Educazione all’inferiorità

marionette

In quel capolavoro filosofico del Novecento che è Differenza e Ripetizione, Gilles Deleuze distingueva due tipi di ripetizione: sulla scia di un discorso che apparteneva a Nietzsche, a Kierkegaard, a Lacan, e soprattutto a Bergson, egli argomentava sostenendo che la ripetizione poteva essere astratta, senza un significato reale, o significativa, carica di una portata semantica (di senso) degna di interesse. Anche l’approccio sociologico della scuola fenomenologica, l’interazionismo simbolico, in un dualismo certamente estraneo alla visione di Deleuze, riconosceva due tipi di azione: quella dotata di senso, perché giustificata (descrivibile), e quella priva di senso, perché ingiustificabile e, perciò, degna di essere motivata. Questo secondo tipo di azione è quella che, infatti, la sociologia generalmente disdegna (non implica la rilevanza sociale dell’atto), nel mentre la psicologia analitica ne fa addirittura il suo oggetto di studi. Nel momento in cui sparisce il piano empirico, quello dell’esperienza grezza e materiale, quello della trasferibilità del dato certo come informazione, appare il piano trascendentale dell’esperienza, quella psicologica e virtuale, quello dell’intrasferibilità dell’atto di coscienza ad altri che lo raccolgano. Così la “ripetizione” del nevrotico non è una ripetizione priva di senso solo perché il nevrotico non riesce a giustificarsela (questo può esser vero solo per una società che non si cura del benessere dei suoi individui); al contrario, la coazione del nevrotico a ripetere sistematicamente il suo “rito di espiazione” è il modo che il nevrotico ha di simboleggiare, e quindi richiamare alla memoria, qualcosa che non può essere assunto come semplice ricordo (la memoria non è il ricordo), perché troppo insopportabile per la psiche, per l’anima. Questo stesso senso della memoria (Memoria del senso) leggeva Bergson nella ripetizione che portava a rimuovere nell’oblio la bruta esperienza, a rimuoverla nell’inconscio perché l’atto di consapevolezza (l’analisi) emergesse a testimonianza della vita psichica, della vita autentica. Questa è la seconda ripetizione di Deleuze, quella concreta, quella carica di senso. La prima invece, ce la possiamo immaginare come il gesto del nevrotico che non viene però considerato sotto il profilo psicologico, come la ripetizione di un movimento ad opera di un macchinario. Il secondo tipo di ripetizione è infatti dinamica, perché muta il senso della realtà nel mentre si attua, mentre il primo tipo di ripetizione è meccanica, perché lascia invariato il valore dell’esperienza al ripercuotersi dello stesso meccanismo automatico. Per fare un esempio, immaginiamoci i rintocchi della campana: per un bambino, che non conosce la misura del tempo, la campana fa semplicemente “din-don”, emette un suono che si ripete alternando le stesse frequenze acustiche per un certo intervallo di tempo, per cui “8 volte” la campana sono 8 “din-don”; per un adulto invece, che conosce la misura del tempo, la campana suonata “8 volte” sono le ore 8. Il senso di questi rintocchi di campana, cioè l’avvento delle ore 8, è nei rintocchi, o fuori di essi, tant’è che il rintocco sta-in-luogo-di un’ora come suo simbolo semantico (sostitutivo)? Evidentemente il senso è “fuori” rispetto ai rintocchi, giacché se l’identità 8 rintocchi=8 ore fosse immediata anche un bambino che non sa misurare il tempo avrebbe la cognizione (e quindi la capacità di spiegare ostensivamente) della misurazione temporale. E invece questo, ovviamente, non accade.

