Escalation della Nato in Ucraina e crisi economica irreversibile del modo di produzione capitalistico

Nel corso dei miei scritti negli ultimi anni ho sempre sostenuto che le cause dell’attuale conflitto bellico in Ucraina se, superficialmente, andavano ricercate nel golpe del 2014 (con l’avvio dei moti e delle provocazioni di Euromaidan, sostenuti apertamente dall’Unione Europea e degli Stati Uniti), in modo più approfondito la ricerca doveva scaturire dal processo di dissoluzione dell’Unione Sovietica. Tale dissoluzione apriva, infatti, un largo campo di intervento alle forze imperialistiche mondiali per l’appropriazione delle principali fonti energetiche e delle preziose materie prime nel vasto territorio ex sovietico.

Proprio alla fine degli anni Ottanta del secolo scorso con lo sgretolamento dei Paesi dell’est europeo e con il distruttivo processo di perestrojka gorbaceviana e soprattutto di dissoluzione dell’Unione, mano a mano che il gruppo dirigente eltsiniano (direttamente legato all’imperialismo americano ed europeo senza alcuna maschera) assumeva il controllo della Federazione socialista sovietica russa, il modo di produzione capitalistico riconquistando grandi mercati nell’Europa dell’est e in Asia centrale, nonché avendo mani libere nel mantenimento di quelli nel Terzo Mondo, superava la grave crisi economica iniziata alla fine del 1973; crisi impropriamente definita energetica dai mass media occidentali, ma in realtà era una grossa crisi di sistema del modo di produzione in riferimento all’appropriazione delle fonti energetiche, il cui dominio su scala mondiale, in generale, in seguito alla lotta dei Paesi del Terzo Mondo per l’indipendenza, delle Nazioni per la liberazione e dei popoli per la trasformazione delle società di sfruttamento, ed in particolare, anche in seguito alla politica dell’OPEC, cominciava a vacillare). Tale crisi aveva determinato effetti di sovrapproduzione, accanita concorrenza interimperialistica tra Stati Uniti, Comunità Economica Europea e Giappone, superinflazione, decentramento produttivo e delocalizzazioni, avviando il passaggio dalla fase dei monopoli a quella delle multinazionali.

Le autostrade che si aprivano nella ricerca dell’appropriazione di risorse in Europa orientale, Asia centrale, Medioriente e Indo-pacifico, oltre che con la dissoluzione dell’Unione Sovietica con quella della Jugoslavia, nonché con la prima guerra del Golfo e dieci anni dopo con la guerra in Afghanistan e poi in Iraq, avevano ricomposto le divergenze interimperialistiche, in quanto la torta da spartire era grande.

Ma tutto ciò non poteva risolvere le contraddizioni antagonistiche del modo di produzione capitalistico, le quali si riproducono periodicamente sia come crisi cicliche di breve durata, le quali si risolvono con innovazioni di prodotti (nuove merci con funzione trainante sui mercati) o di processi produttivi (diversa combinazione dei fattori produttivi con riduzione dei costi oppure nuovi settori in cui penetra il capitale, ad esempio la privatizzazione dei servizi sociali come l’acqua, la scuola e la sanità, il riciclaggio dei rifiuti o in senso lato la cosiddetta transizione energetica) sia come crisi impropriamente definite da qualche studioso ad onda lunga, in realtà meglio dire crisi di sistema, nel senso che la loro risoluzione può avvenire con modifiche strutturali. 

E dopo le prime tre della storia del capitalismo (la grande depressione 1873-1890 risolta con il protezionismo e la formazione dei monopoli; la grande crisi del 1929-33 con l’intervento dello Stato in economia applicando il keynesismo; e l’accennata crisi del 1973-fine anni Ottanta con l’abbandono del keynesismo e il crescente potere economico delle multinazionali e politico della Trilateral prima e del G7 dopo), ecco che alla fine del 2007 matura una nuova grande crisi di sistema. 

