ESSERE ED ESSERCI “GIOVANI OGGI”
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Depressione, solitudine, suicidi, disoccupazione, futuro negato, repressione del dissenso, esclusione dallo studio, fragilità mentale.
di Emanuela Bavazzano
Psicologa. Psicoterapeuta- Vice Presidente di Medicina Democratica
Cosa significa (e cosa implica) essere giovani oggi, senza attraversare la retorica di vuoti contenitori di idee iper-semplificanti, che appiattiscono la multi-dimensionalità del reale, rischiando di non rendere “giustizia” ai valori che abitano questo tempo – generazione? Cosa implica esserci con i giovani, costruendo una politica democratica di cambiamento, che coinvolga la prospettiva trans-generazionale dentro traiettorie comuni e convergenti?
Si propongono due sguardi, attraverso i quali leggere il mondo contemporaneo, vissuto oggi dalle persone “giovani” (dentro uno spettro che si sposta dall’essere 15-20 enni – “adolescenti” – al divenire 25-30 enni – “giovani adulti e adulte”): a) lo sguardo della scienza (sovente medica – psichiatrica, talora psicologica), che mira a definire – normare – etichettare i segnali del disagio dentro norme che codificano, e quindi si suppone possano facilitare la scelta del percorso di aiuto, nell’invio delle persone dentro traiettorie di “cura”, cura che, dopo aver associato segni a sintomi, a livello individuale, in modo quasi-chirurgico mira semplicemente a ridurre la sofferenza, isolando questa stessa dal contesto di relazioni; b) lo sguardo della politica, che denuncia il riduttivismo di una cura (spesso chimica), che, sia pure garantendo di alleviare i dolori (personali), promuove quell’agire che contiene in sé il grande rischio (effetto collaterale) di disaggregare gli elementi individuali dalle variabili collettive – ambientali, non leggendo la multi-dimensionalità di fenomeni da insistono dentro un mondo complesso e composito.
Scienza e politica sono qui utilizzate come chiavi di lettura, necessarie entrambe a dare sostanza alle idee ed alle prassi: la prima nell’analisi dei fattori che costituiscono la realtà (perché non si ritiene corretto negare l’importanza dello studio, attento a comprendere quello che significhi oggi soffrire e convivere con i “dolori dell’anima” – (anche) di natura psicogena) e la seconda nella ricerca delle variabili in gioco nel co-determinare l’impegno che porta tutti gli esseri umani ad esserci, nel condividere le scelte di avviare processi che sappiano trasformare – collettivamente – il mal-essere in ben-essere.
Oggi la scienza e gli scienziati offrono sguardi sul contemporaneo interessanti, eppure contraddittori, nell’applicazione che rischia, dimenticando la teoria del caos (e gli sviluppi post-basagliani), di condurre verso un riduttivismo organicista (come se la storia sia stata dimenticata, come se le lotte condotte, in ambito psicologico, per riportare gli esseri umani a sentirsi parte della società, quale processo di cura a responsabilità collettive, siano state il sogno di un tempo ormai passato); la matrice organicista è infatti quella che, derivando dalla lettura a-settica dei sintomi, fornisce risposte che a livello bio-chimico si ritiene essere di dimostrata efficacia, senza contemplare un ragionamento sulle motivazioni e sulle finalità, mentre le diagnosi compiute attraverso una lettura psicodinamica e socialmente collocata porterebbero all’apertura di sguardi sul mondo intra-psichico ed insieme inter-personale.
Ci troviamo spesso a leggere articoli che parlano di “depressione” come “male del secolo” (un secolo che peraltro sembra durare – questo sì tramandato dal Novecento ad oggi, quasi come se il nemico del benessere psicologico sia sempre e solo questo – il soffrire di depressione, in una diagnosi “ombrello” che spesso nasconde altri fenomeni emotivo-affettivi-relazionali), oppure di solitudine come “feticcio” da fare morire per poter divenire persone adulte, capaci di resilienza (termine oggi molto utilizzato, quasi a negare i bisogni di stare – sostare – ovvero vivere una realtà composita, in cui le determinanti il soffrire potrebbero non essere a responsabilità personale o invero trasformabile per azioni dirette, anche in considerazione del fatto che talvolta essere “resilienti” potrebbe andare insieme all’essere complici di meccanismi di sfruttamento e repressione nel “resistere” che potrebbe somigliare al non insistere – desistere – nel portare pensieri divergenti e sentimenti autentici, fuori rispetto al range normato a-priori).
