Ergastolo ostativo. C’è chi dice no
Intervista di alba Vastano –
L’argomento è di quelli tosti. Si tratta di ‘ergastolo ostativo’, quell’istituto che, a differenza del comune ergastolo, non consente benefici penitenziari. Negati quindi benefici come: i permessi premio, la liberazione condizionale, il lavoro esterno, la semilibertà e qualsiasi misura alternativa alla detenzione. Non è un assoluto, in quanto i detenuti potrebbero beneficiarne a condizione che, ai sensi dell’art. 58-ter o.p., collaborino con la giustizia. La Corte costituzionale con un comunicato emesso il 15 aprile u.s. dichiara che l’ergastolo ostativo è anticostituzionale e rimanda la questione alle delibere in merito del Parlamento.
Intanto la questione in essere pone degli interrogativi. Ergastolo ostativo sì o no? Il dilemma assume toni alti quando ci si riferisce ai detenuti con le limitazioni previste dall’art. 4 bis che ha introdotto il concetto estremo del ‘fine pena mai’. Si condanna il detenuto alla pena perpetua, in netto contrasto con l’art.27 della Carta costituzionale che disciplina la funzione rieducativa della pena.
La questione è dirimente nell’opinione comune, ma anche fra giuristi è contrastante. Il magistrato Gian Carlo Caselli dichiara che definire incostituzionale l’ergastolo ostativo significherebbe indebolire le misure antimafia e conferma il suo pensiero in merito in una sua recente dichiarazione “Ѐ grazie anche all’ergastolo ostativo se siamo riusciti a impedire che Cosa nostra trasformasse la democrazia italiana in un narco-stato controllato da criminali stragisti…”.
Dichiarazione in contrasto con la Corte costituzionale che ha definito l’ergastolo ostativo incostituzionale anche in base all’art. 3 della Carta, quando si riferisce, in particolare, alla pari dignità sociale. Il nodo potrebbe sciogliersi se venisse pienamente riconosciuto il non automatismo della pena, lasciando ai giudici la possibilità di valutare il singolo caso, quando su richiesta del detenuto di usufruire dei benefici penitenziari, si dovrà decidere se concederli o meno, vagliandone l’iter carcerario già trascorso.
Cesare Antetomaso, avvocato penalista e portavoce della sezione romana dell’associazione ‘Giuristi democratici’(ndr, con il quale non potrei non condividere pienamente i principi della funzione rieducativa della pena e della pari dignità sociale, espressi nella nostra Costituzione) nell’intervista che segue, ci offre una visione ampia e chiarificatrice sulla complicata questione dell’ergastolo ostativo e i riferimenti di legge nel corso dei tempi ad oggi.
D:Dal codice Zanardelli al codice Rocco alla legge Gozzini. Avvocato può fornire ai lettori un breve excursus sulla disciplina dell’ergastolo in base al codice penale italiano?
R:L’ergastolo affonda le proprie radici nella pena dei lavori forzati, ergastulum, prevista nell’antica Roma. Non era però contemplato come carcere a vita, perché per i delitti più gravi era prevista la pena capitale; fu il pensiero giuridico del XVIII-XIX secolo, erede dell’illuminismo, a sostenere le ragioni dell’ergastolo come misura che potesse sostituire la pena di morte. Cosa che avvenne, in Italia, con il codice Zanardelli, il primo codice penale unitario, che disciplinava molto rigidamente le modalità di esecuzione dell’ergastolo, prescrivendo sette anni di isolamento completo con obbligo del lavoro, trascorsi i quali l’isolamento restava solo notturno. In più, ergastolo era anche il nome dello stabilimento di reclusione nel quale doveva essere scontata la pena, un istituto speciale destinato a ospitare unicamente i condannati a vita. Con il codice Rocco del 1930, per precisa scelta del regime viene invece reintrodotta la pena di morte e, per converso, l’ergastolo trovò una sua attenuazione, con l’eliminazione dell’isolamento diurno e la previsione dell’ammissione del lavoro all’aperto dopo tre anni.
