Emilia e Romagna. Insanità versione bonacciniana

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di Elena Govoni

Il Sistema Sanitario della Regione Emilia Romagna viene tutt’ora citato a modello come sistema che garantisce a tutti le cittadine e a tutti i cittadini l’applicazione del diritto alla salute stabilito dall’art. 32 della Costituzione. Una organizzazione che permette a tutte e a tutti l’accesso a prestazioni sanitarie di qualità in tempi congrui, con una quota di compartecipazione alla spesa proporzionata al reddito famigliare (ticket). Un sistema all’avanguardia negli screening finalizzati alla diagnosi precoce delle patologie oncologiche maggiormente diffuse: mammografia, pap test e ricerca del sangue occulto nelle feci, ad accesso diretto e gratuito, ad esempio.

Al di là delle apparenze e della narrazione che continua a definirlo una eccellenza nel quadro nazionale, si tratta in realtà di un sistema fragile e imperfetto, di un gigante con i piedi di argilla, considerato l’effetto che ha avuto su di esso la pandemia da COVID-19.
L’enorme stress al quale è stata sottoposta tutta l’organizzazione sanitaria emiliano romagnola, la carenza di posti letto, di personale, l’inadeguatezza della medicina del territorio, hanno portato alla luce tutte le criticità conseguenti a venticinque anni di tagli, di chiusure di ospedali periferici, di riduzione del personale per mancata copertura del turn over.

Durante la campagna elettorale del 2020 il Presidente della Regione Emilia Romagna Stefano Bonaccini, candidato al suo secondo mandato, decantava il carattere pubblico, gratuito ed universalistico del sistema sanitario regionale. E nel contempo siglava accordi con i rappresentanti delle strutture sanitarie private, trasferendo ingenti fondi pubblici dal bilancio regionale alle casse delle cliniche, degli ospedali e dei poliambulatori accreditati.
Mentre scrivo questo documento, in Emilia Romagna è in corso una mobilitazione del personale sanitario pubblico a causa degli annunciati tagli al personale e alla spesa corrente in generale: l’Assessorato alla Sanità della Regione ha prospettato un potenziale disavanzo di bilancio per il 2023 pari a quasi 400 milioni di euro, dando indicazioni alle AUSL di contenere la spesa almeno per il primo semestre del 2023. Si profila lo spauracchio del commissariamento con conseguente piano di rientro.

Per comprendere come siamo arrivati a questo punto, dobbiamo fare un passo indietro nel tempo e allargare lo sguardo.

A partire dagli anni ‘90 inizia l’aziendalizzazione del sistema sanitario nazionale, che deve rispondere alle esigenze di controllo del debito pubblico imposto dai parametri di Maastricht. Il sistema sanitario pubblico, universale e gratuito, costa troppo, e si comincia ad introdurre il concetto di “sostenibilità del sistema sanitario”: una metamorfosi profonda, anche nell’immaginario collettivo. La Legge 833/78 aveva definitivamente messo in soffitta le casse mutua distinte per categorie economiche, dando piena applicazione all’art. 32 della Costituzione e rendendo la salute un diritto di tutte e di tutti, indipendentemente dalla categoria economica di appartenenza. Dopo poco più di dieci anni dall’entrata in vigore della legge, l’ Unità Sanitaria Locale USL, struttura tecnica deputata a garantire il diritto alla salute per tutte e per tutti in un determinato territorio di competenza, soprattutto attraverso l’educazione sanitaria, la divulgazione di corretti stili di vita, la prevenzione degli infortuni e delle malattie professionali nei luoghi di lavoro, viene trasformata in Azienda Unità Sanitaria Locale AUSL.

