Europa, agricoltura e immigrazione
L’Italia che uscì dalla Seconda Guerra Mondiale assomigliava, sotto il profilo del lavoro, più all’Italia del tempo dell’Unità che a quella dei nostri giorni. Si consideri un indicatore assai significativo; nel 1861, sei attivi su dieci erano impiegati nell’agricoltura che assorbiva, ancora nel 1951, quattro attivi su dieci; ma oggi la loro quota è meno di un ventesimo dell’intera forza lavoro. Una trasformazione profonda, economica, sociale e culturale, che è avvenuta con modalità simili anche se con tempi e cadenze diverse, in tutti i paesi con economie avanzate. Se si considerano i 28 paesi della UE, l’agricoltura, che nei primi anni ’90 assorbiva il 9% del totale degli occupati, è scesa al 4% nel 2018. Persiste – come per tanti altri fenomeni – l’usuale gradiente ovest-est e nord-sud, poiché tale quota (2019, stime ILO-World Bank) varia dal minimo dell’1% nel Regno Unito al massimo del 22% della Romania, e dal 2% della Svezia all’11% della Grecia. Le ragioni sono ben note: nelle campagne le condizioni di vita sono mediamente peggiori che nelle aree urbane, i salari più bassi, i lavori più faticosi, la considerazione sociale inferiore. La domanda crescente di lavoro salariato è stata sempre più soddisfatta dal lavoro degli immigrati, che stanno sostituendo i nativi. Una tendenza iniziata negli anni ’90, “particolarmente evidente nei settori vivaistico e zootoecnico, della coltivazione della frutta e delle verdure, che sono labor intensive e richiedono molto lavoro, soprattutto nei periodi delle semine e dei raccolti¹”.
L’immigrazione nelle campagne d’Europa
C’è, duque, in Europa spazio per un’immigrazione nelle aree rurali e lavoro per gli immigrati nel settore agricolo. Le popolazioni europee sono altamente urbanizzate, e aumenta l’estensione delle aree rurali che si spopolano e – come è stato detto per il nostro Mezzogiorno – si “desertificano” sotto il profilo umano e demografico. Tuttavia, sotto il profilo numerico, i flussi migratori verso le campagne sono relativamente modesti, spesso motivati dal basso costo delle abitazioni nelle zone meno distanti dai plessi urbani, industriali e commerciali. Inoltre, le opportunità di lavoro nel settore agricolo, che pure esistono, sono quantitativamente limitate, e in buona parte di natura stagionale. Ciò non sorprende: prendendo ad esempio l’Italia, dove l’occupazione totale in agricoltura è di circa un milione di unità, si comprende bene come lo spazio per gli immigrati, sia numericamente relativamente modesto.
Un indicatore sommario di contesto è dato dall’incidenza degli immigrati sull’intera popolazione nelle zone definite “rurali” (secondo acuni criteri, tra i quali la densità di popolamento²). Ebbene, nei paesi più grandi – Germania, Regno Unito, Francia, Italia e Spagna – la preferenza degli immigrati per le aree rurali è relativamente modesta, dal momento che vi risiede una quota compresa tra il 5 e il 10%. La parte preponderante degli immigrati si dirige verso le aree urbane, soprattutto quelle metropolitane, dove sono maggiori le opportunità di lavoro. Questo non stupisce, anche perché una buona proporzione degli immigrati proviene da aree urbanizzate, e nonostante le condizioni di povertà nei paesi di origine, sono abituati a stili di vita lontani da quelli che ancor oggi prevalgono nelle aree rurali, anche in Europa. (Figura 1)
Pochi immigrati lavorano in agricoltura… ma non ovunque
Se si considera adesso anziché la residenza, il lavoro, il quadro si precisa. Va ricordato che l’occupazione in agricoltura è scesa nell’intera EU28 da 10,1 a 8,9 milioni, tra il 2011 e il 2017; la diminuzione è dovuta ai nativi, contro un lieve aumento (da 430mila a 580mila) per gli immigrati, due terzi dei quali provengono da un paese extra-UE. Se si calcola la proporzione degli occupati immigrati sul totale degli occupati, in ciascun settore economico, si trova che questa proporzione, in agricoltura, è assai minore che non nell’industria, nel commercio, nei servizi o nelle costruzioni. Questo avviene in quasi tutti gli stati della UE, con tre eccezioni interessanti: l’Italia, la Spagna e la Danimarca, nei quali l’attrattività dell’agricoltura è superiore a quella degli altri settori produttivi, e è cresciuta tra il 2011 e il 2017. La quota degli stranieri occupati in agricoltura è aumentata dall’11 al 17% in Italia, dal 20 al 25% in Spagna, dal 10 al 20% in Danimarca). In Italia, oltre ai lavoratori in agricoltura, anche quelli addetti ai servizi personali, alberghi e ristoranti e al comparto delle costruzioni, hanno una presenza di immigrati superiore alla media. Infine, in Italia, la crescita degli immigrati stranieri in agricoltura, pur partendo da livelli molto modesti, è stata assai sostenuta e si è più che triplicata tra il 2008 (51mila) e il 2019 (166mila)
Sotto il profilo quantitativo, perciò, l’attrattività dell’agricoltura è relativamente modesta. Tuttavia le statistiche da cui sono tratte queste considerazioni (l’indagine campionaria sulle forze di lavoro), sottostimano il fenomeno, poiché non colgono gli stagionali, coloro che non hanno una residenza (anche se regolarmente presenti), e gli irregolari. Per esempio, il maggiore corridoio migratorio nella UE è tra Polonia e Ucraina, con quasi 600.000 ucraini che risiedono temporaneamente in Polonia per ragioni di lavoro, prevalentemente in agricoltura. Per gli irregolari, si tratta di alcune centinaia di migliaia di lavoratori, per lo più stagionali, soprattutto in Spagna e in Italia.