Fu poi la Costituzione repubblicana a mitigare, almeno in parte, gli aspetti più deleteri del codice fascista, prima di tutto attraverso la cancellazione della pena capitale. In seguito, dapprima la legge Zagari sull’ordinamento penitenziario (1975) abolì i penitenziari speciali e l’isolamento, poi la legge Gozzini (1986) tentò di armonizzare maggiormente —per quanto possibile— con il dettato costituzionale l’esecuzione della pena, rendendo accessibile al condannato la liberazione condizionale dopo ventisei anni, la semilibertà dopo venti e la liberazione anticipata.
D: Cosa si intende per ergastolo ostativo e per quali reati si esclude o si dovrebbe escludere il soggetto detenuto dai benefici penitenziari?
R:Ostativo è l’ergastolo che non ammette la concessione dei benefici che abbiamo appena ricordato, nonché altri come lavoro esterno e permessi premio, ai condannati per taluni dei delitti ritenuti più gravi dalla legge penale. Questo avviene quando i detenuti vengano valutati come “non collaboranti” con la giustizia, oppure quando la loro collaborazione sia giudicata impossibile o irrilevante. La norma che contempla l’ostatività è l’articolo 4-bis della legge sull’ordinamento penitenziario, introdotta con plurimi interventi a partire dai primi anni ’90 e da allora oggetto sia di progressive modifiche ed integrazioni che, soprattutto, di ripetute pronunce, sia della Corte costituzionale che della Corte EDU (Europea dei Diritti dell’Uomo). Tra i reati, vi troviamo quelli commessi per finalità di terrorismo od eversione dell’ordinamento costituzionale, quelli previsti dall’art. 416-bis c.p. (criminalità organizzata), quelli di maggior allarme sociale contenuti nel testo unico sugli stupefacenti, l’omicidio volontario e molti altri. Grazie a vari interventi della Corte costituzionale, poi, il legislatore, come detto, è intervenuto più volte sulla norma e, non più di due anni fa, ha escluso la preclusione dell’accesso ai benefici quando la collaborazione sia irrilevante, impossibile o comunque inesigibile.
D:Il 15 aprile scorso la Corte costituzionale ha emesso un comunicato in cui si dichiara incostituzionale l’ergastolo ostativo, poiché in contrasto con gli articoli 3 (pari dignità sociale) e 27 (sulla rieducazione del condannato e sul senso di umanità della pena). Contrasta anche con l’art. 3 della Convenzione EDU. Qual è il suo pensiero in merito?
R:Occorrerà leggere la sentenza per intero. L’approdo parrebbe andare nel senso auspicato da larga parte della dottrina, per cui, secondo il disegno costituzionale delle pene, si punisce qualcuno per poi averlo indietro, possibilmente cambiato: «rieducazione è la prima delle parole-faro del trattamento penitenziario. Sta scritta nella Costituzione e vieta alla pena di essere solamente pena», ha giustamente scritto Elvio Fassone, già magistrato, nel suo “Fine pena: ora”. La giurisprudenza che fin qui ha sostenuto la legittimità costituzionale dell’istituto, lo ha fatto sostanzialmente ricorrendo a questo ragionamento: l’ergastolo ostativo se lo autoinfligge il condannato che preferisce la morte dietro le sbarre a una collaborazione esigibile. Sebbene, come abbiamo visto, la Corte costituzionale abbia progressivamente ridotto il perimetro dell’obbligo per il reo di assumere una condotta collaborante.
D:Accertata dalla Corte costituzionale l’incostituzionalità dell’ergastolo ostativo e quindi la possibilità che un detenuto al 4-bis usufruisca di benefici penitenziari, ciò non “rischierebbe, però, di inserirsi in modo inadeguato nell’attuale sistema di contrasto alla criminalità organizzata’?