Il processo inizia con il D.Lgs. 502/1992 (primo Governo Amato) e prosegue con la Legge 537/1993, finanziaria 1994 (Governo Ciampi). Nel mirino dei tagli finiscono prima di tutti i posti letto: l’ alto tasso di ospedalizzazione, la degenza media ospedaliera troppo lunga, il sempre più frequente ricorso ad indagini analitiche e strumentali, per giungere a diagnosi più accurate possibili, effettuate in regime di ospedalizzazione, assorbivano una fetta troppo consistente della spesa sanitaria, ed andavano drasticamente ridotti. Gli standard quantitativi di previsione dei posti letto ospedalieri passarono da 6,5 ogni mille abitanti a 5,5. Tutto ciò avveniva in un contesto di indebolimento del pensiero politico che aveva portato alla nascita del sistema sanitario nazionale così come concepito dalla Legge 833/78. Lo stesso pensiero politico che aveva fatto nascere la Legge 180/1978 e della Legge 194/1978. Ora invece siamo nell’epoca dell’ascesa imprenditoriale e politica di Silvio Berlusconi.

Con la finanziaria 1994 la funzione della sanità privata viene equiparata a quella della sanità pubblica, e vengono gettate le basi per la gestione del sistema sanitario secondo un ambito regionale, nel quale pubblico e privato si sostengono reciprocamente, mediante l’istituto della convenzione: nel caso in cui le strutture pubbliche non fossero in grado di soddisfare la domanda di prestazioni sanitarie, sarebbero entrate in gioco le strutture private convenzionate.

Altro passaggio fondamentale per la trasformazione del sistema sanitario è quello dell’introduzione del finanziamento agli ospedali basato non più sull’indice di occupazione posti letto (e quindi sulla durata media della degenza ospedaliera), bensì sul rimborso delle prestazioni effettivamente erogate. Fu stabilito che ad ogni prestazione venisse assegnata una tariffa calcolata sulla base di criteri legati prevalentemente alle caratteristiche del paziente che, inseriti in un software, determinavano l’ ammontare del rimborso che l’ospedale riceveva. In questo meccanismo di pagamento, il privato, vocato al profitto e al quale nulla interessa del diritto alla salute stabilito dalla Costituzione, si specializza su prestazioni programmabili ed ad alta complessità, ovvero quelle che assicurano un rimborso più alto, lasciando al pubblico tutta la gestione della emergenza-urgenza e quella del malato cronico. Vedremo poi che, con il tempo, il privato tenderà ad assicurarsi anche queste fette di mercato, attraverso la gestione dei dipartimenti di emergenza-urgenza affidata a cooperative di medici e la gestione delle residenze sanitarie assistite per anziani non autosufficienti.

Si noti come anche l’uso del linguaggio si sia adeguato alla concezione della salute come merce da contendersi sul mercato, e non più come diritto della persona e servizio alla comunità. Il servizio sanitario diventa sistema sanitario, visite ed esami diventano prestazioni, i cittadini diventano utenti, ecc. ecc.

Nel frattempo la politica si preoccupava di riformare il Titolo V della Costituzione: nel 2001 il Governo Amato sanciva il passaggio delle competenze in materia di salute e sanità alla singole regioni, con il risultato di passare da un servizio sanitario nazionale a venti sistemi sanitari regionali differenziati. Il diritto alla salute non era più uguale per tutti.

La Regione Emilia Romagna ha anticipato di cinque anni questo passaggio. La Delibera Regionale n. 86 del 1996 è l’atto che sostanzialmente determina l’attuale impianto del sistema sanitario regionale, così articolato:

. dotazione di 5,5 posti letto pubblici per mille abitanti;
. riduzione della durata media della degenza sotto gli undici giorni;
. implementazione di posti letto a pagamento (i cosiddetti solventi) in misura non inferiore al 5% e non superiore al 10% del totale dei posti letto;
. dotazione di posti letto privati tra l’8 e il 10% del totale dei posti letto della rete ospedaliera regionale;
. aumento del ricovero diurno con trasformazione tra il 5% e il 10% di posti letto ordinari in posti di day hospital;
. adozione della forma di finanziamento in base a tariffa per prestazione effettivamente
erogata;
. organizzazione degli ospedali basata sulla separazione dei posti letto per acuti da quello
dei posti letto per post-acuti, con la creazione dei dipartimenti ospedalieri;
. ricovero dei pazienti cronici in strutture di tipo socio-assistenziale come le RSA.

