e un buon livello di dialogo con le istituzioni, soprattutto su scala locale. 

L’auto-rappresentazione delle donne si definisce principalmente attraverso l’appartenenza a piccole squadre di lavoro e quasi mai alla specifica categoria professionale, determinando così una sostanziale frammentazione che si traduce in invisibilità sociale e lavorativa. Le forme di rappresentanza femminile sono connesse ai sistemi sociali in cui le donne vivono e lavorano, e per comprenderli è necessario partire dalle loro peculiarità su base geografica e produttiva, dalla provincia di Bari alla Piana di Sibari. 

Nell’area del sud-est barese, tra le lavoratrici connazionali (italiane, romene e albanesi) sono state osservate relazioni forti, fondate su solidarietà e fiducia, che si estendono anche in ambiti extralavorativi. Non è raro imbattersi in lavoratrici che ne organizzano altre, che tengono relazioni con le parti datoriali svolgendo una funzione informale di micro-rappresentanza sindacale in un rapporto disintermediato con il datore di lavoro. La loro leadership prevale soltanto nella contrattazione economica e si arena quando è orientata a migliorare le condizioni di lavoro e di welfare. Le lavoratrici agricole più esperte, le caposquadra, sanno di avere l’esperienza e la capacità per provare a contrattare un salario giornaliero più alto, ma mai un tempo di lavoro più basso. Il tempo è infatti la variabile principale, che funge da discrimine tra qualità alta o bassa della vita. Ad aggravare questo quadro interviene talvolta la concorrenza tra braccianti singole e tra squadre di lavoratrici. In alcuni gruppi esiste una velata forma di esclusione verso le donne con minore esperienza lavorativa perché percepiscono la stessa paga, sebbene siano più lente nella raccolta e quindi «meno zelanti». Dalla discussione assieme a  gruppi di donne braccianti  sui rapporti di forza che sperimentano sul lavoro e nella società, nonché i diversi modi di organizzare il lavoro, sono emerse delle differenze riconducibili al genere delle datrici e dei datori di lavoro e alle loro convinzioni in merito a ruoli, aspettative e discriminazioni riguardanti le donne e gli uomini. Nelle imprese agricole a guida maschile, le lavoratrici hanno raccontato fin nei minimi dettagli il peso di essere economicamente dipendenti e di doversi conformare alle preferenze del proprietario dell’azienda che sistematicamente riserva un  trattamento più favorevole ai braccianti uomini. Sono state citate, come esempio, la tendenza ad una negoziazione al ribasso dei diritti, l’allungamento della giornata lavorativa e l’assenza di possibilità di conciliare tempo privato e tempo per il lavoro, con conseguente senso di colpa verso la famiglia, sovraffaticamento psicologico, rassegnazione, rancori contro l’impresa. Questi rapporti di forza riproducono sul lavoro quanto avviene in casa (con il partner/marito) e nella società (con gli uomini del territorio). Invece, secondo le donne che lavorano in un’azienda diretta da una imprenditrice, il livello di riconoscimento dei bisogni di genere, di cura e assistenza della famiglia è molto più alto, e ciò favorisce una forma di coesione identitaria con l’impresa. 

Il quadro emerso dall’analisi con e tra le donne evidenzia come qualunque erogazione di servizi per i diritti delle lavoratrici agricole debba tenere conto della necessità di ridurre quella che viene chiamata l’entropia produttiva, ovvero la progressiva compressione dello spazio di agency, nell’organizzazione aziendale, con il conseguente i adattamento spontaneo delle lavoratrici a una condizione di fatto che non si può modificare. Forme  di solidarietà tuttavia emergono quando  connesse all’efficienza delle squadre di lavoro, con lavoratrici di lungo corso che si rendono disponibili a formare le più giovani. Va sottolineato, a questo proposito, che i Contratti collettivi nazionali per il lavoro agricolo prevedono la formazione obbligatoria a carico dell’azienda. Tuttavia, il frequente spostamento tra aziende e colture produce uno slittamento della formazione a carico delle lavoratrici stesse

