Ex Ilva: cosa succede in città
E’ stato firmato ieri sera l’accordo tra Invitalia, la società per azioni proprietà del ministero dell’economia, e ArcelorMittal per l’ingresso dello stato nel capitale sociale di ArcelorMittal Italia. L’intesa arriva in un clima di tensione reso ancora più acuto dall’azione del sindaco di Taranto Rinaldo Melucci che, insieme ad altri sindaci della provincia, ha consegnato in segno di protesta le fasce al prefetto. Il contenuto dell’accordo andrà analizzato approfonditamente, ma è già utile fare delle riflessioni sui motivi che spingono lo stato a continuare a utilizzare soldi pubblici per aumentare la produzione di uno stabilimento obsoleto.
[…] quando pensiamo alla rinascita del Sud, e io alla rinascita della mia città, dobbiamo pensare in termini più positivi, pragmatici, meno astratti o irrazionali. […] A Taranto, fino a quando non si tenterà di fare ciò, non resta che alzare lo sguardo sulla calma inesorabile del mare per non vedere ciò che a breve distanza succede in città. [Alessandro Leogrande, Dalle Macerie, cronache sul fronte meridionale, Feltrinelli]
Vedere cosa succede in città, come suggeriva Alessandro Leogrande, e alzare lo sguardo sul mare. Siamo ancora qui a parlare del siderurgico tarantino, ma questa volta lo faremo senza riavvolgere il nastro della storia e del passato, affrontando quello che succede oggi.
Leogrande chiedeva di essere positivi e pragmatici. Innanzitutto, però, chiariamo il senso di questi suggerimenti. La questione ex Ilva-Taranto è una questione di interessi, e quindi di potere oltre che di lungimiranza politica. Parlarne in termini positivi significa studiare la faccenda come un oggetto posto fuori da noi e da cui possiamo prendere le giuste distanze per osservare e interpretare. Porre l’oggetto nella sua dimensione pragmatica, invece, vuol dire cogliere le cose nella loro concretezza, nella loro pratica quotidiana, nei loro risultati tangibili.
Poniamo la questione in termini positivi. A Taranto, alle costole del quartiere Tamburi, in uno spazio industriale grande due volte quello cittadino, si produce acciaio di qualità con un modo di produzione (uno dei tanti) che è conosciuto come ciclo integrale, che parte dalle materie prime (semplifico: carbone e ferro) e arriva al prodotto finito (coils, rotoli di lamiere) attraverso la combustione che avviene negli altoforni. Stabilito l’oggetto di studio, concentriamo l’attenzione sulle relazioni tra soggetti e oggetto, perché è fumoso dire che Taranto è un asset strategico senza specificare per chi e per fare cosa.
Quali sono i soggetti interessati alla questione ex Ilva-Taranto? Sono tanti e diversi per classe sociale ed economica. Chiamiamo le cose con il proprio nome: c’è chi guadagna tanto da questa vicenda e chi riceve le briciole oppure nulla. Innanzitutto, ci sono quelli che gli economisti amano chiamare stakeholder, un termine apparentemente e volutamente neutrale: sono quelli che hanno interesse che le cose si facciano in un certo modo a Taranto. L’analisi qui si ingarbuglia perché gli interessati in parte si trovano a Taranto e in parte in quello che chiameremo Altrove. Nel capoluogo pugliese troviamo le imprese locali (il famoso indotto) che producono in seno al siderurgico, dentro e fuori; gli operai diretti e indiretti oltre i lavoratori che svolgono attività scaturite dalla presenza della fabbrica (basti pensare ai benzinai sulla statale), infine le istituzioni (politica e sindacati). Fare le cose in un certo modo permette agli interessati di poter usufruire di alcuni vantaggi: i profitti, i salari oppure certe posizioni di potere. Certamente in questo quadro esistono figure radicalmente critiche che propongono e lottano per un altro modo, ma non ce ne occupiamo perché in questo momento – purtroppo – non sono loro a imporre le regole del gioco. Ma chi sono gli interessati che si trovano Altrove e che sono preoccupati che le cose si continuino a fare in un certo modo? Sparsi in Italia (soprattutto al Nord) e nel mondo (ArcelorMittal è una multi-nazionale) gli interessati dell’ex Ilva-Taranto-Altrove condividono con quelli tarantini l’amore per la vicenda e poco più. Per il resto sono economicamente più potenti e quando si siedono al tavolo contano più – purtroppo – che gli abitanti dei Tamburi.