Oggi le persone giovani sono depresse o forse sono più a contatto con la solitudine? Proviamo ad entrare in una chiave di lettura che innanzitutto sposti l’analisi
dei fenomeni: depressione spesso, oltre ad essere una diagnosi “ombrello”, è un modo di intendere “deflessione del tono dell’umore”; solitudine (quasi) sempre è un costrutto che tiene insieme isolamento volontario (ripiegamento in sé) ed isolamento subìto e non voluto (causato da variabili esterne – persone e situazioni che determinano allontanamenti). Infatti si ritiene che il tono dell’umore, per sua stessa natura, possa in realtà tendere all’oscillazione, in relazione a fenomeni interni ed esterni, quando il reale presenti componenti che, nel “mi importa” che caratterizza le vite umane aperte alla contaminazione, possono creare naturali “interferenze” ad uno stato che, in una logica psicopatologica, resterebbe altrimenti scisso; basti in effetti pensare che è la follia che conduce alla perdita di contatto con le variabili (soprattutto) esterne: ad esempio, nella dispercezione possono essere inclusi elementi cognitivi di difficoltà a stare nel mondo reale (non solo per cause organiche ma anche – talora – per meccanismi di difesa dati dal bisogno di protezione) e componenti emotive (trattenute – negate).
E così come il tono dell’umore può deflettere, coerentemente la scelta, anche temporanea, può andare nella direzione dell’isolarsi, per cui, a seguito di traumi, si entra come dentro uno stato di “bozzolo”, solo gradualmente schiudendosi ai contatti – prima quelli desiderati – poi (eventualmente anche) quelli suggeriti dall’esterno; viene da chiedersi quindi se tutto il prescrivere strategie di restituzione al sociale oggi in derive quasi – normative, invitando a stare insieme agli altri, sia sempre una “cura” rispettosa del momento e del carattere. Timing e analisi delle variabili personologiche spesso mancano dentro la stessa scienza, che non sempre suggerisce il prendersi tempo per capire – conoscere e riconoscere quali siano le variabili di quel preciso istante di vita che (co)determinano la sofferenza,, e forse anche il ripiegamento a “bozzolo”, e non personalizza gli interventi a partire da “chi sei tu?” (che implicherebbe anche sapere “chi sono io” nel contaminarsi dentro relazioni di co-terapia che siano empatiche, spogliandosi dai ruoli di “curanti” almeno dentro i passaggi necessari al com-prendere).
Ed allora come aiutare gli esseri umani che soffrono ad uscire dai rifugi, per divenire farfalle che spiccano il volo, volo che non sia troppo doloroso e acuto e nemmeno troppo rimandato (rischiando di cronicizzarlo – trasformandolo in segni – sintomi di cluster psicopatologici)?
La politica entra in scena qui, in questo preciso tempo, nella lettura che suggerisce traiettorie in cui l’essere cittadine e cittadini del mondo, consapevoli di quello che ci riguarda, ovvero riguarda tutte e tutti, a partire dal timing proprio della fase adolescenziale e dell’essere giovani adulte e adulti, è al contempo bisogno e desiderio: bisogno che nasce da un cercare risposta alla propria sofferenza attraverso la condivisione insieme e desiderio che muove verso il farsi promotrici e promotori di prassi che forniscano risposte alle persone sofferenti, nel riconoscere la propria finitezza ed invero relativizzare il proprio piccolo mondo di origine davanti al Mondo in cui le variabili sono complesse e composite.