Nella Piana di Sibari e nell’area del metapontino, a causa dell’intermediazione illecita   esercitata da caporali, alcuni contesti lavorativi sono particolarmente problematici, inadeguati e financo degradanti. Qui, l’autorganizzazione è presente nei gruppi di donne che sono arrivate per prime e hanno quindi una maggiore conoscenza del territorio. Cinque anni è stimato come il tempo medio necessario per imparare a orientarsi rispetto ai diritti, ai servizi, ai trasporti e, dunque, per superare quella frammentazione relazionale solitamente vissuta da lavoratrici sottoposte a forme illecite di intermediazione di manodopera. Alcune donne migranti hanno raccontato che nessuna forma di solidarietà e organizzazione è possibile perché, al primo scambio o tentativo di instaurare relazioni nei luoghi di lavoro, vengono divise dai caporali e assegnate a campi diversi. Nelle «liste nere» degli intermediari illeciti si ritrovano anche le donne, prevalentemente straniere, che vengono molestate perché ritenute più ricattabili a causa delle loro condizioni di vulnerabilità. Molte si ribellano cercando un altro posto di lavoro e facendo circolare i nomi dei molestatori tra le altre operaie, in una forma di auto-protezione, ma poche si rivolgono alle forze dell’ordine o all’autorità giudiziaria per paura di ritorsioni, o perché non sono adeguatamente ascoltate. In generale, le donne tendono a non condividere il loro vissuto né a cercare aiuto presso i centri antiviolenza, di cui generalmente ignorano l’esistenza. In questo quadro, la diffusa carenza di servizi pubblici rispondenti ai bisogni delle donne svolge un ruolo determinante nei sistemi di reclutamento e gestione della manodopera femminile, amplificandone le condizioni di opacità lavorativa e invisibilità sociale.

Nel caso delle rifugiate ucraine, l’esperienza traumatica della guerra, le deboli reti personali nei territori di arrivo e l’avere minori a carico le ha portate ad accettare il lavoro agricolo per necessità. Le loro strategie di autorganizzazione differiscono a seconda dei contesti: sono molto forti quando si tratta di reperire informazioni sulle reti locali che si occupano di inclusione e integrazione ed estremamente fragili nella ricerca e mantenimento del lavoro. In quest’ultimo ambito, l’autorganizzazione si traduce in forme di solidarietà meccanica, ad esempio preferendo datori e luoghi di lavoro che impiegano conoscenti e familiari, soprattutto di genere maschile e della stessa nazionalità. Lo stato dei servizi pubblici è spesso inadeguato alle esigenze delle donne: si pensi alla strutturale carenza sul territorio di mediazione interculturale, di servizi demografici, di centri sanitari pubblici, e all’assenza di servizi per le famiglie con orari flessibili e coerenti con il lavoro agricolo. L’organizzazione della giornata lavorativa incide direttamente sugli spazi di partecipazione, contraendo di fatto le opportunità di confronto in luoghi sicuri e allargando la dipendenza dalle reti di intermediazione illecita come elemento chiave dello sfruttamento. I carichi di cura, le difficoltà nei trasporti da e verso il lavoro, contratti di affittonon registrati influiscono negativamente sul pieno accesso al diritto al lavoro. Nonostante siano state messe in atto misure pubbliche e private per sostenere un adeguato inserimento lavorativo, le donne rifugiate altamente qualificate trovano occupazione in settori a basso salario.  

L’alternativa promossa da «Cambia Terra»

 In questo contesto, ActionAid interviene dal 2016 attraverso il programma «Cambia Terra» ponendo al centro dell’azione l’analisi degli squilibri di potere che determinano l’invisibilità delle lavoratrici, favorendo la loro agency, rifondando le relazioni tra donne e costruendo con loro lo spazio politico perché questa relazione venga riconosciuta dalle comunità e dalle istituzioni come un contributo fondamentale ai processi democratici nei territori agricoli e rurali. Il processo attivato con «Cambia Terra» si articola in due fasi: un programma di leadership femminile e un percorso di empowerment delle lavoratrici agricole. 

Il programma di leadership è stato sperimentato per la prima volta nel 2019: nell’Arco ionico formando le leader di comunità, in Bulgaria e Romania le mediatrici locali del lavoro. Quest’ultime hanno informato oltre 400 donne intenzionate a partire verso il sud Italia sui diritti di cittadinanza europea e sulle reti locali a cui rivolgersi in caso di violazione dei loro diritti. La formazione di entrambi i ruoli è stata realizzata con il supporto dei sindacati per garantire la centralità del lavoro come primo luogo concettuale e materiale in cui le discriminazioni e le irregolarità minano l’accesso alla vita democratica per le lavoratrici agricole. La sinergia tra Ong e sindacati ha permesso di esplorare strategie comuni per sfidare i principali ostacoli all’emersione della leadership nel lavoro agricolo femminile. 

