El Brojon ( In ricordo di Franco Loi )
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Trapiantà è un termine usato nel basso Piemonte per definire qualcuno che si sposta dalla sua terra d’origine e va a radicarsi in un’altra.
Trapiantà, per chi non sapesse anche se facilmente comprensibile, significa trapiatato, termine usato in botanica o in agricoltura per trasferire le piante da un luogo di crescita ad un altro. Se ci muoviamo nello specifico, l’operazione consistente nell’inserire in una pianta una parte di un’altra pianta di specie o varietà diversa allo scopo di ottenere un nuovo individuo, si chiama innesto.
Innesto. El brojon in piemontese. Questo mi è venuto in mente quando ho conosciuto circa una quarantina di anni fa Franco Loi, a casa di un comune amico, Angelo Lumelli. Lo conobbi di persona dopo aver letto gran parte della sua opera, da Strolegh, Teater, L’angel, Lünn e Liber per citarne alcune.
El brojon. Ecco di Franco Loi ho subito avuto l’impressione di questa sua condizione di trapiantà, nato a Genova da padre sardo e madre emiliana. Si trasferì a soli sette anni a Milano.
El milanes diventa la sua lingua ufficiale, ler la mi giuinessa la te muriva in brass, quella che dà vita alla stragrande maggioranza del suo lavoro. Questo lo si può definire un dispatrio volontario, perché il cominciare da capo si fa proprio dalla lingua, non è lo scrittore esule che perde qualcosa cercando quella libertà che spadroneggia nel linguaggio.
La guerra. Davanti agli occhi i corpi di quindici partigiani torturati e uccisi e poi ammucchiati in un corpo solo, con una scritta: banditi. Spalancava un’immane tragedia. All’età di quindici anni il padre lo portò a Piazzale Loreto, il dieci agosto, a vedere i corpi appesi di Mussolini, della Petaci e di altri gerarchi fascisti.
Attivo militante comunista, collaboratore de L’Unità, in seguito aderì al movimento della Nuova Sinistra che lascerà per assumere posizioni molto personali con forti accentuazioni anarchico libertarie.
E la fondazione del CIP (Centro Informazioni Politiche), l’incontro con Renato Curcio e poi, nel 1983, l’arresto, grossolano errore, con l’accusa assurda, poi rimossa e smantellata, di essere il grande vecchio della brigate rosse.
Il dialetto, el milanes, rappresenta la lingua dell’esperienza e della vita, la lingua di cui Franco Loi si è impossessato da bambino e fin da subito appoggiandosi a un lessico che attingeva al gergo operaio, la parlata della gente comune accanto alla passione e all’impegno, al senso di partecipazione e ai destini collettivi, in una mescolanza di elementi in parte colti e soprattutto popolari.
Una certa civiltà, quella contadina stava venendo meno. Stava scomparendo un modo di lavorare la terra, di convivere con gli animali, è totalmente scomparsa la lingua di quel mondo. Annidarsi nei risvolti più intimi della metropoli, scoprirli in quella realtà di trapiantà, con quella lingua appiccicata addosso, davanti al grande processo di industrializzazione.
Cantore della Milano popolare e proletaria, cosa è rimasto di quel mondo? Le vecchie case in rovina, le vecchie corti ridotte a ruderi. Ecco un lavoro minuzioso e certosino di chi ha capito che tutto stava cambiando. E questo milanes, a tratti morbido come il suono di un liuto, a tratti ruvido come il suono di un’armonica, si eleva al canto di chi lavora e si dispera.
La lingua è una musica, quella della vita, dove il dialetto, quella parlata contaminata e bastarda che sale in cattedra in tutto il suo esprimersi, senza preclusioni, dove la sensazione di intimo e privato è nascosta e ben protetta.
Sembra una balbuzia, in realtà è una pausa, un ritmo spezzato che miscela passione e malinconia e che presenta Milano nella sua vera veste, senza maschere e travestimenti.
E il rito di ospitalità di una lingua serve in questa condizione di trapiantà di vegliare sulla memoria, di conservare e di trasmettere quel sapere ed è una risorsa straordinaria, non quella del Milan l’è gran Milan, ma forse di un intimismo legato innocentemente all’internazionalismo dei lavoratori, quei lavoratori trapiantà che abitavano le case di ringhiera, fatiscenti e terribili, senza servizi, senza spazio di integrazione, perché erano estranei più che alla cultura alla lingua.
Ah me l’è bell ‘l mund quandvegn l’amur l’è vent che scuatta, ‘na lüs sensa pietà…
Al fine di illustrare questa straordinaria rappresentazione della lingua nella condizione che un brojon può far sua in una stretta connessione tra corpo e poesia, in cui fare versi è frutto di una libertà della mente grazie a un flusso di energia che dà impulsi vitali, ecco, Franco Loi, poeta vigile e attento su ciò che accade nel presente, con gli occhi rivolti alla luce di un umanesimo sociale, sempre attento agli ultimi, ha la grande consapevolezza di essere presente nella vita di questo nostro mondo dove è necessario essere sempre costantemente connessi e avere gli strumenti e la grande velocità della mente per intercettare le coordinate e metabolizzarle.
Un allievo del presente e del passato che si mette in ascolto, un punto di partenza per intraprendere un cammino personale, dove il sapere costituisce una chiave di lettura delle cose. E il tempo è dalla sua parte. Tutto deve passare attraverso affetti, rapporti, visioni, in cui ci si lascia guidare soltanto dalle passioni.
Il poeta ha la capacità di immergersi in questo mare di cose e uscirne bagnato fradicio.
È presente nella sua opera una riflessione a testa china, scarnificata, ossuta, intransigente. Per decenni visse e pensò in due lingue: il milanes, linguaggio dell’anima, colto, raffinato, eccelso, ricco di lusinghe e raffinatezze e l’italiano, quello di tutti i giorni. Questo fa scoprire una radicale umanità e di quanto venisse veramente dal basso.
L’angel è un poema autobiografico iniziato nel 1972 e pubblicato integralmente soltanto nel 1994 è la storia di un uomo convinto di essere un angelo ma considerato proprio per questo un folle dalla società ed è la società medesima a rinchiuderlo in un ospedale psichiatrico. Si tratta in un certo qual modo di un cammino di alienazione, come sottolinea Lukacs in Marxismo e critica letteraria, che Franco Loi porta inesorabilmente sulla strada della felicità.
Sente un senso di abbandono soltanto davanti alla Milano da bere, la città che si è arricchita. Nei suoi versi chiede di accendere il buio, di fare luce, perché si sente spronato dai poveri e dagli oppressi che la Milano di quegli anni sapeva nascondere bene.
L’ho immaginato così Franco Loi dopo averlo conosciuto, come nei suoi versi e a l’umbra d’in purtuntra quel tasè d’usej chi par penser.
Milano è così, prendere o lasciare. Il brojon è un luogo comune, il resto sta dove si trova. Pulver di omm che passa e par che stemper s’inultra al di luntanche vegn lirun.
Come si direbbe in Piemonte… bugia nent.
Giorgio Bona
Scrittore. Collaboratore redazione di Lavoro e Salute
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