Perché? Sia per i processi insiti in tutte le misure precedenti che avevano maturato nuove esplosive contraddizioni, sia soprattutto perché compariva un antagonista forte al sistema imperialistico, che anno dopo anno solidificava e rafforzava la sua forza, cioè la Repubblica Popolare Cinese; sia infine perché in Russia si consolidava la leadership di Putin che impediva all’imperialismo di razziare le sue risorse interne, come aveva fatto per dieci anni con Eltsin, ricostituendo un forte capitale pubblico nel settore energetico e nell’apparato militare industriale, perno fondamentale della ex Unione Sovietica.

E mentre nel 2008 incalza la crisi, Putin dichiara pubblicamente che la Russia non avrebbe tollerato l’espansione della Nato verso i suoi confini. Gli ultimi due Paesi della ex Unione Sovietica nell’area geografica europea (o limitrofa ad essa) che non erano stati completamente inglobati nell’area di influenza imperialistica statunitense e della Unione Europea tramite l’aggressiva alleanza militare della Nato, lo dovevano essere ad ogni costo, vale a dire l’Ucraina e la Georgia. 

Si innescavano in tal modo due gravi crisi politiche che hanno portato a due guerre: la prima in Georgia, limitata, in seguito all’intervento russo, ma tenuta da allora a bagnomaria e può esplodere da un momento all’altro; la seconda, quella ucraina, in continua escalation fino ad essere sull’orlo dell’intervento diretto della Nato e dell’impiego delle bombe nucleari tattiche. A tal proposito la corretta proposta del candidato indipendente alle elezioni europee nelle liste del PD, Marco Tarquinio, di sciogliere la Nato ha fatto sorridere tutti i caporioni filo atlantici senza maschera di casa nostra, preposti nella direzione dei mass media legati alle multinazionali (come Repubblica, Corriere della Sera, Reti della Rai e di Mediaset) o nelle leve di governo oppure tra i leader della falsa opposizione, come il PD, la cui segretaria demagogicamente fa la voce grossa sul salario minimo, sulla scuola e sulla sanità (argomenti in cui il suo Partito in passato si è speso tanto per assoggettarli alla corrente delle privatizzazioni, corrente ovviamente che non si può invertire rimanendo subordinati alle scelte dell’Unione Europea!) mentre sull’Ucraina è d’accordo con la politica di guerra della Nato.

Ritornando all’attuale crisi economica di sistema, essa ancora si manifesta in forma eclatante non trovando soluzione, perché tutte le cause antagonistiche scoperte da Marx non l’hanno risolta. L’ultima causa che Marx a suo tempo, cioè nel regime di libera concorrenza, chiamò allargamento del commercio estero, e che invece con la formazione dei monopoli alla fine dell’Ottocento e nel primo decennio del Novecento (anche in seguito alla concentrazione tra il capitale industriale, commerciale, bancario e assicurativo che diede vita al capitale finanziario diventato dominante e perno fondamentale della formazione degli Stati imperialisti) Lenin chiamò correttamente concorrenza per l’appropriazione dei mercati delle materie prime e di sbocco dei prodotti finiti (ossia guerra economica che sfociò in guerra vera e propria nel primo e nel secondo conflitto mondiale), è rimasta l’unica arma nelle mani dell’imperialismo americano in declino e di quello europeo che, con la guida lungimirante di Macron e Scholz, sta per implodere. Il primo ritenendosi un grande leader ha compiuto fino in fondo il capolavoro strategico di abbandonare del tutto il solco della politica estera tracciata dal generale De Gaulle a partire dal 1964 con il riconoscimento della Cina, la realpolitik verso l’Unione Sovietica e un diverso approccio verso i Paesi del Terzo Mondo, seppur mascherando una politica neocolonialistica ma disimpegnandosi dalla Nato e assumendo una linea non asservita agli USA (linea di politica estera per certi aspetti mantenuta da Pompidou, Gisgard d’Estaing, Mitterand e Chirac). Cosa ha realizzato Macron con il suo voltafaccia? L’annullamento del ruolo strategico autonomo della Francia facendole perdere influenza in Africa e in altri scacchieri internazionali e subordinandola alla strategia americana. Il capolavoro di Scholz, abbandonando la ostpolitik iniziata da Willy Brandt alla fine degli anni Sessanta, per certi aspetti mantenuta da Schmdt, Kohl, Schroeder e Merkel è consistito, invece, nel non batter ciglio quando CIA e servizi segreti ucraini e forse polacchi hanno sabotato sul territorio tedesco, violando la sua sovranità, i metanodotti Stream 1 e 2 e nel far perdere competitività alle aziende tedesche ripudiando i vantaggiosi accordi energetici con la Russia e comprando dagli USA gas e petrolio a prezzi più alti, col risultato finale di mandare il Paese in recessione.