Le leader di comunità sono operaie agricole con funzione di rappresentanza delle lavoratrici marginalizzate: raccolgono le loro richieste per presentarle nei tavoli istituzionali. I percorsi di empowerment (Circoli Reflection-Action) sono invece luoghi di scambio e confronto tra lavoratrici, di emersione dei bisogni, nonché di acquisizione di conoscenze sulle politiche pubbliche per co-sviluppare proposte alternative rispondenti alle loro necessità. A partire da questa attività, le donne costruiscono la loro agency individuale e collettiva, necessaria per essere riconosciute dalla propria comunità e dalle istituzioni, a cui avanzare le proposte di cambiamento. Sono infatti le priorità identificate dalle donne stesse a informare le fasi successive del programma, in particolare i laboratori di comunità per la co-progettazione di soluzioni ibride di welfare e la sottoscrizione da parte di una composita rete di attori locali di Patti di collaborazione per l’amministrazione condivisa dei beni comuni per regolare servizi e interventi territoriali. Mettere i legami di comunità al centro del disegno collettivo, come un bene comune per cui nessuna persona può essere spogliata dei suoi diritti e doveri, ha significato mettere a valore competenze e specificità individuali. 

La collettivizzazione dei bisogni tra lavoratrici è alla base del Manifesto delle donne impiegate in agricoltura, frutto del lavoro di centoventi donne partecipanti al programma di empowerment. Le priorità individuate riguardano le aree del welfare, del lavoro e dell’inclusione sociale, che hanno ispirato la co-progettazione dei servizi di welfare di comunità in sperimentazione nell’Arco ionico. 

La Cittadella della condivisione 

Il Manifesto delle donne ha guidato la definizione di risposte di welfare ibrido, definite a livello comunitario mediante quattro distinti Patti di collaborazione con i Comuni di Corigliano-Rossano, Ginosa, Grottaglie e la Provincia di Matera. Valorizzando la rappresentanza e l’autorganizzazione delle lavoratrici agricole, questi strumenti di governance collaborativa hanno permesso, ad esempio, di prevedere orari flessibili del nido comunale di Adelfia (Bari) per figli e figlie delle operaie che iniziano a lavorare all’alba nei campi e di istituire a Corigliano-Rossano (Cosenza) la Cittadella della condivisione, uno sportello di informazione che orienta le donne ai servizi pubblici sociosanitari del territorio e al lavoro dignitoso. 

La Cittadella è uno spazio sicuro e un riferimento per le donne, in particolare per le lavoratrici agricole, alla cui nascita hanno contribuito tredici associazioni insieme alle leader di comunità. Il modello organizzativo utilizzato è una forma di sperimentazione evolutiva dei servizi di welfare, che mira a una gestione strategica e progressiva del cambiamento attraverso azioni sperimentali concordate tra lavoratrici e le loro leader, istituzioni e comunità.  Oltre a orientare le donne migranti sui diritti e i servizi disponibili, la Cittadella è prima di tutto un luogo di confronto, sperimentazione, elaborazione delle politiche locali rispondenti ai bisogni di genere e alle differenze culturali in continua evoluzione. Nel 2023, nella Piana di Sibari, le donne leader hanno contribuito alla costruzione di una strategia locale women-led per il contrasto a forme di sfruttamento lavorativo in settori ad alta femminilizzazione e bassa tutela, quali agricoltura e lavoro domestico. Le proposte emerse hanno informato il Piano Locale Multisettoriale del Comune di Corigliano-Rossano per la definizione di strumenti di inclusione che tenessero conto dei livelli multipli di discriminazione nell’accesso ai diritti che riguardano donne e giovani del territorio.

Attraverso il continuo coinvolgimento e il costante dialogo con le lavoratrici agricole e gli attori locali, «Cambia Terra» ha contribuito anche a produrre cambiamenti concettuali significativi. Innanzitutto, ha dimostrato che il welfare non si riferisce solo alla definizione di politiche per la soddisfazione di bisogni di vita e la protezione dai rischi (di perdita del lavoro, malattia, povertà), ma anche di politiche che permettono l’acquisizione di competenze e l’autorganizzazione da parte delle lavoratrici, dentro e fuori i luoghi di lavoro. «Cambia Terra» ha anche provato che è possibile ripensare la pianificazione locale di welfare in ottica di genere, affinché sia una fonte di piena protezione dall’esclusione dai diritti socioeconomici, come il lavoro dignitoso, la salute, i servizi di cura e abitativi. Soprattutto, ha evidenziato che la sperimentazione del welfare di comunità e dell’amministrazione condivisa nel contesto agricolo è uno strumento decisivo per dare spazio e potere alle lavoratrici agricole, italiane e straniere, rinsaldandone la fiducia nei processi democratici. Costruendo infatti il potere dal basso con un approccio basato sulla solidarietà e la sensibilizzazione, si è creato un inedito spazio di «corresponsabilità» per le comunità locali per rispondere ai bisogni specifici delle donne impiegate in agricoltura. 

Grazia Moschetti è Programme developer ActionAid Italia, Unità Diritti delle donne e giustizia economica.

8/3/2024 https://jacobinitalia.it/

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