Facebook che diventa Meta e il lato oscuro del digitale
Chi crede che Zuckerberg con Meta voglia farci dimenticare i suoi problemi di credibilità, magari facendoci tornare a giocare con gli avatar come su Second Life, ha capito poco delle strategie del colosso di Menlo Park.
La creazione di Meta Platforms Inc. sottende invece il tentativo di giungere a una radicale trasformazione della condizione umana come è stata definita dall’uso della scrittura ad oggi, negli ultimi 5500 anni. Come la scrittura ha rappresentato un salto nella capacità dell’homo sapiens sapiens di comprendere se stesso, pensare il mondo e relazionarsi con esso, allo stesso modo la visione e gli obiettivi di Zuckerberg come di gran parte dei teorici della Silicon Valley, dalla Singolarità di Raymond Kurzweil, director of engineering in Google, alle prospettive transumaniste diffuse da filosofi come Nick Bostrom, non riguardano più lo sviluppo di imprese enormemente profittevoli, ma la pretesa di imporre un nuovo salto antropologico, la definizione di una nuova condizione umana basata su nuove tecnologie che definiranno non più una totalità organica, ma una totalità digitalizzata. Si arriva così alla sussunzione totale dell’essere umano in un infosistema pervasivo, ubiquo, ad altissima densità sensoriale, “collassato” come quando in astrofisica si ha un enorme addensamento di particelle subatomiche, perché, spiega il filosofo Cosimo Accoto, risultato di “operazioni di sensing, networking, mining, sorting e rendering che evocheranno di volta in volta anche ambienti sintetici saturanti ad alta e altra dimensionalità (x-reality)”.
Come conseguenza cambieranno anche le modalità di lavoro e di produzione e anche la catena del valore globale, che abbiamo sempre immaginato e rappresentato come una sequenza orizzontale e che invece bisognerà immaginare più come una pila fatta di varie stratificazioni: fisiche e digitali, concettuali e virtuali. Accoto suggerisce che il valore si produrrà per “collassamenti di valore”, ovvero a seguito di stratificazioni di valore capaci di fondersi l’un l’altro in un determinato momento per offrire un’esperienza o un servizio radicalmente innovativo: non più un treno ad alta velocità, ma il teleporting; non più un corso universitario sullo schermo di un pc, ma una lezione di astrofisica volando alla velocità della luce tra pianeti e galassie. Non si tratta di illusionismi da luna park, usciti dal quale, potrebbe pensare qualche ingenuo realista, ce ne torneremo alla concreta e dura esistenza di tutti i giorni.
Oggi è complicato assumere verso il mondo un atteggiamento da ingenuo realista. Non solo sappiamo tutti che la realtà non è come ci appare, ma che è anche il frutto di molteplici filtri cognitivi. Due secoli fa uno dei capolavori della filosofia occidentale si apriva con questo avvertimento:
L’uomo non conosce né il sole né la terra, ma appena un occhio, il quale vede un sole, una mano, la quale sente una terra; (egli sa) che il mondo da cui è circondato non esiste se non come rappresentazione, vale a dire sempre e dappertutto in rapporto ad un altro, a colui che rappresenta, il quale è lui stesso.
(Arthur Shopenhauer, Il mondo come volontà e rappresentazione, 1818, primo libro)
Siamo oggi già ben oltre i wearables, i dispositivi indossabili che datificano il corpo umano come fonte costante i dati. Gli occhiali RayBan realizzati da Facebook in collaborazione con Essilor Luxottica sono il primo esempio di una protesi che non intende più imitare i sensi, ma aumentarli. Dagli occhiali ai microchip installati direttamente nella retina il passo sarà breve. Dai guanti per la realtà virtuale a guaine per usare datificare tutto il nostro corpo e interagire al meglio in questa realtà aumentata il passo sarà breve altrettanto. La datificazione del mondo non riguarderà solo l’estrazione di dati dalle vite, ma l’apparato simbolico e sensoriale che ha definito il rapporto dell’essere umano con il mondo viene integrato da un nuovo strato di contenuti e interfacce che finisce per aggiungere un nuovo velo di Maya, per citare sempre i Veda attraverso Schopenhauer. Ma in questo velo di Maya saremo costretti ad avvolgerci se non vogliamo rischiare una vita da reietti o da marginali. Così come oggi chi non ha un numero di cellulare rischia di non poter accedere nemmeno ai servizi anagrafici dello Stato, non possiamo escludere che la spinta di Zuckerberg e compagnia bella californiana e cinese sarà quella di spingerci a vivere “innanzitutto e per lo più” nei loro metaversi.