Ebbene, cosa c’entra tutto questo con la “pedagogia di guerra” e l’educazione delle bambine? Veniamo al punto: c’entra eccome! Il simbolo è qualcosa che sta-in-luogo-di, è ciò che nell’esperienza materiale col segno sostituisce l’esperienza semantica, è come un ‘cofanetto’ che racchiude in un oggetto le migliori memorie, le più grandi e valevoli esperienze della vita. Se però ci si dimentica di aprire il cofanetto e guardarci dentro, non si getta nell’oblio il valore del contenitore per ricordarsi dello straordinario valore della vita, cioè non si scansa il coperchio per guardare alle memorie dentro, ma si finisce col credere che il cofanetto abbia un valore in sé, a prescindere dal suo contenuto. E così si perdono le memorie, e ci si attacca ai ricordi: il cofanetto diventa l’oggetto di pregio da esporre in salotto e il contenuto non lo si mostra a nessuno, neppure a se stessi, perché ciò che dà pregio al cofanetto è il cofanetto stesso. E così siamo passati da una ripetizione all’altra. Dalla ripetizione sensata, che è l’atto del rivivere le memorie a partire dall’apertura del cofanetto che le contiene, siamo passati alla ripetizione meccanica, che è l’atto di ribadire la persistenza del valore del cofanetto nel cofanetto, senza adoperarlo, senza agirlo, senza metterlo in disparte per guardare “ad altro”, per fissarlo intransitivamente, senza passare a ciò che realmente ha valore. I filosofi idealisti (leggi pure Hegel, ma non solo) avrebbero parlato di “valore astratto” o “momento positivo” del pensiero. Cioè chi si comporta così, chi ripete meccanicamente, come se gli 8 rintocchi di campana non fossero altro che dei “din-don”, non “dialettizza”, non sviluppa rimandando-ad-altro il valore dell’esperienza in sé. Dal senso autonomamente speso al senso automaticamente introiettato c’è di mezzo un passaggio: indovinate quale? Ma è chiaro, è il passaggio che rende nevrotici! Il nevrotico non è forse colui che non potendo continuare a rivivere il peso di un’esperienza drammatica la confina nel gesto automatico? Il nevrotico “libera” la mente dal valore dell’esperienza che non vuole rivivere e lo “butta” lontano, lì dove non gli pare possa più nuocere, se non che il più banale dei gesti diventa significativo a chi interpreta la nevrosi e scopre che, non potendoci liberare mai del senso dell’esperienza, averlo estromesso ce lo pone dinanzi mascherato dall’alienazione in Altro, e questo Altro diventa un’ossessione. Liberandoci perciò delle memorie che il “cofanetto” conserva e limitandoci a fare del cofanetto l’oggetto esclusivo dell’interesse, non abbiamo forse creato un legame malato con l’oggetto? Non siamo legati ad esso piuttosto con una perversione che con un sentimento autentico? Dov’è l’autenticità nel nevrotico che nega la sua patologia per generarla? Se il nevrotico guardasse negli occhi la sua sofferenza avrebbe compiuto il primo passo verso l’affronto ad essa, e la sua nevrosi cesserebbe. Perciò, dov’è l’autenticità nello smemorato che abbandona il suo vissuto in ciò che poi adora incondizionatamente?

Lo smemorato è falso, perché l’autenticità dell’esperienza è proprio la continuità con il proprio flusso interiore, e non lo sbarazzarsene per assumere “dal di fuori” un astratto valore, quello del simbolo che non rimanda più a nulla! Falso lo smemorato, falsi i suoi ricordi.

Ebbene, la pubblicità funziona proprio così; la “pedagogia di guerra” pure. Come si fa a costringere un consumatore all’acquisto? Semplice, trasformando l’attore del mondo di consumi in spettatore-consumista, facendone un vero e proprio “consumatore” a tutti gli effetti. La pubblicità crea spettatori, crea un’attenzione che non deve essere suscettibile di giudizio e di sviluppo singolare del senso di quell’osservazione; la pubblicità deve rapire, catturare, deve violentare l’osservatore autonomo per farne un osservatore automatico, un osservatore come quello di Arancia Meccanica, “forzato”, costretto a guardare. Perché il prodotto osservato, se lo faccio “mio”, lo nego nella sua astratta essenza e lo assumo nella particolare forma che si confà alla mia personale esperienza sensata. Ma così facendo, io non assumo con criterio e in base alle mie necessità: non sono un consumatore, sono un bisognoso. Il consumatore invece deve procurarsi il prodotto oltre i suoi bisogni, a prescindere. E così la pubblicità crea legami tossici: ti convince prima che ogni argomento razionale agisca, ti “adatta” a credere che tu non necessiti del necessario, ma necessiti come prerogativa assoluta, che cioè la necessità sia qualcosa che è il prodotto stesso a stimolare, col suo astratto valore. E così confinando le necessità fuori di noi, le accogliamo presso di noi con lo stesso atto del nevrotico, dopo cioè che hanno perso di personalità, di singolarità, e si sono caricate di un attaccamento morboso, feticistico, alla merce in sé.

E nel mondo del libero mercato tutto è merce. Il cibo, il marketing, gli stupefacenti, la sanità, l’educazione.

