E la discriminazione verso il lavoro autonomo? Non se ne parla proprio!
«Creare un’impresa – scrive Antonio Giuseppe Malafarina – vuol dire adempiere ad una serie di atti che impattano con le barriere ancora presenti nell’odierna società, quindi concepire dei facilitatori per l’accesso al lavoro autonomo e imprenditoriale delle persone con disabilità è un dovere legale. Nondimeno morale e culturale. Mi domando perché esista questo vuoto, parecchio discriminatorio. E mi domando quando cominceremo a batterci per l’esercizio del diritto al lavoro autonomo e imprenditoriale»
C’è una sottile discriminazione, ma nient’affatto sottile, che da anni mi lambicca la mente. Ma procediamo per ordine.
Il lavoro per le persone con disabilità in Italia è garantito da un accurato apparato legislativo. Per altro le prime leggi per l’assunzione di persone con disabilità risalgono quanto meno alla metà degli Anni Ottanta, con gli obblighi di assunzione di centralinisti ciechi. Nel 1999 la Legge 68 e via via a seguire.
Fondamentale, come sempre, la Convenzione ONU sui Diritti delle Persone con Disabilità, Legge 18/09, che più volte invita gli Stati aderenti ad attuare politiche di facilitazione di accesso al lavoro. Imprescindibile l’articolo 27 di essa, denominato Lavoro e occupazione.
Tanto dispiego di disposizioni non ha certamente sortito l’effetto di garantire il pieno impiego dei lavoratori con disabilità, ma sicuramente ha avuto un impatto accrescitivo nell’àmbito dell’impiego delle persone con disabilità. La questione è per altro di carattere culturale, perché l’imposizione di legge fornisce una spinta, produce un dovere, ma non imputa una conversione dall’oggi al domani. Vale a dire che se le leggi hanno aiutato ad assumere, e spesso sono state eluse, esse non hanno portato una vera e propria riconsiderazione delle potenzialità delle persone con disabilità in chiave lavorativa. Questo sino a qualche anno fa, perché recentemente, felice complice la tendenza all’inclusione come fattore promozionale di voga, sempre più imprese si portano favorevolmente all’assunzione di lavoratori con disabilità.
Possiamo dire che a piccoli passi l’impresa del nostro Paese sta iniziando a riconoscere le potenzialità delle persone con disabilità.
Stiamo tuttavia parlando dei lavoratori dipendenti. Per il lavoro autonomo, ovvero per l’imprenditoria generata da persone con disabilità, le cose stanno diversamente. Ed è questo che riconduce alla sottile, dolorosa, discriminazione di cui parlavo in apertura.
Il summenzionato articolo 27 della Convenzione ONU, recita al comma f: «Promuovere opportunità di lavoro autonomo, l’imprenditorialità, l’organizzazione di cooperative e l’avvio di attività economiche in proprio». La stessa nostra Costituzione fin dal suo primo articolo evidenzia l’importanza dell’espressione professionale di ognuno. Tuttavia nel nostro apparato giuridico sul lavoro non c’è traccia di sostegno al lavoro autonomo o imprenditoriale delle persone con disabilità, fatta eccezione per le cooperative, che però obbligano il potenziale imprenditore con disabilità ad andare verso quella direzione.
Per essere certo di questo vuoto normativo mi sono rivolto ad HandyLex, che sappiamo poggiare sul Centro studi giuridici della FISH, la Federazione Italiana per il Superamento dell’Handicap.
Dopo una prima indagine condotta qualche anno fa senza trovare dispositivi di legge a favore del lavoro autonomo e imprenditoriale per le persone con disabilità, ho pertanto chiesto recentemente una nuova verifica e l’esito è stato lo stesso: non risultano norme per favorire il lavoro autonomo e imprenditoriale delle persone con disabilità. Grave. Molto grave. Terribile, perché da una parte non si adempie a quanto prescritto dalla Legge 18/09 sulla «promozione del lavoro autonomo e imprenditoriale», dall’altra perché si realizza una discriminazione di fatto fra lavoro autonomo, non supportato, e lavoro dipendente, supportato.
Ma ancora più grave è l’aspetto concettuale: non agevolare, infatti, opportunità di lavoro autonomo e imprenditoriale alle persone con disabilità significa non considerarle atte a, e direi degne di, attuare una attività lavorativa propria. Non solo si tratta della negazione di una sollecitazione legislativa, ancor più grave, si tratta di una sottovalutazione, e direi di una negazione, dell’abilità di una persona con disabilità di ambire a lavoro autonomo o imprenditoriale.
Non vale neppure la pena chiedersi perché dovrebbero esistere agevolazioni per un imprenditore con disabilità, che deliberatamente decide di sottoporsi al rischio di impresa. Il rischio d’impresa riguarda ogni imprenditore, o lavoratore autonomo, ma se i diritti sono uguali per tutti, alle persone con disabilità dovrebbero essere concesse agevolazioni per metterle nelle stesse condizioni dei colleghi senza disabilità.
Questo è il principio che vale per tutti i diritti delle persone con disabilità, che non sono diversi da quelli degli altri. Le persone con disabilità non hanno maggiori diritti, ma hanno diritto ad accedere agli stessi esercizi del diritto degli altri. Se il diritto al trasporto è tutelato dalle leggi per l’abbattimento delle barriere architettoniche, il diritto al lavoro autonomo dev’essere tutelato da opportune norme. Creare un’impresa vuol dire adempiere ad una serie di atti che impattano con le barriere ancora presenti nell’odierna società, quindi concepire dei facilitatori per l’accesso al lavoro autonomo e imprenditoriale è un dovere legale. Nondimeno morale e culturale.
Mi domando perché esista questo vuoto, parecchio discriminatorio. E mi domando quando cominceremo a batterci per l’esercizio del diritto al lavoro autonomo e imprenditoriale.
Antonio Giuseppe Malafarina
Direttore responsabile di «Superando.it».
23/3/2023 https://www.superando.it
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