DOPO LA GUERRA
I deficit strutturali della NATO
La questione fondamentale per l’impero americano, e che di fatto già si pone, è come affrontare le sfide cui la guerra ha fatto da acceleratore, e che l’attendono nel dopo. Il dominio USA, almeno sin dalla fine del secondo conflitto mondiale, si è basato sostanzialmente su tre asset: il potere del dollaro, il potere delle armi, il potere della comunicazione.
Ora il potere della comunicazione si basava fondamentalmente sull’idea degli Stati Uniti come patria del benessere, delle opportunità e della libertà. Un’idea che ha funzionato molto bene, sinché l’alternativa sembrava essere l’austerità sovietica, ma che – finita la guerra fredda – ha perso buona parte del suo appeal, anche a fronte di una rinnovata aggressività americana.
Il potere del dollaro, benché ovviamente ancora forte, viene oggi largamente messo in discussione, e soprattutto da quei paesi (anche tradizionalmente amici di Washington) le cui economie crescono (e con esse le ambizioni geopolitiche).
Il potere militare, quindi, diventa oggi quanto mai necessario per mantenere il predominio. Non solo perché è assai probabile che, prima o poi, dovrà essere usato direttamente contro i competitors, ma anche perché si renderà sempre più spesso necessario usarlo contro piccole e medie potenze che decideranno di sfidare l’impero. E ciò rende quindi necessario cambiare tutto.
La guerra in Ucraina ha evidenziato tutti i limiti dello strumento militare occidentale odierno, dal livello teorico-strategico (1) a quello tattico, da quello organizzativo a quello logistico-industriale.
Attualmente, il potere militare statunitense mantiene ancora un certo predominio in campo navale e, in misura minore, in quello aereo e missilistico. Ma l’era delle thalassocrazie è definitivamente tramontata nell’800, quando ancora bastava mandare le cannoniere fuori al porto del paese ostile, oppure affondare le sue navi commerciali. Lo sviluppo tecnologico, la globalizzazione, e soprattutto la realtà geopolitica dei principali nemici dell’impero, le rendono obsolete. Avere sei flotte in giro per gli oceani va bene se la prospettiva strategica sono soltanto le guerre asimmetriche del recente passato; servono da supporto ravvicinato per le operazioni di peace keeping (la definizione orwelliana per le guerre a bassa intensità). Ma sono sostanzialmente inutili contro avversari come Russia e Cina. Non sono più i tempi delle battaglie nel Pacifico con la flotta giapponese.
Anche a prescindere dalle armi nucleari, si tratta di paesi con una enorme profondità territoriale: non li sconfiggi senza mettere boots on the ground…
Innanzi tutto, alla capacità operativa di intraprendere guerre asimmetriche – che dovrà essere ampliata, perché potrebbero presentarsene più d’una contemporaneamente (2) – dovrà essere affiancata una capacità operativa per guerre ad alta intensità e consumo. Ciò implica non solo una diversificazione della struttura operativa, ma anche un’adeguata capacità della dotazione di sistemi d’arma, una accresciuta disponibilità di personale in servizio permanente e di mobilitazione, un sistema industriale flessibile capace di sostenerne il ritmo.
Parallelamente, dovrà mutare il ruolo militare delle forze armate dei paesi coloniali. Se fino ad oggi questo è stato sostanzialmente concepito come un gruppo di eserciti tenuti insieme da una serie di standard in fatto di sistemi d’arma, di esercitazioni congiunte, e soprattutto da un comando unificato, il prossimo futuro vedrà necessariamente una maggiore integrazione, un rafforzamento del comando americano, ed un maggiore impegno frontale degli europei (e, domani, delle altre colonie asiatiche).
Nelle prossime guerre imperiali, le forze armate dei paesi vassalli non saranno più di complemento a quelle degli states, ma sempre più ascari da prima linea.
Sotto questo profilo, l’esperienza dell’esercito ucraino nella guerra attuale vale come test (negativo) per le forze armate NATO di domani, poiché ha evidenziato tutte le problematiche che andranno rimosse.
Sul piano dei sistemi d’arma, e più in generale dell’hardware bellico, si è evidenziato come le criticità da superare siano svariate, e non da poco. Ovviamente, il dato macroscopico è come l’intero sistema militare-industriale NATO sia assolutamente impreparato ad un conflitto prolungato ad alta intensità e consumo, e particolarmente nel munizionamento per artiglieria. L’attuale capacità produttiva è spaventosamente lontana dal consumo reale, nella misura che il consumo giornaliero (ucraino, già assai inferiore a quello russo) equivale alla produzione di un paio di mesi. E, sempre nel campo del munizionamento, è emersa una incredibile eterogeneità delle tipologie di proiettile; anche restando nell’ambito degli standard NATO sul calibro, le varie industrie nazionali hanno prodotto una vastità di varianti, specificatamente pensate per i propri obici, che però si sono rivelate inadatte all’interoperabilità tra sistemi d’arma diversi, pur dello stesso calibro.