Ci sono le aziende del Nord Italia che ogni settimana aspettano le navi e i treni pieni dei coils tarantini per lavorarli e venderli o per concludere i loro prodotti finali. Un’automobile, una colonna di cemento armato, un ponte, un frigo, può contenere acciaio prodotto a Taranto. Gianfranco Tosini, docente di Analisi di strategie di internazionalizzazione imprese bresciane nella sede di Brescia dell’Università Cattolica del Sacro Cuore (università privata), oltre che responsabile del settore economia nell’Associazione Industriale Bresciana, lo ha spiegato senza troppi fronzoli: «All’Ilva si possono chiedere prodotti con dieci giorni di anticipo, da un produttore indiano o cinese servirebbero realisticamente almeno 90 giorni»; inoltre con una fabbrica domestica, i tempi di pagamento possono essere maggiormente flessibili e comunque l’acciaio tarantino rimane di qualità rispetto ad altri concorrenti, soprattutto se si tiene conto dei costi di trasporto ridotti. Quindi per le aziende del Nord sicuramente Taranto è un asset strategico. È nelle cose che anche le istituzioni e i lavoratori delle fabbriche del Nord vogliono che all’ex Ilva-Taranto si continui a produrre in un certo modo.
Continuando, Tosini ha una nota biografica nel suo curriculum che ci permette di introdurre i prossimi interessati; il docente ha lavorato per oltre vent’anni nell’Ufficio Studi di Banca San Paolo (ora Intesa San Paolo). Sempre nel gruppo degli interessati alla questione ex Ilva-Altrove, ci sono gli istituti bancari che avanzano crediti per diversi miliardi con Ilva in Amministrazione Straordinaria, cioè lo Stato, i cittadini contribuenti. Lo stesso amministratore delegato di Intesa, Carlo Messina, uno dei banchieri più importanti nello scenario internazionale, in un’intervista a una televisione statunitense, affermava che gli investimenti di ArcelorMittal in Italia sono un messaggio al mondo: il Bel Paese offre condizioni vantaggiose per chi desidera investire. Starete pensando: è il classico business man che ama privatizzare perché pensa che il pubblico è logoro. Invece, Carlo Messina in quell’intervista risponde che il piano B è di nazionalizzare pur di non perdere la produzione tarantina, il che significherebbe da una parte perdere i soldi prestati per tenere a galla l’azienda e dall’altra, magari, i soldi prestati a tutte quelle aziende che ricevono l’acciaio di Taranto e che si troverebbero in gravi difficoltà. Del resto, la stessa Federacciai, la federazione delle imprese siderurgiche italiane, aderente a Confindustria, attraverso il suo presidente Alessandro Banzato, riportava la necessità che l’ex Ilva-Taranto produca in un certo modo: «Se la trattativa con ArcelorMittal non dovesse avere esiti positivi vedo solo la possibilità di uno ‘stato traghettatore’, un passaggio in mano pubblica sarebbe ineluttabile». Così come per Messina, anche per i signori dell’acciaio italiano, non è un problema tornare allo stato, seppur temporaneamente, l’importante è produrre e farlo in un certo modo.
