Eurialo e Niso

‹‹..E già morendo Eurialo cadea, di sangue asperso nelle belle membra, e rovesciato il collo, qual reciso dal vomero languisce purpureo fiore, o di rugiada pregno papavero ch’a a terra il capo inchina.»
(Eneide Libro IX – Virgilio)

Paolo lavora con Stefano da qualche anno sulle impalcature, a quote vertiginose, tra cordini, imbracature e parapetti precari, tirano su e ricostruiscono edifici. Entrambi sanno che in edilizia la sicurezza sottrae tempo alla scadenza della consegna dei lavori, è un impiccio e quando manifesti qualche problema o sollevi qualche dubbio passi per “rompipalle lavativo”.

Hanno età diverse, due generazioni diverse accomunate dalle ore sotto al sole, dall’odore di ferro e silice. Mentre
lavorano si raccontano: i problemi personali e familiari, i progetti, i desideri, i sogni infranti, il proprio passato e il proprio presente, il carico di errori. Tutto quello che c’è di contradditorio, come l’essere umano sa essere. Scherzano, le loro risate si alternano ai silenzi sopra i rumori della
città. Un nodo di flussi: traffico, persone, lavoro, ferie, pause, sangue. Chissà, se nelle innumerevoli giornate di caldo e di freddo, hanno mai pensato di lasciare tutto oppure si sono detti di continuare questa vita, immaginandola tutta diversa.

Come quel giorno quando seduti sul tetto, a fine lavori, si sono goduti la vista sulla città, parlando di progetti fantasiosi, quei progetti alimentati dalla voglia di uscire, spesso provando a farlo da soli, ‹‹ Stè, ma ci pensi che noi famo i palazzi e poi i signori se li godono? E noi stiamo uno in affitto e l’altro col mutuo de trent’anni per tre stanze in un quartiere dove manco se conoscemo più? ››.

Spesso i lavori usuranti e le condizioni dure rendono le persone altrettanto dure, ma a volte sotto questa polvere stratificata riposa un’essenza che aspetta di essere liberata. La strada a volte è lunga e difficile da trovare, come un sentiero nascosto dalla vegetazione che spunta su una meravigliosa cascata.

A volte in cantiere veniva la Asl, ma era difficile fidarsi di loro, troppo lontane le loro vite da quelle di chi si presenta in maniche di camicia arrotolata con la paura di sporcarsi di polvere, che parla un linguaggio formale, che dice come dovrebbe essere il cantiere, come comportarsi, come vestirsi, senza entrare nelle strutture del rapporto di lavoro, senza mai guardarti negli occhi e chiedendo a te che lavori ogni giorno sospeso da terra “Come va? Ci sono problemi? Cosa vorreste cambiare?”.

Si, facevano il loro, ma dopo qualche annotazione e due parole con il capo, qualche modifica, andati via per tornare chissà quando, la realtà quotidiana tornava la stessa. E nel silenzio regnava
la sfiducia, unica compagna di questi tempi distratti.
Non sappiamo, se quel giorno di luglio, è mancato un aggancio, un cordino o un’imbracatura adeguata, se ci fosse la possibilità oggettiva per assicurarsi a un punto di presa, se ci fossero delle tecniche alternative a quelle utilizzate, siamo lontani, siamo da un’ altra parte e leggiamo parole filtrate, pur conoscendo come vanno quasi sempre le cose per quelli come Paolo e Stefano.

Quando è mancata la presa, insieme, hanno teso le braccia, l’uno ha cercato l’altro allungando le braccia, stringendo nelle mani soltanto la velocità dell’aria. Come per tirarsi indietro insieme da quel salto sordo. Come due Icaro troppo vicini al sole, le loro ali si sono sciolte nel caldo estivo e la cera è gocciolata a terra, lasciando delle impronte. Segni.

Paolo e Stefano o Harminder e Manjinder morti dentro un vasca di liquami, un elenco senza fine che potrebbe continuare, ricco di nomi e storie personali che si incrociano tra tubi, rumore, polvere, sole e pioggia, in uno scenario che sembra per molti non esistere più, in cui nella tragicità accettata scientificamente risplende, tra i buchi del sipario, l’amicizia della socializzazione nata dalla condizione comune.

Sono creature invisibili, anonime, che si svegliano presto e la sera muoiono a casa, nella spesa con la famiglia, nel provare a portare i bambini al mare o in una stanza in affitto e una birra sul balcone prima di cena. Nei racconti epici esistevano gli eroi, nelle società industriale queste creature sono dipinte come “eroi” ogni volta che l’ingiustizia ha bisogno di essere coperta con il pennello della retorica.

L’estate avanza e tra contagi, morti dimenticati a colpi di selfie, si cerca la festa a tutti i costi, senza aver metabolizzato e riflettuto sulla scia di morti negli ospedali, nelle case, nella violenza delle relazioni, sull’indifferenza e sul perché nel lavoro si accetti il rischio di morte. Ma è troppo pesante tutto questo.

Questa storia potrebbe essere successa ovunque, è successa ovunque, è fatta di tanti frammenti cuciti e raccontati da un mendicante all’uscita della metropolitana, mentre un foglio di giornale inizia a bagnarsi di pioggia sull’asfalto rovente, proprio sopra il titolo “Supermanovra, 26 miliardi per i lavoratori”.

Renato Turturro
Tecnico della prevenzione

Collaboratore redazionale di Lavoro e Salute

Articolo pubblicato sul numero di settembre del mensile www.lavoroesalute.org

Puoi leggerlo anche in versione interattiva http://www.blog-lavoroesalute.org/lavoro-e-salute-settembre-2020/

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