Oggi i giovani e le giovani manifestano, “scendono” in piazza, ma prima ancora studiano, perché il pensiero, che portano fuori, prima lo hanno prima coltivato dentro, leggendo i testi (attraverso il digitale o sulla carta stampata), credo anche ascoltando le proprie risposte emotivo-affettive (quelli che vengono gridati attraverso i megafoni non sono slogan pronunciati in modo freddo e razionale, paiono aver attraversato menti e cuori appassionati). Oggi i giovani e le giovani tendono a portare il dissenso, quando realizzano le scissioni dentro cui altrimenti sarebbero costretti a stare (distinguendo l’apprendimento di discipline dalla contestualizzazione di queste stesse), portano il dissenso nella sua matrice sana, che richiede una rottura dagli schemi pre-costituiti, forse dentro una raccolta di eredità storico – politiche, da un Sessantotto che ha fatto scuola, ma che poi ha portato verso una ritirata (soprattutto da parte di tante persone che hanno scelto la resa nel non ritrovare il senso dell’impegno che, se ancora è basato su motivazioni forti, non vede raggiunti obiettivi coerenti eppure ritenuti sempre attuali).
Non si vuole negare la sofferenza di una generazione, che si trova schiacciata tra due mondi: a) il mondo del cinismo nell’invito a fuggire dall’impegno, quasi in un indottrinamento a pensare per sé ed al contempo usare il sociale come dimensione solo ludico – ricreativa; b) il mondo delle lotte dentro le quali si chiede presenza e partecipazione, forse anche proiettando sogni e speranze di un tempo passato in una riproposizione attuale, senza necessariamente chiedere a questa generazione: chi sei e come scegli di vivere l’impegno sociale e collettivo? (senza dimenticarci di chiedersi chi eravamo e come abbiamo vissuto).
La sofferenza infatti insiste in un tempo ed in uno spazio, e dentro queste due dimensioni siamo tutte e tutti coinvolti, “non assolti”, soprattutto se non ci interroghiamo su quanto siamo capaci di so-stare dentro le contraddizioni, uscendo dalla dimensione auto-rassicurante ed auto-assolvente del “tutto bene”, superando la retorica che essere giovani significhi essere nella spensieratezza – senza pensieri (che forse solo nel “me ne frego” ovvero nell’ “impara a pensare a te stessa/o” può essere vissuta) ed accogliendo la sfida nell’impegno a costruire insieme le traiettorie delle comuni lotte, trasformando insieme il dissenso (collettivo) in azioni che politicamente incidano nella società che co-abitiamo.
Una delle dicotomie in cui sentirsi attraverso (anche in termini trans-generazionali) consiste proprio nell’essere al contempo nelle solitudini e nell’impegno all’agire: è importante riconoscersi e riconoscere alle persone giovani oggi, che chiedono momenti in cui hanno bisogno di stare “per conto proprio”, hanno bisogno di chiudersi nelle stanze (anche virtuali), che tutte e tutti noi abbiamo (avuto) bisogno di stare nel bozzolo scrivendo su diari o dialogando con amici immaginari; eppure è fondamentale ascoltarsi ed ascoltare le voci delle piazze, in cui si offrono narrazioni che derivano da approfondimenti e confronti continui, nello studio, accelerato, in rincorsa rispetto alle notizie cui è difficile stare dietro, forse anche perché sarebbe importante “starci dentro” ed esserci con.
Le sensazioni che oggi condividiamo sono quelle che ci portano a stare insieme nelle piazze (reali e virtuali) eppure le prassi che vengono spesso suggerite sembrano andare verso direzioni opposte: le prassi della scienza e della tecnica (medica e forse anche sociale) hanno recuperato infatti dal passato le tecniche custodialistiche – securitarie, dalla rapida sedazione chimica (che insegna la dipendenza da sostanze senza sostenere lo stare dentro l’ampio estendersi della gamma delle emozioni “normali” in traiettorie trasformative) alla cura della sofferenza chiudendo l’adolescenza dentro luoghi sicuri, abitando case denominate tali (case-famiglie, ad esempio), in realtà luoghi di reclusione dove tenere (con-tenere) giovani vite che già hanno incontrato esperienze potenzialmente di rischio; ma quale rischio può condurre alla punizione – deriva della reclusione?