Ma come si esprimono gli interessi di questo eterogeneo gruppo che chiamo ex Ilva-Altrove? Come ci ha suggerito Leogrande, riflettiamo sulle pratiche concrete e finalizzate a produrre acciaio a Taranto a ciclo integrale con l’utilizzo di altoforni e quindi carbone. Poniamo la questione in termini pragmatici, ragionando sulle cose. A Taranto e provincia, i lavoratori concretamente non vogliono perdere il posto di lavoro. Le aziende, invece, che hanno sempre faticato a svilupparsi autonomamente dalla fabbrica, temono di dover chiudere. I sindacati e la politica, se non sono strettamente legati ai privilegi di cui ho detto sopra, allora temono per il futuro dei lavoratori e del benessere della città, sia in termini di posti di lavoro che di morti e ammalati per l’inquinamento. Dico poco su questo gruppo perché, ripeto, non sono loro in questo momento a imporre le regole del gioco. Come sappiamo, ex Ilva è un sito di interesse nazionale. Concentriamoci su ex Ilva-Altrove.
Possiamo dire che a sottolineare il legame tra banche-imprese-stato, c’è il fatto che la cordata che si è aggiudicata la gara internazionale per affittare gli stabilimenti Ilva, AmInvestCo, è formata da ArcellorMittal e Intesa San Paolo, seppur con una piccola quota. Per tornare, invece, agli interessi di Federacciai, non dobbiamo dimenticare che Alessandro Banzato è anche presidente e proprietario delle Acciaierie Venete, azienda che produce acciaio a Padova, in provincia di Brescia e Trento, utilizzando forni elettrici e cioè il preridotto (molto richiesto e quindi costoso rispetto al carbone di Taranto), una tecnologia meno inquinante e finalizzata soprattutto ad acciai speciali. Chiunque, ragionevolmente, avrà pensato: perché non utilizzare quest’altro modo di produzione a Taranto? Per tutti i motivi che abbiamo detto prima: l’ex Ilva-Taranto produce acciaio di massa di qualità e a buon mercato, senza costi di trasporto insostenibili, con tempestività e flessibilità. Produce soprattutto per tutta quella concatenazione di imprese ex Ilva-Altrove. Lo stesso Gianfranco Tosino scrive su Siderweb, testata, comunità e società proprietà della Morandi Group che è al capo della Morandi Steel, il cui patron è Emanuele Morandi. La sua azienda trasforma e vende acciaio ed è andata in difficoltà proprio quando l’ex Ilva ha rallentato la produzione. Lo stesso Morandi già nel 2013 aveva visto lungo sulle sorti della fabbrica tarantina, dopo aver affermato che è un asset strategico:
«Non c’è nessuno in questo momento così patrimonializzato e strutturato per poter rilevare un’attività del genere. Al massimo si può pensare a un operatore russo, brasiliano o indiano. Una cordata italiana è improbabile» .
Ex Ilva-Altrove in questo caso ha sede a Flero, in provincia di Brescia. Con l’accordo, il Governo (Invitalia) entra in partenariato con la multinazionale a quote pari, per poi assumere la maggioranza la maggioranza entro il 2022. L’idea è che lo Stato prenda parte alla partita per farsi carico di un notevole taglio dell’occupazione attraverso la cassa integrazione (che si aggiunge a quella dei lavoratori rimasti sotto Ilva Amministrazione Straordinaria) e mettendo soldi pubblici per convincere i frano-indiani a restare. Nell’accordo si parla anche di due forni elettrici che andrebbero finanziati con soldi europei. Come ho già detto, in un mercato come quello italiano in cui l’acciaio prodotto proviene quasi totalmente da forni elettrici, sono proprio i proprietari di questi ultimi, e cioè gli interessi dell’ex Ilva-Altrove, ad aprire solo cautamente a questa possibilità: poche settimane fa lo stesso Branzato di Federacciai ha specificato che un eventuale forno elettrico a Taranto non deve creare squilibri per gli altri produttori nazionali di acciaio proveniente da forni elettrici. Invece, le banche, creditori in prededuzione, cioè quelli che per legge devono essere ripagati per primi, dovrebbero convertire i crediti in quote della nuova compagnia frutto del partenariato Stato-privato. La somma che ArcellorMittal si impegna a investire per la sua quota servirà proprio a ripagare le banche.