Ugualmente, è emerso un problema di resistenza all’uso. Molti sistemi d’artiglieria hanno mostrato una limitata capacità di sostenere un fuoco intenso e prolungato, il che ne limita le possibilità d’utilizzo, e rende ancor più pressante il problema della logistica in prossimità della linea di combattimento. Probabilmente c’è anche una certa complessiva carenza di artiglieria, quanto meno sul teatro europeo.
Anche la notevole varietà di mezzi blindati e corazzati pone problemi di logistica non indifferenti, non solo perché richiede officine e personale addetto adeguate, ma perché limita la possibilità di cannibalizzare i mezzi più danneggiati – cosa che al fronte risulta spesso molto utile.
Anche per quanto riguarda la componente carri armati, soprattutto MBT, la quantità disponibile in Europa – specie dopo il salasso in atto in favore di Kyev – è risibile. Lo scorso anno, si stimava che i paesi NATO europei disponessero di circa 4000 tank, dei quali però almeno la metà – e forse di più – non operativi. Oltretutto – a parte anche qui la notevole varietà nazionale – si tratta per lo più di carri che hanno mediamente trent’anni di servizio; L’americano Abrams è stato concepito negli anni 70-80, e la sua versione più recente M1A2 risale ai primi anni 2000; il britannico Challenger 2 e l’italiano Ariete C1, con i loro venticinque anni circa, risultano essere i più giovani.
Un settore in cui si è invece reso evidente l’incredibile ritardo NATO è quello delle loitering munition (o droni kamikaze); l’Alleanza invece privilegia i più costosi ed ingombranti UAV d’attacco, come il MQ-9 Reaper.
Più in generale, i sistemi d’arma NATO hanno fondamentalmente tre caratteristiche non propriamente vantaggiose: fanno un grande uso di tecnologie avanzate (il che può essere un plus in combattimento, ma li rende anche più soggetti a malfunzionamenti); sono più pesanti e consumano di più (il che complica notevolmente la logistica di supporto – l’Abrams è soprannominato gaz guzzer, perché consuma più del doppio di un carro equivalente); sono più costosi (e questo, in una guerra prolungata e ad alto consumo non è un fattore secondario).
Un altro settore in cui emerge l’inadeguatezza della NATO è il manpower. Con la prospettiva strategica di fronteggiare due potenti avversari (è ormai chiaro che l’idea di liquidare preventivamente la Russia è tramontata), oltre che ad alimentare e gestire guerre e guerricciole ai loro confini, l’attuale dotazione dell’Alleanza è del tutto insufficiente. Se poi si tiene nel dovuto conto che, con ogni probabilità, prima o poi la Turchia abbandonerà la NATO, la questione è destinata ad aggravarsi seriamente. Le forze terrestri turche (Türk Kara Kuvvetleri) sono infatti il secondo esercito dell’Alleanza, dopo quello USA. Una perdita che certo non può essere compensata dall’ingresso di Svezia e Finlandia, paesi scarsamente popolati e con piccoli eserciti. E questo, ovviamente, omettendo le implicazioni strategiche che questa defezione determinerebbe in un’area cruciale per gli interessi dell’Alleanza.
Oltretutto, praticamente tutti gli eserciti NATO stanno attraversando, sotto questo profilo, una fase di crisi, che vede sia la caduta delle domande di arruolamento, che l’aumento delle dimissioni dalle forze armate.
Il tempo è nemico
Il principale nemico con cui deve oggi combattere l’impero è il tempo. Che, al contrario, è il principale alleato dei suoi avversari. Sia la Russia (come si vede dalla condotta nella guerra ucraina) sia la Cina, infatti, contano sul fattore tempo per rafforzarsi e raggiungere quella potenza strategica che li metta in grado di poter affrontare vittoriosamente l’offensiva frontale dell’imperialismo americano. Offensiva che sarà a 360°, e non esclusivamente militare.