R: Ritengo che questa sia una domanda che andrebbe posta a coloro che sostengono una simile “inadeguatezza”. Quale idea di ‘sistema di contrasto’ hanno costoro, quale tipo di società immaginano? Devo confessare che trovo queste argomentazioni particolarmente insidiose. Perché, astrattamente, potrebbero condurre finanche a ritenere che alcuni principi fissati nella Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo possano avere un raggio d’azione limitabile in presenza di determinati contesti. Al contrario, io penso che siamo in presenza della rivendicazione del pieno dispiegamento di principi fondamentali intangibili all’interno di un diritto penale conforme alla Costituzione ed alla Convenzione EDU. Anzi: è proprio dall’anticonvenzionalità dell’attuale disciplina che derivano gli odierni approdi giurisprudenziali. Si tratta di principi che involgono la libertà e la dignità e dell’essere umano, che in quanto tali non tollerano eccezione, nemmeno in nome di una pretesa singolarità della società italiana, e ai quali sono alieni tanto la pena di morte, quanto la pena senza fine, senza prospettive, prevista dall’ergastolo ostativo.
D: Il D.L.152/1991 (convertito in L. 203/1991), confermato anche dal D.L. n.306/1992 dispone che i condannati per i delitti di cui all’art. 4-bis, comma 1, ord. pen. possono accedere alla liberazione condizionale solamente ove abbiano collaborato con la giustizia. La domanda è da intendere sulla credibilità dei collaboratori di giustizia, laddove anche famosi pentiti hanno mantenuto rapporti con le loro organizzazioni mafiose.
R:L’esempio più emblematico del meccanismo perverso indotto dall’attuale normativa, è quello di Giovanni Brusca. Condannato per aver ucciso oltre un centinaio di persone ed ordinato di sciogliere nell’acido un bambino (il povero Giuseppe Di Matteo), avvalendosi della collaborazione sta scontando un ergastolo ordinario e tra qualche mese potrà accedere ai benefici penitenziari. Altri ergastolani, invece, detenuti anche per aver ucciso una sola persona (spesso di una cosca rivale), se ritenuti non collaboranti, nonostante abbiano fruttuosamente intrapreso un percorso di trattamento, critico verso il proprio passato sono destinati a una pena perpetua e senza alcuna possibilità di accedere a misure alternative.
D: Se il condannato all’ergastolo non collabora con la giustizia, o se la collaborazione sia irrilevante, si applica la presunzione assoluta di pericolosità del detenuto e l’ergastolo è un ‘fine pena mai’. Ciò entra in conflitto con gli articoli citati della Costituzione, ma se parliamo di detenuti per reati di stampo mafioso e soprattutto radicati in una cultura di quella matrice che opera con il delinquere fuori e talvolta dentro le mura carcerarie, qualche dubbio sull’incostituzionalità sorge. Lei che ne pensa avvocato?
R:Chi argomenta in questo modo sostiene soluzioni astratte e generalizzanti che non sono consone a uno stato di diritto. Come ha affermato il Presidente emerito della Corte costituzionale Valerio Onida, supporre che i vincoli di appartenenza all’associazione criminale siano necessariamente perpetui, e che quindi solo una «rottura» pubblicamente compiuta con la scelta di collaborare con la giustizia possa far guadagnare la liberazione, contraddice la natura e la dignità dell’essere umano. Il condannato non è un soggetto incapace di esercitare la propria libertà secondo le leggi comuni a tutti, senza accusare altri (o se stesso) di reati, ma comunque recidendo i legami di dipendenza dall’associazione criminale, presupposto del recupero sociale cui è finalizzata la pena secondo Costituzione.
La valutazione sull’immanenza o meno del vincolo e sul percorso rieducativo e risocializzante deve essere compiuta caso per caso, sulla base di un procedimento complesso, al quale cioè partecipa una pluralità di soggetti, che consente al controllo giudiziale di potersi finalmente esplicare nel miglior modo possibile.
D: La Corte costituzionale, con il comunicato del 15 aprile 2021, si è espressa annunciando di ritenere l’istituto incompatibile con la Costituzione ed ha concesso al Parlamento un anno di tempo per approntare una nuova disciplina in materia. Sarà quindi il Parlamento a decidere sull’incostituzionalità dell’ergastolo ostativo anche per reati di stampo mafioso?