Il caso italiano
Per l’Italia, un quadro più completo si ottiene da un’altra fonte, quella dell’Inps, che rileva trimestralmente le dichiarazioni dei datori di lavoro sui dipendenti in forza, sia a tempo determinato che a tempo indeterminato. Da questi dati emerge una presenza del lavoro immigrato assai più robusta di quella rilevata dall’indagine sulle forze di lavoro dell’Istat: nel 2017 i lavoratori stranieri sono stati 346.000, un terzo dei quali provenienti dalla Romania, e un altro terzo da India, Albania, e Polonia. Le province con maggiore presenza degli immigrati sono sparse nella penisola: nell’ordine Foggia, Bolzano, Verona, Latina, Cuneo, Ragusa e Salerno (nell’insieme, il 30% del totale). Secondo la Coldiretti , “Sono molti i “distretti agricoli” dove i lavoratori immigrati sono una componente bene integrata nel tessuto economico e sociale, come nel caso della raccolta delle fragole nel Veronese, della preparazione delle barbatelle in Friuli, delle mele in Trentino, della frutta in Emilia Romagna, dell’uva in Piemonte fino agli allevamenti da latte in Lombardia dove a svolgere l’attività di bergamini sono soprattutto gli indiani mentre i macedoni sono coinvolti principalmente nella pastorizia³”. L’ampio ventaglio delle provenienze, la varietà delle destinazioni in tutta la penisola, l’inserimento in una pluralità di contesti produttivi e, infine, l’aumento numerico, fanno presumere che la presenza straniera in agricoltura continuerà ad accrescersi, in aggiunta, e in sostituzione dei lavoratori autoctoni. (Figura 2)
In una prospettiva di lungo termine, è utile riflettere su fenomeno dello spopolamento delle aree collinari e montane, avvenuto con grande intensità nei due o tre decenni del secondo dopoguerra, che ha mutato la geografia insediativa sia nel nostro che in altri paesi del continente. In molte zone, né il mantenimento di seconde residenze da parte degli emigrati, né la riconversione ad attività turistiche, hanno frenato l’abbandono del territorio, che è uno dei fattori del dissesto idro-geologico.
C’è dunque un problema di deterioramento del patrimonio ambientale, paesistico, e anche culturale. Perdute professionalità e abilità nella cura dell’ambiente. Borghi, casali e case abbandonati, degradati, diroccati. Stessa sorte per le piccole infrastrutture, le strade vicinali, gli edifici di culto o quelli pubblici od agricoli. In che misura questo deterioramento possa essere frenato, arrestato o addirittura invertito, è una questione complessa, che implica aspetti finanziari e amministrativi, e, soprattutto, la disponibilità delle persone a insediarsi in zone abbandonate e l’apporto di determinate professionalità.
L’universo degli immigrati può forse dare risposte, sia pur parziali, a questi problemi. Si potrebbe pensare a programmi d’insediamento di immigrati – con finanziamenti pubblico-privati – in aree in spopolamento, volti al riscatto di immobili, allo sviluppo di nuovi coltivi o al recupero di quelli abbandonati, alla manutenzione ambientale. Questi programmi dovrebbero attivamente organizzare l’insediamento, formare le professionalità necessarie, assisterle tecnicamente nel restauro e nel recupero edilizio, nello sviluppo delle coltivazioni, nella manutenzione ambientale, assisterle finanziariamente. Non è irrealistico pensare che programmi ben disegnati e condotti possano avere successo; sono molti gli immigrati attratti dal settore primario, come dimostra l’aumento della quota “straniera” tra gli attivi in agricoltura, in Italia, come in altre regioni dell’Europa mediterranea.
Articolo pubblicato anche su limesonline.com
Note
¹ JRC (Joint Research Center), Migration in EU Rural Areas, 2019
²Per la definizione di aree rurali, JRC, cit. p 12.
Massimo Livi Bacci
26/6/2020 https://www.neodemos.info
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