Se, quanto meno dalla fine della guerra fredda in avanti, la strategia americana è stata sostanzialmente improntata al principio destabilizzare per dominare, oggi deve necessariamente muoversi secondo altre linee d’intervento. I nuovi principi ispiratori saranno dunque: contenere (isolare quanto più possibile i nemici, per limitarne la crescita), destabilizzare (ai confini dei paesi avversi, per non dargli tregua) e solo dopo aver ricostituito una sufficiente capacità militare, colpire. Il potenziale offensivo dello strumento bellico imperiale deve essere riattivato prima che il nemico diventi troppo forte per essere battuto.
Lo schema ideologico con cui gli USA/NATO guardano al futuro prossimo, la fase del contenimento, è la costruzione di una sorta di Vallo di Adriano politico, oltre cui hic sunt leones (la “giungla” di Borrell). Una costruzione ideologica necessaria – da che mondo è mondo – per rafforzare la fragile coesione interna e, quindi, riattivare meccanismi positivi nei confronti delle forze armate, e con ciò della possibilità di incrementarne i numeri. L’esperienza ucraina, tra l’altro, potrebbe spingere a puntare su forme di nazionalismo russo-cino-fobico, quando non decisamente sull’estrema destra, da sempre disponibile a porsi al servizio dell’atlantismo.
In ogni caso, la ricostituzione di un esercito NATO sempre più robusto numericamente, e sempre più integrato operativamente, è ad un tempo l’obiettivo più urgente e più difficile. Anche perché, per ovvi motivi, ciò implica che mobilitazione ed integrazione si accentuino soprattutto sul teatro europeo, laddove cioè si incontreranno prevedibilmente le maggiori resistenze politico-culturali.
L’integrazione maggiore tra gli eserciti NATO, risponde peraltro non solo ad esigenze di comando (rafforzare il controllo statunitense) ma anche operative, al fine di rendere più efficiente il braccio armato dell’Alleanza. Ed una maggiore integrazione operativa comporta anche un equivalente processo nell’ambito delle dotazioni d’arma; l’attuale eterogeneità di mezzi e sistemi d’arma deve essere drasticamente ridotta, ed a tal fine (ma non solo… (3)) è prevedibile che si andrà verso una forte standardizzazione degli armamenti, la cui produzione – almeno nei settori chiave – sarà affidata prevalentemente all’industria USA. Probabilmente, verrà adottato uno schema simile a quello utilizzato per gli F-35, con una parte della componentistica delegata all’industria bellica europea, che potrebbe anche ritagliarsi un ruolo nella produzione di munizionamento. Di sicuro, l’orientamento prevalente sarà non soltanto quello di assicurare all’industria americana la gran parte della torta, ma anche quello di accentuare la dipendenza dell’Europa, e di destrutturare ogni possibilità di autonomia militare europea, anche nel futuro.
Una questione poco nota, ma già in atto da tempo, è che in conseguenza di questa trasformazione strategica l’Europa è destinata a diventare marca di frontiera, assai più di quanto non fosse ai tempi della cortina di ferro. Ciò implica una crescente militarizzazione del territorio e delle infrastrutture. Questo processo, iniziato silenziosamente molto prima che il conflitto in Ucraina deflagrasse nel febbraio 2022, sta ora ovviamente accelerando. Già nel 2020, ad esempio, il bilancio settennale dell’Ue comprendeva 1,5 miliardi di euro per la mobilità militare, una delle priorità della Commissione, sotto forma di contributo al Connecting Europe Facility (Cef) per adattare le reti di trasporto europee alle esigenze di mobilità militare. La Ten-T (4) si pone, non da oggi, l’obiettivo di garantire il movimento delle forze militari all’interno e all’esterno dell’Ue, che attualmente è ostacolato da barriere fisiche, legali e normative quali infrastrutture incompatibili o procedure doganali ingombranti. Nonostante una analisi, che ha confrontato l’infrastruttura Ten-T e le sue esigenze con quelle del settore militare, abbia trovato una sovrapposizione del 94%, ciò è parso insufficiente; durante i negoziati sul bilancio dell’Ue nel 2020, Ben Hodges, un generale americano in pensione che comandava le forze armate americane in Europa, dichiarò ad Euractiv.it (5) che “l’Ue deve cercare il modo di incentivare le nazioni a investire nel miglioramento delle loro infrastrutture”. Nel 2022, l’UE ha lanciato il bando “Mobilità militare dei trasporti” (6).
