DRAGHI DI CARTA
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Una qualunque domenica inizia con la lettura di un articolo del Manifesto, il cui titolo è: “Draghi spinge l’Europa sulle tutele sociali comuni”. Bene, finalmente Mario Draghi, almeno sulla carta, si ricorda dell’aspetto sociale, dicendo, fra l’altro, che giovani e donne sono i più colpiti dalle diseguaglianze. Ma avevo tralasciato di leggere la Repubblica di ieri, sabato. La apro. Leggo le dichiarazioni di Mario Draghi al vertice europeo di Porto. Dice Supermario: “Troppi Paesi dell’UE hanno un mercato del lavoro a doppio binario, che avvantaggia i garantiti, in genere i lavoratori più anziani e maschi, a spese dei non garantiti , come le donne e i giovani. Mentre i cosiddetti garantiti sono meglio retribuiti e godono di una maggiore sicurezza, i non garantiti soffrono una vita lavorativa precaria. Questo sistema è profondamente ingiusto e costituisce un ostacolo alla nostra capacità di crescere e innovare”.
Ora tutto torna, Mario Draghi non è cambiato: si tratta invece del solito ritornello contro i lavoratori cosiddetti garantiti, che avrebbero la colpa di costringere i non garantiti ad una vita precaria. Come se fossero i “garantiti” ad aver fatto le leggi che hanno progressivamente precarizzato il lavoro, dal “Pacchetto Treu” (governo Prodi) al Jobs Act (governo Renzi, all’epoca ancora del PD), passando attraverso la Legge Fornero (governo Monti), che costringendo al lavoro fino alla bella età di 67 anni, ha naturalmente limitato gravemente il famoso “ricambio generazionale”.
Dove porta questo discorso, lo sappiamo bene: certamente non, come dovrebbe, ad una seria autocritica, seguita dall’abrogazione di quelle ormai famigerate leggi.
In realtà la frase di Draghi rivela più cose di quel che appare. Chiarisce quale sia il senso della svolta indotta dalla pandemia, rivela che cosa si nasconde dietro i miliardi del PNRR: una scelta obbligata, per impedire il crollo del sistema, travolto dalla pandemia; l’occasione per darsi una verniciatura umanitaria e sociale; il nascondersi dietro la reale sofferenza dei giovani e delle donne, per prepararsi ad assestare un altro, potente colpo a ciò che resta della stabilità di un lavoro in grado di darti una prospettiva di vita e un’identità precisa come persona. Infine, la conferma dell’idea di tornare di nuovo, una volta superata l’emergenza, a “crescere e innovare”, a dispetto di tutti i discorsi fatti sulla transizione ecologica. Quindi, avanti con la crescita come unica possibilità e avanti con l’innovazione, unita all’altra parola chiave che ricorre nel PNRR: competizione.
E chi sono, questi garantiti, se non i lavoratori con contratto stabile, nei settori in cui ancora esistono, e i lavoratori e le lavoratrici del settore pubblico, fino a ieri così esaltati per il loro ruolo essenziale nell’affrontare la pandemia?
Ma, recitano i telegiornali, stiamo facendo le prove generali per il ritorno alla “normalità”, e siamo già in un’altra fase storica.
Proprio negli stessi giorni, a partire dalla tragica uccisione ”bianca” di Luana D’Orazio, la giovane operaia tessile di 22 anni, madre di un bambino, morta stritolata da una macchina tessile a Prato, in Toscana, si è cominciato a parlare di infortuni sul lavoro, “scoprendo” così un tremendo stillicidio di morti quotidiane, come Christian Martinelli, operaio di 49 anni, moglie e due figli, morto schiacciato fra gli ingranaggi di un altro macchinario, questa volta metalmeccanico, a Busto Arsizio, in Lombardia: l’intera penisola è percorsa da questa sequenza bestiale.
Abbiamo così visto vari soggetti politici e istituzionali affrettarsi a dire che basta, non se ne può più, ora bisogna investire nella prevenzione e nella formazione! Come se il fenomeno degli infortuni e delle morti sul lavoro fosse iniziato in un giorno di maggio del 2021, o come se fosse stato finora così ben occultato da non riuscire neppure a sospettarne l’esistenza.
Vien voglia di andare più a fondo: si scopre così, ad esempio, che nel famoso PNRR non vi è il minimo accenno al problema. O meglio, vi si parla 93 volte di “sicurezza”, ma senza mai associarla al lavoro! E, poiché si tratta, in realtà, di un tema che tocca direttamente il ruolo della Pubblica Amministrazione, della quale l’Europa reclama con tanta forze la necessità di una riforma, emergono anche altre cose interessanti.
Per esempio che non parliamo di casi sporadici (che, in quanto tali, colpiscono particolarmente il cuore delle persone), poiché nel primo trimestre di quest’anno le morti sul lavoro sono già state ben 185. Numero che, in periodo di COVID, può persino rischiare di non fare impressione, ma stiamo parlando di 185 persone che sono uscite di casa per svolgere la loro normale attività lavorativa, e che a casa non sono mai più tornate. E’ questa la “normalità” a cui tutti così ansiosamente, aspiriamo?
E queste 185 morti dei primi tre mesi del 2021 sono 19 in più di quelle avvenute nel primo trimestre del 2020, malgrado il fatto che le denunce di infortunio siano leggermente diminuite, passando da 128.671 a 130.905 e malgrado il calo, dovuto alle condizioni di lavoro determinatisi con la pandemia, per cui molte lavoratrici e lavoratori operano da remoto, degli infortuni in itinere, nel tragitto casa-lavoro e viceversa.
