“Europa, quanti ancora?”. Dieci anni dopo “Mare nostrum” il Mediterraneo è un cimitero
Immagine: Uno dei 17 corpi avvistati dalla Ong Sea-Watch nel Mediterraneo centrale a inizio giugno 2024 © Sea Watch
Dall’interruzione nel 2014 dell’ultima “vera” operazione di ricerca e soccorso in mare, il bilancio è di 30mila morti e dispersi accertati. Una strage prevedibile che mostra il volto disumano e gli obiettivi delle politiche dell’Unione europea e dell’Italia. Dove chi documenta le violazioni, al di là del numero esiguo di persone che riesce faticosamente a salvare, è fatto fuori. L’editoriale del direttore, Duccio Facchini
Un neonato in un fagotto giallo, l’altro in uno blu. Chissà dove saranno oggi, dieci anni dopo lo sbarco avvenuto il 30 giugno 2014 a Pozzallo, in provincia di Ragusa, i due più piccoli naufraghi di quell’imbarcazione soccorsa nel Mediterraneo dalla nave Grecale della Marina militare italiana, nell’ambito dell’operazione “Mare nostrum”. Un “barcone” di trenta metri con dentro 590 vivi e 30 morti, per asfissia da calpestamento o per intossicazione da gas di scarico. “Mai vista tanta gente in così poco spazio”, riferì ai giornalisti il comandante della fregata.
Pochi mesi dopo, al grido di “costa troppo”, quella missione verrà fermata, sostituita da altre di diversa natura e con tutt’altri obiettivi: non più salvare le persone ma bloccare i “traffici”, cioè impedirne l’arrivo, a qualsiasi costo. Dieci anni dopo eccoci qui, con il “risultato” di 30mila morti e dispersi nel Mediterraneo ufficialmente registrati tra 2014 e metà 2024 dall’Organizzazione internazionale per le migrazioni. Una strage avvenuta sotto i nostri occhi. Quanti uomini, donne e bambini, ancora, dovranno affogare in acqua o morire di stenti a bordo delle navi sotto gli occhi dell’Europa?
Se lo è chiesto l’11 giugno di quest’anno Medici senza frontiere a seguito dell’ennesimo e drammatico soccorso, tessendo la scritta “Europe, how many more?” su alcune lenzuola stese poi sul fianco della nave Geo Barents con undici giubbotti appesi a ciondolare. Il fine settimana precedente, infatti, 17 corpi erano stati avvistati galleggiare in mare dall’alto dal velivolo della Ong Sea-Watch. Corpi in avanzato stato di decomposizione, anche di donne, abbandonati da almeno una settimana. Undici sono stati recuperati da Msf. “Ne abbiamo individuati altri che sono ancora in mare”, ha detto Tamino Böhm, membro del team di monitoraggio che ha fatto la terribile scoperta. “Non si è trattato di un incidente imprevedibile ma del risultato di decisioni calcolate da parte dell’Unione europea: ecco come si presenta la politica europea dei confini”.
Invece di salvare le persone e rimettere in piedi un meccanismo di ricerca e soccorso smantellato da dieci anni, il nostro Paese, per mezzo dell’Ente nazionale per l’aviazione civile, quei voli di monitoraggio di Sea-Watch sta tentando invece di proibirli, contrastarli, sanzionarli. “Se questo tentativo avrà successo non ci saranno più testimoni di queste morti”, ha continuato Böhm. Perché questo era ed è il punto fondamentale: far fuori chi vede e documenta la strage, al di là del numero esiguo di persone che riesce faticosamente a salvare. Una strategia disumana e illegittima.
Il Tribunale di Reggio Calabria, a inizio giugno, ha annullato il fermo amministrativo di 60 giorni imposto dalle autorità italiane a danno della Sea-Eye 4 in base al cosiddetto “decreto Piantedosi” di inizio 2023 (il primo decreto legge licenziato quell’anno dal Governo Meloni, a proposito di priorità). In trenta pagine la sentenza del giudice Dionisio Pantano smonta una per una le tesi delle autorità italiane in quanto palesemente infondate o non provate e offre, come ha sottolineato l’Associazione per gli studi giuridici sull’immigrazione, “interessanti spunti di riflessione giuridica e sulle modalità con le quali le autorità italiane utilizzano le informazioni ricevute dalla cosiddetta guardia costiera libica allo scopo di limitare le capacità di soccorso delle persone nel Mediterraneo”. C’è però poco da festeggiare.
Tra febbraio 2023 e aprile 2024 la norma che porta il nome dell’attuale ministro dell’Interno (nel 2014 era vicecapo della polizia) ha comportato 21 fermi di navi di soccorso civile e multe fino a 10mila euro, per 446 giornate di fermo complessive, sprecate così al posto di salvare. A questo bilancio se ne aggiunge un altro, rielaborato dalla Ong Sos Humanity: nel 2023 le navi di soccorso civile hanno perso 374 giorni di permanenza nell’area operativa, percorrendo un totale di 154.538 chilometri su rotte evitabili a Nord e a Est dell’Italia in direzione dei porti “lontani” strumentalmente assegnati da Roma. Tre volte e mezzo il giro del mondo. Chissà dove saranno oggi quei neonati sbarcati a Pozzallo nell’estate 2014. E chissà dove siamo stati noi in questi dieci anni.
1/7/2024 https://altreconomia.it/
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