Gli effetti di questa riorganizzazione sono principalmente la chiusura dei piccoli ospedali periferici, fatta digerire ai numerosi comitati nati a difesa degli ospedali adducendo esigenze di sicurezza dei pazienti e degli operatori, e il sempre maggiore ricorso alle strutture private per far fronte alle richieste dei cittadini. Nel linguaggio comune cominciano a fare capolino i termini razionalizzazione, efficientamento, digitalizzazione.

La crisi finanziaria globale del 2008 determina una ulteriore accelerazione del processo di tagli alla spesa sanitaria, inserita nella generale tendenza alla spending rewiew. La dotazione di posti letto scende a 3,7 ogni mille abitanti e il fondo sanitario nazionale subisce una riduzione di tre miliardi. Viene attuato un taglio del 5% sull’acquisto di beni e servizi.

In Emilia Romagna siamo all’epoca della Presidenza Vasco Errani: dal 2010 al 2013 vengono tagliati ulteriori 1500 posti letto pubblici e 1000 unità di personale dipendente. La manovra viene presentata come necessaria a garantire la qualità delle prestazioni, cosa che può avvenire solo in grandi ospedali modernamente attrezzati. Viene prima reclamizzato e poi realizzato il modello logistico hub and spoke: un sistema applicato dalla rete delle compagnie aeree, costituito da uno scalo dove si concentra la maggior parte dei voli (detto hub) collegato con altri aeroporti a basso flusso di passeggeri (gli spoke). Il risultato di convogliare sull’hub la maggior parte del traffico aereo va a discapito del tempo di viaggio, che risulta maggiore a causa degli spostamenti tra spoke e hub e della necessità di dover fare più scali. Come potete senz’altro comprendere, siamo in piena applicazione delle teorie economiche del neoliberismo alla tutela del diritto alla salute. La salute non è più un diritto inalienabile sancito dalla Costituzione, ma una merce da collocare sul mercato secondo le regole del profitto economico.

Per attenuare l’impatto mediatico e sulla popolazione generato dalla chiusura degli ospedali periferici viene presentato un piano di riorganizzazione territoriale che interessa tutti gli ospedali con meno di 120 posti letto, e che prevede la loro trasformazione in ospedali di comunità OS.CO., strutture sanitarie gestite dai medici di medicina generale con assistenza infermieristica 24 ore su 24, in grado di costituire un cuscinetto tra la gestione della fase acuta (che avviene negli ospedali hub), quella della fase riabilitativa (negli ospedali spoke OS.CO.) e la dimissione con rientro del paziente a domicilio ed eventuale assistenza infermieristica domiciliare, ovvero collocazione in RSA o CRA.

Il progressivo invecchiamento della popolazione ha incrementato il numero di persone portatrici di più patologie croniche, che necessitano di un’assistenza multidisciplinare adeguata. Per queste persone esistono tre possibilità di risposta data da sistema socio sanitario regionale.

  • La RSA (Residenza Sanitaria Assistita), struttura a bassa intensità medico-infermieristica, in grado di seguire pazienti cronici non autosufficienti e non gestibili a domicilio;
  • le CRA (Case Residenza Anziani), comunemente dette “case di riposo”, strutture prive di personale infermieristico e solitamente seguite da un medico convenzionato presente alcune ore a settimana. Le CRA, inizialmente gestite in parte dai comuni, in parte dalla AUSL, e in parte dal fondo regionale per la non autosufficienza;
  • l’assistenza domiciliare socio-sanitaria in carico ai comuni per gli aspetti sociali e alla AUSL per quelli sanitari.