E, così come nelle risposte di sedazione chimica e di reclusione si leggono le istanze normative di definizione a-prioristica di quel che sia benessere contrapposto a malessere (riferendosi a punteggi cut-off che de-limitano la normalità e mirano a riportare i parametri “dentro” i range), forse anche nelle risposte repressive delle piazze che portano le istanze di lotte giuste possiamo leggere il grande rischio sociale di (potenzialmente) soffocamento della partecipazione alla “cosa pubblica” ed insieme anche il grave rischio che le soggettività presenti di giovani in cammino e ricerca collettiva vedano spente e soffocate le domande individuali dentro cui tutte e tutti noi siamo cresciute/
I processi di crescita passano sempre attraverso l’apertura delle porte delle case sicure, avvengono nei confronti (e nell’imparare a gestire i conflitti) e spesso rischiano di subire pericolose battute di arresto in scontri precoci (precoci per la mente che deve ricollocarli significandoli e precoci per il corpo che viene segnato); quali i significati della repressione, che riteniamo non legittima noi stesse persone adulte, nei confronti di giovani persone che difficilmente potremmo sostenere se non riconosciamo loro che gli errori sono stati compiuti, che le sedazioni non sono la risposta (sicuramente non prima di aver capito quale sia l’istanza sottesa) e le riduzioni del disagio personale e collettivo non possono essere orientate verso il riduttivismo (che non spiega la complessità). Siamo tutte e tutti coinvolti, anche quando realizziamo che la storia ci sta portando indietro, eppure la storia la creiamo sempre e comunque noi (non potremo dire che non ci stavamo accorgendo di quanto accadeva dentro le nostre case e le – altrettanto nostre – piazze).
Possiamo riconoscere che la scienza ha fornito strumenti per leggere i disagi e le malattie, le traiettorie di normalità e quelle di deviazione dalla stessa, ma ha fornito anche “armi” che hanno dato più potere alle persone denominate “esperte”, mentre dovremmo (forse) disapprendere le prassi che dividono, perché se esiste un consenso informato alla cura questo innanzitutto comporta rendere le persone “curate” capaci di chiedere perché, avere la possibilità di conoscere e conoscersi, acquisendo strumenti di (auto)consapevolezza, nella scelta dei percorsi (personalizzati) che rispondano efficacemente alle domande di cura nel sollievo della sofferenza individuale eppure anche nella restituzione di partecipazione (collettiva) in cui il costrutto “normalità” viene de-costruito e ri-costruito insieme.
La politica democratica di cambiamento in prospettiva trans-generazionale può essere letta quale processo di Cura partecipativa, processo complesso multi-componenziale, che implica l’attraversamento di zone di caos; è un processo individuale e collettivo, che può favorire il ritorno dentro le dimensioni relazionali che abitano i tempi e gli spazi delle persone ed al contempo rispetta i bisogni di protezione e graduale aprirsi al mondo; è un processo trans-generazionale, che mette realmente in dialogo le storie diverse, che permette altresì il recupero dei propri tempi (passati – presenti) e orienta verso il futuro; oggi l’agire politico è risposta anche alla Crisi, è cura intesa come capacità di prendersi cura della collettività – forse anche della comunità.
Per “esserci con” dobbiamo percorrere concretamente insieme questo cammino – attraversamento di domande cui non affrettare le risposte, approfondimento di idee che possano contaminarsi e contaminare; sarebbe importante poter dare anche in questo spazio voce alla presenza di domande e idee che derivano da quella generazione di cui qui si è provato a parlare, perché non sia dialogo su e nemmeno per, invece sia “dialogare con” che coinvolga le persone partecipanti attive a questo spazio e questo tempo.
Emanuela Bavazzano
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