Come funziona l’educazione delle bambine, perciò? Le bambine sono addestrate allo stesso tipo di ripetizione meccanica che trasforma il “bisognoso” (colui che consuma per bisogno) in un “consumatore” (colui che consuma senza bisogno). Le bambine sono “addestrate” alla subalternità con la potenza del simbolo, che anziché diventare evocativo di un senso ulteriore (come il “cofanetto” che contiene memorie) sta a rappresentare la femminilità stessa per intero. Le bambine vengono vestite con un colore specifico – il rosa –, vengono fatte giocare con giocattoli specifici – che poi sono sempre cucine e bambolotti –, vengono impostate perché assumano atteggiamenti specifici – “comportati da signorina!” –, vengono limitate a pratiche adatt(at)e e specifiche – “questa cosa è da maschi, e tu non sei un maschiaccio!”. Quella delle bambine insomma è una pedagogia della subalternità, perché se ammettiamo la potenza del simbolo ammettiamo, con esso, la capacità di rimandare implicitamente, subdolamente “ad altro”. È un viatico falso quello del simbolo preso astrattamente, perché riferisce con l’inganno dell’assolutizzazione di un valore che si pone come indisponibile alla coscienza particolare. E questa è una tattica di guerra, la stessa tattica che il guerrilla marketing adopera per convincere all’acquisto di un prodotto. Si tratta manifestamente di un modo di far apprendere la nevrosi, perché affinché le bambine non si ribellino è necessario che l’ipocrisia cui quel simbolismo specifico rimanda sia occultata nell’estetizzazione del simbolo stesso. E il simbolo diventa il luogo stesso della realizzazione della bambina, una bambola di porcellana piuttosto che una persona dotata di autonomia per assumere su di sé, con la scelta, i contenuti nei modi e nei termini che preferisca. Oltretutto, questo dovrebbe far comprendere più completamente perché alle donne manca una personalità giuridica, così come è mancata a tutte le forze subalterne della storia. Mancare di personalità giuridica vuol dire essere eteronormati, ricevere “dal di fuori” le regole del proprio vivere, accettarle sottomettendovisi (perché manca l’autonomia), “alienarsi” nel vero senso della parola. E notava Hegel infatti, che l’alienazione è il secondo momento, quello negativo-razionale, della dialettica dell’autocoscienza, mentre il primo è, ovviamente, quello puramente positivo, o astratto. Come si presenta l’oggettosimbolo che deve essere assunto senza criterio? Come l’oggetto che precede lo sviluppo autonomo da parte di una coscienza che desideri farlo proprio, come ciò che precede la ripetizione sensata, come l’astratto che ha valore in sé, come l’”esterno” che non si presta alla trasformazione interna della coscienza. In poche parole, ciò che viene astrattamente posto è indisponibile in sé e per sé. Ciò che desideriamo come consumatori, lo desideriamo fintantoché restiamo consumatori, soggetti di ripetizione meccanica, perché la ripetizione meccanica ci impedisce di introiettarlo, di farlo nostro, di spegnere il desiderio nella consumazione, di rinnovare il desiderio stesso in una nuova e diversa consumazione. In poche parole la pubblicità ci vende “fumo”, perché se ci vendesse l’arrosto ci sfameremmo, e subisseremmo il desiderio. Ma il desiderante deve restare tale, incapace di trasformare l’oggetto di desiderio in oggetto desiderato, di innalzare se stesso alla soglia di amante in sostanza, e il suo rapporto con l’oggetto desiderato rimane di distanza, di insoddisfazione, di frustrazione. E la coscienza diventa “coscienza infelice”…

Pertanto, la pedagogia che viene impostata dall’ideologia dominante, da quella macchina che possiede il potere politico della storia, è un’educazione alla subalternità. Le bambine sono soggiogate al simbolico-astrato, sono ridimensionate in un’alterità di confino in cui i loro desideri e le loro ambizioni sono inaccessibili, come fossero in un “cofanetto” sigillato, o mai mostrato per il contenuto suo, e ricevono un’educazione alla nevrosi.

Quando l’autonomia è soppressa in favore del dominio politico e ideologico sulle nostre esistenze, non parliamo forse di regime di oppressione, di stato di occupazione bellica? La violenza simbolica contro chi si sottomette al potente e la crudeltà materiale perpetrata contro chi prova a liberarsene (“il pazzo”), non sono forse pratiche di guerra? L’educazione delle bambine non è perciò una vera e propria “pedagogia di guerra”?

Giacomo De Fanis

dottore in Filosofia teoretica.

Sulmona, 3/11/2017

Pubblicato sul numero di novembre del periodico Lavoro e Salute

www.lavoroesalute.org

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