Il superamento dell’internet mobile che ancora caratterizza la fase 4G della digitalizzazione avviene attraverso quella che Zuckerberg chiama l’embodied internet: internet non è più nelle nostre tasche, ma noi diventiamo parte di internet. Il corpo virtuale prende il sopravvento sul corpo reale. Mentre finora il corpo virtuale è stato un’ombra, una scia datificata delle azioni del corpo reale, si assiste a un rovesciamento del rapporto: il soggetto virtualizzato prende il centro dell’esperienza grazie a una realtà aumentata e virtuale che abilitano il corpo digitale a fare esperienze precluse al corpo fisico. Non si tratta di una riflessione nuova per la sinistra più avvertita: già nel suo testo del 2018 “L’ algoritmo sovrano”, Renato Curcio evidenziava che “Per la prima volta nella storia della nostra specie (…) l’esperienza umana non si compie più in prevalenza nello spazio-tempo dei corpi in relazione ma si proietta anche e simultaneamente in uno spazio tempo virtuale. Siamo investiti da due processi asimmetrici regolati da logiche diverse che c’impongono, volenti o nolenti, una dissociazione identitaria radicale e permanente (…)”. Ma il salto oltre (Meta, appunto) questa dissociazione Zuckerberg lo pone offrendo al corpo digitalizzato una primazia che finora non aveva.
L’infosistema in cui opereranno i corpi digitali degli utenti di Meta non sarà solo il risultato dell’interazione tra l’infrastruttura tecnologica (5 e 6G, realtà virtuale e aumentata, wearables, e così via) con le app in 3D sviluppate e ospitate da questo ambiente digitale, ma dipenderà anche da quanto imprese, istituzioni e cittadini accetteranno questa nuova condizione umana.
Noah Yuval Harari ha recentemente lanciato un allarme sul rischio che gli esseri umani verranno in tempi brevi “hackerati” dagli strumenti dell’intelligenza artificiale sviluppati e messi a valore dai grandi oligopolisti globali dell’Information and Data Economy. L’unica possibilità per farvi fronte, secondo Harari, è un accordo generale tra gli Stati sovrani per imporre regole a questi oligopolisti globali e alla loro capacità di estrarre i dati dalla vita degli individui. Per quanto appaia una proposta di frontiera, l’appello di Harari, a confronto degli obiettivi che si ripromette di realizzare Meta, sembra un richiamo alle buone maniere.
Gli azionisti dei GAFAM (Google Apple, Facebook, Amazon, Microsoft), i grandi oligopolisti globali dell’epoca digitale, e di tutte le imprese coinvolte nel capitalismo dei dati, diffondono oggi una nuova argomentazione per rivendicare i loro enormi profitti: non solo, tradizionalmente, essi sarebbero il riconoscimento dei loro meriti, ma rappresentano le risorse necessarie a perseguire un progetto di trasformazione e di supposto miglioramento dell’umanità. Si tratta di un argomento molto forte: continuare a imporre e far accettare all’opinione pubblica globale il far west normativo, esenzioni fiscali scandalose, le politiche ostative della concorrenza e dell’innovazione, l’estrazione di dati al fine di attuare l’”anticipazione logica di sviluppi oggettivi” (come Hannah Arendt paventava dei totalitarismi di inizio Novecento), in cambio di una vita migliore e anche più lunga e sana per centinaia di milioni di persone. Si tratta chiaramente di un’attitudine totalitaria, intesa in senso duplice: come orientamento a mappare la vita delle persone dalla nascita alla morte, dal risveglio alla buonanotte; come ambizione di proporre un senso e un indirizzo alle esistenze di chi si affida a questi infoambienti, in qualche modo sostitutivo tanto di riti e religioni, quanto di sovranità statale e relativi servizi.
