Elezioni. Le regole del gioco negli USA e in Italia
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Le regole del gioco, o di come il sistema elettorale statunitense abbia prodotto danni nel nostro Paese
In questo articolo non mi addentrerò nelle questioni prettamente politiche determinate dalla corsa alla Casa Bianca e della tenzone elettorale tra Harris e Trump, che ha visto il tycoon newyorkese trionfare in larga misura (più di quanto fosse stato previsto); vi sono moltissimi esperti ed esperte che ne potrebbero parlare molto meglio.
Vorrei però affrontare la questione da un punto di vista laterale, o meglio dal basso, dalle sue fondamenta.
Perché l’assurdità della campagna elettorale statunitense si basa sull’assurdità del suo sistema elettorale.
Il sistema elettorale americano sconta la sua età ed il non essere, per così dire, al passo coi tempi. Si tratta di un sistema tecnicamente a doppio turno dove ogni stato esprime un numero di grandi elettori, in base alla popolazione, che vengono assegnati al partito che in quello stato ha avuto il maggior numero di consensi relativi.
Nel corso del tempo ciò ha prodotto un bipolarismo estremo che è sotto gli occhi di tutti. Si deve risalire al 1992 per avere un “terzo candidato” con una percentuale di voti consistente. Si trattava di Ross Perot, miliardario texano che riuscì ad ottenere il 18% dei consensi popolari seppur non ottenendo alcun grande elettore. Addirittura bisogna risalire al 1968 per trovare un terzo candidato, George Wallace del Partito indipendente americano, in grado di ottenere dei grandi elettori.
I fenomeni corollari di questo sistema settecentesco sono vari: dalla grande elasticità ideologica dei partiti, al fenomeno del concentrare gli sforzi elettorali quasi solamente nei cosiddetti “swing state” ossia gli stati in bilico dove non è certa la vittoria di un candidato, all’enorme influenza del settore privato, grazie ad un ampio lobbismo, tramite i finanziamenti delle campagne elettorali.
Se la questione si fermasse qui, come italiani ed italiane, ci importerebbe poco del sistema elettorale statunitense. Sarebbe solamente un argomento di studio o discussione o tutt’al più un esercizio di stile
La problematica sorge nel momento in cui anche il nostro sistema elettorale è stato, a più riprese, modellato sul sistema statunitense, scardinando quel sistema proporzionale praticamente puro che per quasi 50 anni ha caratterizzato il nostro paese.
L’anno dell’abiura di quel sistema considerato poco “moderno” e poco adatto alla governabilità è il 1993.
La data non è casuale: il PCI si è sciolto da quasi due anni, il blocco di Varsavia ha cessato di esistere e la prima repubblica sta per giungere al termine. In questo contesto la gran parte dei partiti italiani (PDS compreso) decide che gli Stati Uniti ed il loro sistema siano il modello da seguire e prima con il referendum Segni e poi con il Mattarellum costruiscono un sistema maggioritario quasi totale.
Ciò segna, per davvero, la fine della cosiddetta prima repubblica. Questo è il vero punto di non ritorno perché cambiano le regole del gioco ed il gioco delle elezioni non sarà più lo stesso.
L’ampia rappresentanza data dal sistema proporzionale pure scompare. Pensiamo solo a Democrazia Proletaria che nel corso degli anni ha avuto un gruppo parlamentare senza mai superare il 2% dei consensi. Pochissimi erano i voti che non trovavano rappresentanza nel consesso parlamentare; si parlava veramente di democrazia rappresentativa.
Invece il disegno dietro al Mattarellum era quello di creare (obtorto collo) due poli: uno di destra ed uno di sinistra, molto ampi e molto variegati che si potessero contendere il Governo del Paese.
Suona estremamente simile a ciò che accade negli USA. Addirittura il Movimento Sociale Italiano cambiò nome e strategia prevedendo che si creasse, in contrasto con la propria Alleanza Nazionale, un’alleanza Democratica o Progressista che racchiudesse post-comunisti, comunisti, democratici di sinistra etc.
Il calcolo fu sbagliato nella forma ma non nella sostanza.
L’americanizzazione della politica ha portato pian piano alla marginalizzazione delle parti più “estreme” dei due poli ed ha caratterizzato anche le varie crisi che si sono prodotte dentro Rifondazione Comunista.
L’impossibilità a tratti di avere un ruolo terzo ed autonomo è stata un nodo centrale nella storia del nostro partito, nodo dal quale si sono causate le due scissioni più corpose: i comunisti italiani e i vendoliani che daranno vita a SEL.
La bipolarizzazione è quindi passata dal piano legislativo, al piano politico per approdare al piano culturale, tanto che ad oggi appare chiaro che la logica del bipolarismo sia permeata nel pensiero comune.
Ciò rappresenta, non solo per noi comunisti, uno di quei tasselli di perdita della democrazia che il nostro paese ha vissuto dagli anni ’90 in poi. L’erosione del tessuto democratico è stata continua ma inarrestabile e la vediamo in atto in questo momento con l’autonomia differenziata ed il premierato.
La questione del bipolarismo, anche se attenuata con l’attuale sistema elettorale ma fortissima a livello mediatico, rappresenta a mio avviso una questione non secondaria, un punto dirimente di analisi dei giochi politici del nostro paese.
La bipolarizzazione del pensiero politico non fa altro che renderlo più malleabile e prono ai compromessi, meno chiaro e più torbido. L’introiettamento nelle coscienze dello schema à deux ha portato ad una perdita di lucidità politica, di analisi e di elaborazione, anche nella persona comune non militante politico. La schematizzazione tra due lati non permette le visioni alternative, diverse, di cambio della società e non solo della sua amministrazione.
Per concludere da queste elezioni statunitensi, dalle sue regole, possiamo imparare molto. Possiamo capire quale modello non copiare e assumere come a noi vicino e cercare di riportare una vera democrazia nel nostro paese.
Paolo Bertolozzi
Coordinatore nazionale Giovani Comunisti/e Rifondazione Comunista
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