Epidemiologia & Enigmistica. Ha senso un’epidemiologia disgiunta dalla prevenzione?
Quando agli inizi degli anni ’70 sono entrato all’Istituto di Biometria di Milano non si parlava di epidemiologia, ma solo di statistica medica e di statistica sanitaria; la prima era essenzialmente metodologia per i Clinical Trials e la seconda erano solo conteggi di eventi di interesse sanitario. La rivista dell’Istituto si chiamava «Abdce» (Appicazione biomedica del calcolo elettronico) e le attività erano appunto per lo più concentrate sulla promozione dei supporti di calcolo scientifico alle sperimentazioni cliniche.
La sanità e la prevenzione
Fu il movimento culturale che portò poi a fine anni ’70 all’istituzione del Servizio sanitario nazionale a dare importanza alle analisi della salute della popolazione, cioè all’epidemiologia prima quasi confinata all’ambito infettivologico. Nacque l’Associazione italiana di epidemiologia, con il contributo sia degli statistici medici sia degli igienisti, e Giulio Alfredo Maccacaro, direttore dell’Istituto, decise di creare una nuova rivista che volle chiamare «Epidemiologia & Prevenzione». Maccacaro, prima di andare in Inghilterra da Ronald A. Fisher, era cresciuto a Pavia come igienista e poi a Milano come microbiologo e quindi la parola prevenzione gli era consueta, ma per noi altri fu un po’ una sorpresa inizialmente strana anche perché di prevenzione non ci eravamo sino ad allora mai occupati.
Ha senso una epidemiologia che non miri alla prevenzione?
Maccacaro diceva appunto che la sanità doveva svilupparsi sulla prevenzione e lo strumento necessario era appunto l’epidemiologia, che avrebbe permesso di indentificare i fattori di rischio sui quali attivarsi con misure preventive. Mi sia allora permesso oggi di riflettere e di chiedermi se queste idee siano ancora valide e se abbia senso una epidemiologia che non miri alla prevenzione, e anche di chiederci quanti articoli della nostra rivista E&P parlino appunto di prevenzione.
Siamo innamorati dell’algoritmo?
Qualche volta ho l’impressione che ci siamo innamorati più dell’algoritmo che dello scopo delle nostre analisi. Anche analizzando gli appunti di molti referee mi sembra che spesso l’attenzione sia quasi del tutto concentrata sull’eleganza del metodo invece che sulla rilevanza del contenuto. Non mi si equivochi però: non sto dicendo che la correttezza e l’appropriatezza dei metodi non sia essenziale, ma solo che spesso si rischia di esaurirsi a ragionare su di questi e non sugli obiettivi e sull’applicabilità delle analisi epidemiologiche.
L’epidemiologia non solo è importante, spesso anche è divertente ed è per questo che c’è il rischio che talvolta diventi una epidemiologia enigmistica, tutta orientata a risolvere rebus o sciarade o a cercare errori o bias; talvolta infatti, quasi con irriverenza, l’epidemiologo viene etichettato come cacciatore di bias.
Ma la separazione tra epidemiologia e prevenzione non è tutta colpa degli epidemiologi, molta deve essere attribuita a chi governa il sistema sanitario, che non solo lesina poche risorse economiche alla prevenzione, ma anche confina i pochi operatori che fanno epidemiologia lontano (funzionalmente) da chi gestisce le attività preventive. Così invece non accade per chi si occupa di epidemiologia clinica o di epidemiologia valutativa, entrambe maggiormente integrate con i rispettivi ambiti di attività.
L’impact factor della prevenzione
L’Impact factor di uno studio epidemiologico non dovrebbe tanto, o solo, essere funzione della frequenza con cui è stato citato, quanto della frequenza delle attività preventive che ha innescato. E non si dovrebbero solo cercare di scoprire i determinanti di una condizione patologica, ma si dovrebbero individuare, o per lo meno ipotizzare, le possibili azioni per la loro rimozione. Fare diagnosi è necessario e importante, ma inutile se non tende a trovare la giusta terapia; a che servirebbe un patologo se poi non ci fosse un clinico, e può il patologo ignorare la clinica?
I tempi dell’analisi spesso sono lunghi e non è certo possibile avviare processi di prevenzione prima che vi sia almeno un solido impianto di sospetti, se non addirittura di certezze. Ma le scelte sarebbero differenti se l’obiettivo fosse quasi solo la conoscenza invece della prevenzione. Il gusto della caccia alla soluzione del quesito epidemiologico e dell’applicazione di una metodologia brillante e avanzata sono sicuramente una necessaria ricompensa alle attività di analisi che per molti versi sono faticose e spesso anche noiose, ma guai a compiacersi solo di questi aspetti!
E sembra addirittura banale ricordarci che costruire conoscenza in campo sanitario sarebbe inutile se non producesse in modo diretto o indiretto maggiore salute per la popolazione.
Superando le molte tentazioni pessimistiche, auspichiamo che il SSN sviluppi maggiormente le attività di prevenzione e che queste trovino la necessaria integrazione con le analisi epidemiologiche. Questa è la richiesta che gli epidemiologi e gli igienisti devono fare in modo pressante alla Politica.
Cesare Cislaghi
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