Elkann, Della Valle, Moratti. I miliardari italiani stanno facendo cassa
L’ingresso della Borsa di Milano © wikicommons
Il capitalismo familiare italiano smobilizza e si tiene “liquido”, mentre la Borsa di Milano raccoglie solo banche e assicurazioni che macinano profitti e dividendi senza incidere in alcun modo sull’economia reale. Il governo intanto vara un ennesimo piano di rottamazione per gli evasori. Sulle spalle di chi paga. L’analisi di Alessandro Volpi
I Della Valle decidono di cedere una parte della propria partecipazione in Tod’s, vendendola ad un fondo di private equity, di cui è azionista Lvmh di Bernard Arnault, leader nel settore della moda di lusso: in sostanza la famiglia cede a un “concorrente”, sostenuto da un fondo finanziario. Quasi contemporaneamente la famiglia Moratti cede la sua quota in Saras alla società olandese Vitol, che sta comprando anche il rigassificatore di Rovigo. In sintesi, alcune famiglie “imprenditoriali” italiane cercano liquidità, limitando la loro presenza produttiva, affidata a colossi esteri che hanno sicuramente la testa molto lontana dall’Italia.
Nel frattempo continua a diventare sempre più piccola la Borsa di Milano, con una capitalizzazione di circa 750 miliardi di euro perché, tolte banche e assicurazioni, quota davvero poco, a dimostrazione della sua natura sostanzialmente finanziaria. Ma il dato ancora più rilevante è costituito dal fatto che gli investitori istituzionali italiani sono solo l’8% del totale: il 92% è composto da stranieri, di cui poco meno del 40% sono statunitensi e, guarda caso, sono grandi fondi.
Il capitalismo familiare italiano smobilizza e si tiene “liquido” mentre la Borsa milanese raccoglie solo banche e assicurazioni che macinano profitti e dividendi senza incidere in alcun modo sulla ripresa dell’economia reale, ormai quasi interamente composta da centinaia di migliaia di piccolissime imprese familiari, ben distanti dal capitalismo familiare, e da pochi gruppi in mani straniere.
In questo contesto il presidente della Repubblica Sergio Mattarella ha incontrato John Elkann, trascurando forse quanto sta avvenendo all’interno di quella famiglia che rispecchia in buona misura le scelte di una “aristocrazia” in piena fuga. Gli Agnelli possiedono il 52% di Exor, che ha, in diritti di voto, il 23% di Stellantis. Ora, la “Giovanni Agnelli” è una società che a lungo non era neppure formalmente registrata, Exor ha sede fiscale in Olanda, come del resto Stellantis. La multinazionale, dopo aver svuotato gli stabilimenti italiani di gran parte dei modelli produttivi e dopo aver licenziato migliaia di lavoratori, ha mandato di recente 15mila lettere di licenziamento mentre usufruisce da tempo di incentivi milionari e della cassa integrazione. Perché il capo dello Stato incontra Elkann che, peraltro, è stato denunciato da sua madre per una spinosa vicenda testamentaria? Quando finirà il riflesso condizionato della sudditanza verso un capitalismo italiano che non c’è più?
In realtà, nel nostro Paese, il servaggio nei confronti dei super ricchi si manifesta in modo ancora più palese. Esistono, infatti, poche migliaia di famiglie che detengono circa il 35% della ricchezza italiana: oltre il 50% di tale ricchezza è di natura finanziaria, su cui tali famiglie non pagano pressoché imposte -sempre ammesso che abbiano la residenza in Italia- perché circa 60mila italiani sono residenti in Paesi a fiscalità ancora più agevolata. Sulla parte immobiliare del loro patrimonio non pagano l’Imu se si tratta di prima casa, a meno che non si tratti di castelli che, peraltro, hanno beneficiato del superbonus. Se affittano una parte del loro patrimonio, anche se incassano milioni di euro, pagano il 21% e se hanno un reddito plurimilionario pagano il 43% di Irpef. Alla luce di simili numeri è evidente perché i super ricchi siano i più fedeli partecipanti alle elezioni italiane.
Nei giorni scorsi ha suscitato scalpore il fatto che l’Agenzia delle entrate abbia crediti per oneri non pagati per oltre 1.100 miliardi di euro e che di questi soltanto un centinaio siano ancora recuperabili. Grande clamore ma intanto viene avviata una nuova “rottamazione” di cartelle, che significa uno sconto per coloro che non hanno pagato. Per essere più chiari: rottamare significa ridurre il debito di chi non ha pagato, ma la differenza non pagata dai debitori non si cancella perché quel credito è iscritto nei bilanci pubblici e quindi deve essere coperto o tagliando le spese o facendolo pagare, con le imposte, a chi le imposte le ha regolarmente pagate. In pratica significa far pagare ad altri, che magari l’hanno sempre fatto, quello che non saldano gli evasori.
In simile ottica ci sono dati che dovrebbero essere ben noti. I Governi Renzi, Gentiloni, Conte e Meloni hanno varato quattro “rottamazioni” che avrebbero dovuto recuperare 64,5 miliardi di euro, destinati a rappresentare una riduzione di un credito complessivo dello Stato quasi doppio. Di questi 64,5 miliardi, in realtà, ne sono stati incassati poco più di venti. In pratica, lo Stato ha dovuto coprire un “buco”, rispetto a queste rottamazioni, di un centinaio di miliardi di euro, operando con tagli e con incremento fiscale su chi ha regolarmente pagato. Un salasso difficilmente sostenibile dovuto, peraltro, a mancati versamenti in larghissima percentuale da soggetti che hanno un debito fiscale superiore ai 500mila euro. I condoni sono davvero un esercizio illusionistico che assume i caratteri della droga letale.
Alessandro Volpi è docente di Storia contemporanea presso il dipartimento di Scienze politiche dell’Università di Pisa. Si occupa di temi relativi ai processi di trasformazione culturale ed economica nell’Ottocento e nel Novecento
19/2/2024 https://altreconomia.it/
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