R:Sull’incostituzionalità, in realtà, stando allo stesso comunicato la Corte si è già pronunciata. Purtroppo, però, ha replicato quanto avvenuto nel caso Cappato: ha cioè adottato una decisione all’insegna della “incostituzionalità prospettata”. Ossia, accertata l’illegittimità della norma, ne ha rinviato la formale dichiarazione ad altra lontana udienza (addirittura tra un anno), dando così tempo al legislatore di provvedere alla riforma della norma. Andrea Pugiotto, tra i maggiori studiosi in tema di costituzionalità della pena, ha perfettamente ragione quando critica questa tecnica sostenendo che, specie in materia di libertà personale, il sindacato costituzionale deve assecondare la sua natura contro-maggioritaria. Infatti, il tempo concesso a un legislatore riluttante, che molto ne ha già sprecato, finisce per allungare indebitamente la reclusione di tutti gli ergastolani in condizione di chiedere (e magari ottenere) la fine di una pena altrimenti senza fine e che dura già da decenni.
D: Non pensa che la possibile e non auspicabile cancellazione della figura del collaboratore di giustizia darebbe il colpo di grazia alla lotta contro la mafia e farebbe vacillare tutto il sistema penalistico?
R: Questa è una domanda che comporterebbe un ragionamento difficilmente contenibile in poche righe. A mio avviso, ciò che noto è che non di rado i riscontri alle dichiarazioni vengono valutati senza l’adeguata attenzione. Quindi, un ripensamento sarebbe, esso sì, auspicabile. Aggiungo. Il caso dei finti pentiti (da Scarantino in giù) dimostra come la valenza dirimente attribuita alla collaborazione porti inevitabilmente con sé accuse strumentali (nell’interesse del collaborante, degli investigatori o di entrambi). Ergo, le presunzioni assolute del tipo “collaborante = redento” e “non collaborante = irredimibile” sono mistificatorie, proprio in quanto frutto di automatismi, che in quanto tali sono sempre da rifuggire.
D: Uno degli aspetti più controversi, e forse centrale sulla questione, è costituito dall’automatismo che comporterebbe l’eliminazione o la riduzione delle competenze del giudice di sorveglianza chiamato a valutare l’istanza dell’eventuale beneficio richiesto dal detenuto. Su questo punto si è espressa la Corte costituzionale, rimandando la questione al Parlamento. Lei cosa ne pensa in proposito?
R: La migliore dottrina (da Ferrajoli a Pugiotto) si è espressa da tempo contro tutti gli automatismi che non consentono la valutazione del percorso del condannato la quale, non va dimenticato, è frutto del lavoro di un gran numero di soggetti, che va da quelli che operano nel carcere, a quelli che operano nel territorio e infine al magistrato. Più, e non meno controllo giudiziale è quello che va richiesto.
D: Infine, secondo lei avvocato, è giusto restituire lo status di cittadino e offrire la possibilità di reintegro nella società civile all’ergastolano del 4-bis che rifiutasse di collaborare con la giustizia?
R: Come già detto, qui non stiamo valutando, ai fini di prospettare quantomeno la concessione dei benefici prima che un vero e proprio reinserimento, la condotta del soggetto recalcitrante a uscire dalla sfera del sodalizio criminale, bensì quella del soggetto che, avendo portato avanti un proficuo percorso trattamentale e di autentica critica verso il proprio passato pur senza poter fornire elementi investigativi utili (magari, a distanza di 15-20 anni dai fatti), non può accedere a misure alternative alla reclusione e vede come unico destino quello di una pena perpetua. Ebbene, per costoro ritengo certamente giusta e convenzionalmente (oltre che costituzionalmente) corretta l’opportunità di accesso ai suddetti benefici.
Aggiungo, in ultimo, che il tempo è più che mai maturo anche per rivendicare con forza l’abolizione dell’ergastolo, pena in insanabile contraddizione con i princìpi del nostro ordinamento e già espunta dai sistemi penali di larga parte degli Stati civili, poiché incompatibile con la finalità di recupero del detenuto e negatoria del diritto alla speranza, anche nei casi in cui la detenuta o il detenuto abbia già scontato numerosi anni di carcere e dato prova della capacità e volontà di reinserimento sociale.
Intervista a cura di Alba Vastano
Collaboratrice redazionale del mensile Lavoro e Salute
4 maggio 2021
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