Scopriamo che conviviamo con una media di almeno 3 morti sul lavoro al giorno.
In effetti, le morti sul lavoro, prima del 2015, si attestavano al di sotto dei 1.000 casi all’anno. Dopo, non sono mai stati meno di 1.000. Nel 2020 sono stati 1.270 (il 16,6% più del 2019). Dividendo tale numero per 365, si ottiene una media che supera i 3 morti al giorno (3,47, 1/3 dei quali causati dal COVID, quindi anche in ambito sanitario).
Come detto prima, l’intera penisola è percorsa da questo tragico fenomeno: dei 185 casi di morte sul lavoro 47 sono avvenuti nel Nord Ovest; 38 nel Nord Est; e, malgrado la disparità di occasioni di lavoro, ben 58 al Sud.
C’è, naturalmente, una distribuzione fra i diversi settori lavorativi: sono 158 (contro i 146 dell’anno prima) nel settore Industria e Servizi; 16 nell’Agricoltura (contro gli 11 precedenti); 11 nel Conto Stato (contro i precedenti 9). Ma, al di là di queste distinzioni, e sapendo che il settore Industria e Servizi comprende anche il codice ATECO “Sanità e assistenza sociale”, perchè dire che questo problema tocca direttamente la Pubblica Amministrazione?
Perchè ci sono altri numeri da considerare.
Il governo Renzi ha istituito, a suo tempo, l’Ispettorato Nazionale del Lavoro, allo scopo di accorpare i servizi di vigilanza di Ministero, INPS e INAIL: esso ha attualmente circa 4.500 dipendenti, a fronte di una pianta organica che ne prevede 6.500. Di questi, circa 1.500 sono ispettori, i quali, a causa della carenza di organico, devono svolgere anche compiti di tipo amministrativo.
Nel 2020, circa 10.000 aziende hanno subito controlli da parte dell’Ispettorato e ben nel 79,3% dei casi vi sono state riscontrate irregolarità: ma in Italia le aziende, fra grandi, piccole e medie, si contano a milioni!
Ancora più impressionante il fatto che i dipendenti dei servizi di prevenzione delle ASL fossero, fra medici e ispettori, circa 5.000 nel 2009, mentre ora sono circa 2.000.
Come si vede, siamo di fronte, anche in questo caso, ad un fenomeno di lento smantellamento del servizio pubblico, fenomeno a cui non è estraneo, purtroppo, alcuno schieramento politico, fra centro-destra e centro-sinistra. Basti pensare che nel 2019 fu il governo Conte a tagliare risorse al settore, al fine di ridurre le tariffe INAIL alle imprese.
E scopriamo, ancora, che nel 2019 è stata istituita, presso il Senato, una Commissione d’inchiesta sul tema: peccato che ancora non sia operativa!
Non mancano le proposte per far fronte a questa situazione: pretendere, ad esempio, che le risorse del PNRR siano vincolate all’attuazione delle misure per la sicurezza sul lavoro, applicando le tecnologie più avanzate in questo campo, collegate ad una consona organizzazione del lavoro; oppure, molto importante, evitare che, con la scusa dell’applicazione rapida del PNRR, si vadano ad intaccare le norme di garanzia contenute nel Codice degli Appalti.
Tutto ciò non può prescindere, in ogni caso, dalla necessità di procedere con urgenza a ripristinare e potenziare il numero degli addetti alla prevenzione e al controllo sui posti di lavoro.
Bisogna costruire, su questo tema, una grande mobilitazione nazionale, che costringa in primo luogo il governo ad intervenire immediatamente per recuperare e potenziare le strumentazioni, le risorse, ma soprattutto i livelli occupazionali delle strutture adibite al controllo.
Una mobilitazione che intrecci momenti di lotta locali e nazionali, compresa la dichiarazione dello sciopero generale in tutto il Paese; e che sia forte e continuativa, con la ferma volontà di interrompersi soltanto una volta raggiunto l’obiettivo.
Sono chiare le responsabilità delle varie forze politiche per non avere finora agito, e per avere anzi favorito la riduzione degli organici ispettivi.
E’ però mancata finora, un’azione significativa da parte delle stesse organizzazioni sindacali. E’ ora quindi che si alzi una forte spinta sociale per uscire dall’immobilismo su questo tema vitale, in senso purtroppo letterale, per tutti i lavoratori e tutte le lavoratrici.
Tornano quindi in mente le parole di Mario Draghi, quando parla, certamente pensando anche ai dipendenti pubblici, di settori “troppo” garantiti: abbiamo parlato, qui, di un solo aspetto, per quanto forse il più importante, del problema. Ma è assolutamente chiaro che non si tratta di troppe garanzie, ma piuttosto della necessità di realizzare un grande piano di assunzioni stabili nella Pubblica Amministrazione, recuperando la grave perdita occupazionale che essa ha subito, a tutti i livelli, negli scorsi anni, per portarla finalmente a dimensionarsi su quelle che sono le reali necessità del Paese, quanto meno arrivando ad allinearsi con i livelli degli altri Paesi europei, rispetto ai quali i dipendenti pubblici, in Italia, in relazione al numero degli abitanti, sono drammaticamente al di sotto della media.
Se non ora, quando?
Fausto Cristofari
Già dirigente sindacale Cgil/FP Torino
Collaboratore redazionale di Lavoro e Salute
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