Tornando alla riorganizzazione che ha trasformato i piccoli ospedali in OS.CO., occorre dire che essa ha lasciato sul campo di battaglia circa 2700 posti letto in tutta la regione, e che ha contribuito ulteriormente a parcellizzare il trattamento del paziente in tre fasi distinte e non dialoganti tra loro: la fase acuta, quella riabilitativa, quella cronica.
Ulteriore effetto della modello hub and spoke è stata la centralizzazione in capo agli ospedali hub di numerose attività che prima erano diffuse sul territorio, quali, ad esempio, la diagnostica di laboratorio e la radiologia.
Nei locali lasciati liberi dalla riduzione di posti letto vengono collocate le Case della Salute, che nel furore riformista avrebbero dovuto essere il pilastro portante della medicina del territorio. Al loro interno i medici di medicina generale si organizzano in medicina di gruppo, vengono collocati i pediatri di libera scelta, i medici di continuità assistenziale (guardia medica), specialisti ambulatoriali, infermieri, ostetriche, terapisti della riabilitazione, consultori, assistenti sociali, ecc. ecc. Presentate come la “sanità vicina ai cittadini”, le Case della Salute sono nei fatti edifici pubblici messi a disposizione a titolo gratuito di professionisti sanitari privati convenzionati: i medici di medicina generale hanno assunto segretari ed infermieri, gli specialisti ambulatoriali convenzionati sono assistiti da infermieri dipendenti dal servizio sanitario regionale pubblico, terapisti della riabilitazione e logopedisti sono spesso liberi professionisti. Senza che il cittadino/utente sia consapevole della differenza, percependo tutto

l’insieme misto pubblico/privato come un unico soggetto erogatore di prestazioni sanitarie.

Nel quadro della privatizzazione della sanità emiliano romagnola si collocano a pieno titolo anche le farmacie, prima di proprietà dei comuni (soprattutto a Bologna, direttamente dai comuni, ora sono accorpate in Azienda di Servizi alla Persona ASP, con retta a carico degli ospiti, integrata Modena e Parma), ora totalmente svendute alle grandi catene farmaceutiche internazionali. Le farmacie emiliano romagnole sono in grado di erogare numerose prestazioni che prima erano ottenibili esclusivamente nelle strutture pubbliche: prenotazione di visite ed esami, pagamento del ticket, esecuzione di tamponi diagnostici COVID-19, vaccinazioni antinfluenzali e COVID-19, analisi di laboratorio, visite specialistiche, accesso al fascicolo sanitario elettronico, rilascio di SPID. Ovviamente tutta questa serie di prestazioni non avviene a titolo gratuito: le associazioni di categoria hanno stipulato accordi con la Regione nei quali sono definite le tariffe per ogni prestazione.

Parallelamente al taglio dei posti letto e alla trasformazione degli ospedali periferici in OS.CO e in case della salute, abbiamo assistito alla costruzione di nuovi grandi ospedali (gli hub) con ricorso al project financing: soldi pubblici che sono finiti nelle tasche di privati in cambio della gestione per molti anni di servizi ospedalieri esternalizzati: manutenzione, pulizia, trasporti, fornitura pasti, lavanderia ecc. ecc. Con la scusa che è economicamente più vantaggioso costruire nuovi ospedali piuttosto che ristrutturare quelli esistenti, si procede con un elevato consumo di suolo, con la impermeabilizzazione di terreni agricoli per la realizzazione di arterie stradali di collegamento e di parcheggi, ben sapendo quali siano gli effetti di queste opere sul cambiamento climatico e sulla risposta del terreno ai fenomeni atmosferici estremi così frequenti da qualche anno, caratterizzati da periodi di siccità ed ondate di calore, interrotti da violenti nubifragi, trombe d’aria, allagamenti e frane. In una regione il cui territorio è estremamente fragile, con zone montane spopolate e aree pianeggianti ad antropizzazione diffusa e che ha varato una legge urbanistica che prevede zero consumo di suolo.