Più di recente, Joseph Borrell, alto rappresentante dell’Unione per gli affari esteri e la politica di sicurezza, ha sottolineato la necessità di aumentare gli investimenti europei nel settore della difesa, nonostante lui stesso sottolineasse come fossero già significativamente aumentati (“Sulla base dei dati dell’AED (Agenzia europea per la difesa), nel 2021 la spesa per la difesa all’interno dell’UE è cresciuta raggiungendo i 214 miliardi di EUR. Si tratta di un aumento del 6% rispetto al 2020 e del tasso di crescita annuale più elevato dal 2015. (…) Dalle relazioni dell’AED emerge un dato positivo, ossia il livello record di investimenti nel settore della difesa registrato lo scorso anno: 52 miliardi di EUR, pari al 24% della spesa totale per la difesa” (7)). Ad ulteriore conferma, semmai ve ne fosse ancora bisogno, che le leadership europee non solo non sono state colte alla sprovvista dallo scoppio delle ostilità in Ucraina, ma che consapevolmente stavano da tempo cooperando con Washington per riattrezzare l’Europa in vista di un conflitto con la Russia. Cosa del resto resa evidente dalle dichiarazioni di Hollande e Merkel sugli intenti reali degli accordi di Minsk.
Stante questo quadro complessivo, è evidente che qualsiasi illusione su una resipiscenza dei leader europei, che li porti realmente a frenare la deriva bellicista statunitense, od anche soltanto a distinguersene, è appunto tale. Sia a livello UE che a livello dei singoli stati nazionali, tutte le leadership politiche sono pienamente integrate nello schema gerarchico imperiale, salvo poche eccezioni. Destinate comunque a non avere vita facile, in tutti gli ambiti – comunitario, NATO ed interno. Ungheria e Serbia, ed in misura minore Austria e Svizzera, andranno incontro a crescenti difficoltà se non si allineeranno ai desiderata americani.
Ugualmente, è da prevedere che questo disegno richiederà a sua volta una militarizzazione delle coscienze; la criminalizzazione del dissenso diventerà sempre più forte, e tanto più forte proprio laddove è meno strutturato (e quindi più debole).
Ciò non significa però che i giochi siano irreversibilmente fatti. Al pari degli Stati Uniti, che arrivano ad una passaggio cruciale della propria storia più divisi che mai al proprio interno, le linee di faglia all’interno dell’Europa non sono meno profonde, anche se non emergono ancora nella loro pienezza.
Cosa accadrà nei prossimi anni, soprattutto a seguito dei numerosi contraccolpi che deriveranno dal sisma geopolitico in atto, è ancora tutto da scrivere.
1 – Cfr. “La sottile linea rossa”, Giubbe Rosse News
2 – Anche se nella dottrina militare statunitense la guerra al terrore era un capitolo chiuso, e ciò fu addotto a giustificazione, la disastrosa fuga dall’Afghanistan aveva, non secondariamente, una sua ragione anche nella difficoltà di affrontare due conflitti contemporaneamente (cosa del resto ufficiosamente riconosciuta), ed a Washington sapevano che stava per aprirsi il fronte ucraino.
3 – Molti osservatori sottolineano che il conflitto sta favorendo, ed ancor più favorirà in futuro, l’industria militare statunitense, e che questa farà a sua volta da volano all’economia americana. Questa lettura è sicuramente vera, ma parziale, ed è in fondo quella che anima i calcoli della leadership democrat, che conta su questa ripresa per risollevare le proprie sorti elettorali in vista delle presidenziali del prossimo anno. Ma è, appunto, una prospettiva di corto respiro. È possibile che le commesse pubbliche, americane ed europee, favoriscano la working class degli states, ma in questa fase praticamente tutti i giganti dell’hi-tech stanno licenziando migliaia di dipendenti, perché il settore non è più la locomotiva dell’economia, e quindi sono i white collars ad esserne investiti. Per non parlare dei livelli di povertà in crescita tumultuosa da anni. La guerra è sempre un buon affare, ma difficilmente basterà – nonostante l’Inflaction Reduction Act – ad invertire il processo di delocalizzazione produttiva che ha caratterizzato la lunga fase della globalizzazione.
4 – L’acronimo con cui si definiscono le reti trans-europee di trasporto.
5 – “EURACTIV Italia è un’iniziativa parzialmente sostenuta da un finanziamento della Open Society Initiative for Europe nel quadro di Open Society Foundations”.
6 – Si trattava di un bando relativo a progetti di studio, lavoro o misti riguardanti i trasporti militari in Europa. Il bando è stato finanziato per 375 milioni di euro.
7 – Cfr. Joseph Borrel, “Investire di più e insieme nella difesa dell’Europa”, eeas.europa.eu
Enrico Tomaselli
13/2/2023 https://giubberosse.news/
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