Il potere dei GAFAM e di tutto il sistema di imprese che lavora alla realizzazione delle loro ambizioni, non è più solo un problema di economia industriale, di concorrenza, di tutela dei consumatori e della loro privacy, di regolazione insomma, come se avessimo a che fare con il gas o l’informazione. Se a distanza di 50 anni, tra gli anni 30 e gli anni 70, gli oligopoli del petrolio e delle telecomunicazioni potevano essere affrontati ancora con strumenti simili, non si può dire lo stesso per realtà come i GAFAM per tre ordini di motivi:
- la loro scala mondiale e la loro ubiquità, che difficilmente si lascia impaniare dai regolamenti di uno specifico paese
- la costante dilatazione dei loro ambiti di impatto e di sorveglianza nelle singole esistenze,
- l’ideologia dataista postcapitalista, in cui i principi di mercato e di borsa sono superati da una teleologia che giustifica ogni condotta in un’interpretazione faustiana del loro ruolo.
Il più grande errore di politici ed economisti e non aver capito che applicare per analogia schemi e soluzioni che avevano più o meno funzionato in altri settori non ha senso in questo caso. Rispondere alla sfida di Facebook citando il successo della rottura del monopolio dell’AT&T e la creazione delle Baby Bells, un caso vecchio di 30 anni, significa non capire le idee che muovono oggi il profondo di aziende come Facebook, Google, di centinaia di pensatori accumunati da una visione transumanista, la quale non implica, come banalmente si pensa, solo un esito cyborg alla condizione umana, ma ancor di più un ripensamento di quella che chiamiamo “realtà”
Non si può opporre a questo orizzonte totalitario solo una stantia critica sui limiti dello sviluppo, basata sull’esaustione delle risorse naturali che l’espansione digitale finora ha velocizzato e non ridotto. Bisogna partire dalla constatazione che non solo il sistema istituzionale e regolamentare, ma anche l’intera elaborazione del pensiero dell’uomo su se stesso dai suoi primordi ad oggi, l’intero apparato sapienziale quanto razionalistico, non tiene il passo dell’accelerazione tecnologica in corso. Bisognerebbe chiedersi se, come nel caso di tecnologie militari che vengono tenute nascoste per non terrorizzare l’umanità, non sarebbe il caso di almeno tentare di rallentare certi sviluppi in attesa di comprenderne bene le conseguenze. Una soluzione semplice sarebbe quella di consentire l’introduzione di certe tecnologie in certi paesi (certo, cinicamente, sarebbero un po’ dei paesi-cavie), mentre i paesi più avveduti, spesso al tempo stesso i mercati più appetibili, potrebbero valutarne gli impatti e nel frattempo attrezzarsi per gestire queste innovazioni.
La tecnologia non è un processo autonomo, ma è sempre frutto di scelte politiche, anche, se non soprattutto, quando la politica lascia che essa si sviluppi in modalità a prima vista “libere”. Paesi come la Russia e la Cina hanno dimostrato che Google e Facebook non sono servizi perfetti che si impongono in ogni mercato di per sé, ma infosistemi totalitari, politicamente sostenuti dagli USA, che entrano inevitabilmente in conflitto con forme statuali autoritarie o tout court totalitarie. Le democrazie cosiddette liberali dovrebbero capire che la loro tutela della libertà non può capovolgersi nel consentire tutto al totalitarismo digitale. Ed è paradossale che alcune delle più feroci e argomentate critiche al totalitarismo digitale vengano da politici e pensatori di destra, sulla base di classici assunti libertari, mentre spesso i liberals americani si sono distinti per il loro collateralismo alle politiche e agli obiettivi dei GAFAM.
Dal canto suo anche una certa sinistra italiana, moderata e compatibilista, vive ancora nell’illusione che il progresso tecnologico sia un fattore di liberazione degli esseri umani, senza capire che ogni tecnologia pone immediatamente una relazione di potere e di dominio.
Biagio carrano
2/11/2021 https://www.lafionda.org/
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