L’escalation della Nato in Ucraina nella prima fase ha utilizzato i golpisti ucraini e il loro successore attualmente decaduto nel mandato presidenziale responsabile della morte in una guerra fratricida centinaia di migliaia di giovani ucraini e di rimando russi; quindi, è importante dirlo, ha strumentalizzato ai suoi fini espansivi per conto degli USA le velleità di grande potenza della Polonia che assieme agli Stati baltici ha assunto una posizione di punta nella linea guerrafondaia, sognando di ricostituire la grande Confederazione che si estendeva dal Baltico fino alla regione occidentale della attuale Ucraina, la quale Ucraina come Stato autonomo, come è sin troppo noto ma è giusto sottolinearlo perché la maggior parte dei giovani europei non conosce la storia, non è mai esistito nella storia (è nata come repubblica con la costituzione dell’URSS), essendo stata la regione di Kiev e quella ad est del Dniepr parte fondante e fondamentale della Russia zarista e quella ad ovest a volte occupata dall’espansione zarista e a volte assoggettata dalla Confederazione baltica o dalla Prussia nel corso delle loro espansioni. 

Ora la Nato sta oltrepassando ogni linea rossa, rischiando di provocare una guerra nucleare, perché l’imperialismo come sistema mondiale è in crisi irreversibile e l’egemonismo americano a livello mondiale, affermato dopo il dissolvimento dell’Unione Sovietica, si sta pure dissolvendo con il rafforzamento dei BRICS, con il multipolarismo e con la perdita della supremazia del dollaro come perno del sistema monetario internazionale. L’imperialismo, pertanto, utilizza la guerra come ultimo antidoto alla sua crisi economica irreversibile per conquistare militarmente nuove fonti energetiche e mercati di sbocco dei suoi capitali e delle sue merci. Certo i tempi del dissolvimento non saranno brevi e saranno cruenti, in quanto l’imperialismo americano ha una grande forza militare con armi d’avanguardia nello sterminio di massa e basi terrestri e marittime dislocate in tutto il mondo che non utilizzerà solo come deterrenza, bensì praticamente nei teatri delle operazioni militari, come ha dimostrato in tutte le guerre scatenate negli ultimi settanta anni, guerre che ha regolarmente perso sul piano militare ma che gli hanno permesso di mantenere il dominio economico rafforzando continuamente il suo apparato militare industriale e soprattutto il potere finanziario del dollaro e l’egemonia verso molti Paesi e verso gli altri Stati capitalistici. Quindi le guerre, come la storia insegna, non si svolgono mai come le vogliono impostare i leader guerrafondai. Le guerre hanno le loro leggi oggettive, in quanto sono coinvolti oltre ai capitali (secondo il detto “est l’argent que fait la guerre”) milioni di soldati e centinaia di milioni di popolazioni e non saranno né il denaro né le armi ad essere gli elementi che decidono le sorti della guerra, per quanto sia il denaro che le armi hanno una grande importanza. Il fattore decisivo, come diceva Mao, è sempre l’uomo con la sua volontà di fare o di non fare, di vincere o di morire.

Giuseppe Amata

2/6/2024 https://www.marx21.it/

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