Capiamo bene adesso perché la parola d’ordine che smaschera i positivi e pragmatici interessi che sono Altrove e che fa cadere il castello di carte è: chiusura dell’area a caldo. Significherebbe aprire la discussione sul futuro, uno spazio temporale e decisionale di cui sarebbe lo stato ad assumersene la responsabilità, garantendo il diritto per una terra di scegliere come essere protagonista. Su quel punto di rottura, allora, governo e territorio potrebbero formulare iniziative da realizzare in tempi certi, anche lunghi, che in questo momento nessuno può neanche minimamente prevedere. Non solo, finalmente, ci sarebbe lo spazio per definire ciò che è oggi l’ex Ilva di Taranto: una fabbrica di altri tempi che al di là della gestione, pubblica o privata, produce perdite ormai da un decennio, risultato – tra le altre cose – del suo gigantismo.
Questo accordo registra un’altra occasione persa per lo stato di assumere la direzione del processo ed elaborare una programmazione sul lungo termine di politica industriale siderurgica. Come sappiamo, il neoliberalismo non nega la presenza dello stato nei processi economici, piuttosto ne promuove un’azione finalizzata al mantenimento della libera concorrenza. Nel caso specifico, quindi, è fuorviante parlare di ritorno all’acciaio di stato, in quanto il governo ha deciso solo di farsi carico dei costi sociali (esuberi ed inquinamento), fungendo da «traghettatore» come qualche industriale ha suggerito. In quest’ottica, la logica neoliberale non solo è coerente, ma si autopromuove nell’opinione pubblica narrando come decisiva la presenza dello Stato quando in realtà è chiamato solo a socializzare le perdite (vedasi l’atteggiamento accogliente di Cgil, Cisl e Uul a Taranto). Infatti, come abbiamo già detto, la decisione di continuare ad usare soldi pubblici e aumentare la produzione non è razionale per uno stabilimento che ha prodotto centinaia di milioni di euro in perdite nel periodo di gestione pubblica dal 2012 al 2018 e poi privata. Lo stesso direttore responsabile di Siderweb, Lorenzo Ferrari, che nei giorni scorsi ha elaborato una precisa analisi del bilancio di Invitalia, dovrebbe spiegare come fa la sua redazione a dimenticare la situazione economicamente sfavorevole in cui si trova chiunque oggi voglia investire in quello che definiscono un asset strategico. La pandemia ha chiarito – se mai ce ne fosse stato bisogno – che l’ordine neoliberale produce drammatici squilibri non solo tra il Nord ed il Sud del mondo, ma all’interno di ogni paese tra chi vede moltiplicarsi le sue ricchezze e chi i suoi svantaggi. I piani di aiuto messi a punto dalla Commissione Europea dovrebbero incontrare nello stato non un mero interlocutore, ma un soggetto con una chiara direzione politica e sociale da attuarsi con una pianificazione strategica delle risorse e degli obiettivi che ci liberi dalla logica emergenziale dell’intervento pubblico. Sulle perplessità di un’operazione in cui lo Stato si pone al fianco di un’impresa che è allo stesso tempo concorrente e socio, rinvio alle domande provocatorie e intelligenti del professor Federico Pirro. Sul fatto che si parli di una produzione quantitativamente e qualitativamente incompatibile con la vita umana, che tiene conto dei morti che provocherà, rinvio alle nostre coscienze.
Credo che Taranto non sia oggetto di operazioni razziste prodotte dai colonizzatori nordici; Taranto e i tarantini sono piuttosto oggetto dell’attenzione di una politica neoliberista, capitalista, chiamiamola come vogliamo, in cui l’interesse economico continua a sfruttare gli sfruttati, al di là della loro lingua e della loro provenienza. Aveva ragione Alessandro Leogrande, bisogna essere positivi e pragmatici, distogliere lo sguardo dal mare e guardare in faccia la città, solo così potremo pensare di trasformarla.
Francesco Caiazzo, studente di storia dell’Università di Bologna, è attivista del movimento politico Una Strada Diversa.
11/12/2020 https://jacobinitalia.it
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