Il lavoro in ambito sanitario è sempre più faticoso e insoddisfacente. La carenza di personale

ha raggiunto livelli tali da non garantire il diritto al riposo, ai permessi, alle ferie, alla agibilità sindacale.
Molti professionisti sono impossibilitati a frequentare i corsi di formazione resi obbligatori dalle norme sulla educazione continua in medicina, e rischiano sanzioni che possono arrivare fino all’allontanamento dal servizio con sospensione dello stipendio. Nello stesso reparto possono trovarsi a coesistere operatori sanitari assunti con contratti di lavoro dipendente, liberi professionisti, medici a gettone, dipendenti di cooperative in appalto, lavoratori interinali. Ciascuno con diverse tipologie di contratto e diversi obblighi nei confronti della AUSL di riferimento. Un caos organizzativo che causa disservizi e insoddisfazione dei pazienti e dei parenti che a volte sfocia in episodi di aggressione verbale e anche fisica. I bandi per la ricerca di personale vanno puntualmente deserti: le professioni sanitarie non sono più appetibili a causa della bassa retribuzione, dell’impegno richiesto, della impossibilità di avanzamenti di carriera. La errata programmazione del fabbisogno di personale sanitario, il numero chiuso alle facoltà di medicina e scienze infermieristiche, la scarsità di borse di studio per specializzandi, hanno determinato un drastico impoverimento della forza lavoro, impossibile da colmare nell’immediato.

Il servizio sanitario della Regione Emilia Romagna si trova oggi ad essere sull’orlo del commissariamento a causa delle politiche di riduzione della spesa sanitaria attuata da tutti i governi che si sono succeduti negli ultimi 20 anni. Stiamo parlando di 37 miliardi di tagli a livello nazionale. Si tratta di un vero e proprio smantellamento del servizio pubblico attuato in nome del contenimento della spesa, supportato dalla normativa nazionale, senza che la Regione Emilia Romagna si sia mai opposta. Al contrario: le delibere regionali, le Conferenze Territoriali Socio Sanitarie, i Piani Attuativi Locali, hanno puntualmente assecondato, a volte addirittura anticipato, i provvedimenti nazionali volti a ridurre la spesa destinata a garantire il diritto alla salute a tutte e a tutti.

Il processo di riforma, lento ma inesorabile, ha favorito sempre più la sanità privata, che non potrebbe sopravvivere al cospetto di un servizio sanitario pubblico efficiente e adeguatamente finanziato.

Il tema dei tempi di attesa per le visite, gli esami diagnostici e strumentali e gli interventi, l’intasamento dei pronto soccorso, la difficoltà a trovare un posto letto che non sia a distanza kilometrica da casa, meritano un approfondimento che non è qui possibile fare.
Ma sono la diretta conseguenza dei tagli effettuati, spacciati per riorganizzazione del servizio sanitario. Sono ciò che le cittadine e i cittadini devono affrontare ogni giorno quando hanno la sventura di dover ricorrere a cure mediche. Chi se lo può permettere paga di tasca propria pur di ottenere prestazioni in tempi congrui rispetto alla gravità e complessità del caso. Gli altri, quelli che per ragioni economiche e sociali non possono ricorrere alla spesa cosiddetta out of pocket non hanno altra alternativa che attendere o
rinunciare alle cure, con compromissione del loro stato di salute. Stiamo rappresentando un sistema iniquo, potremmo dire un elemento classista in un sistema che deve invece essere a vocazione universalistica. La tutela della salute delle cittadine e dei cittadini compete sia allo stato che alle regioni. Entrambi sono vincolati ad una politica sempre più spinta di contenimento del tetto di spesa, sulla base di una normativa che considera la salute un costo, e non un investimento in termini di benessere psico fisico della persona e della comunità intera.

Occorre riportare al centro della politica ad ogni livello la salute e il diritto di tutte e di tutti a ricevere cure efficaci, appropriate, sicure e tempestive, senza distinzioni economiche, o sociali, o di luogo di residenza, come prospettato dal DDL sulla autonomia regionale differenziata, che va respinto con decisione.
Sono obbiettivi che solo un servizio sanitario pubblico dotato delle risorse economiche necessarie può assicurare.

Se non si inverte rapidamente la tendenza al depauperamento delle risorse assegnate, si rischia di assistere alla morte del servizio sanitario nazionale così come delineato dalla Legge 833/78, e alla sua sostituzione con un sistema sanitario di tipo americano, nel quale solo chi dispone di risorse economiche proprie può accedere alle cure sanitarie.

Elena Govoni

Segretaria PRC Modena
19/3/2023

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