Fare i conti con i suicidi, e con quanto li determina.
Il suicidio un tempo veniva considerato alla stregua dell’omicidio e indicato come omicidio di se. Ai suicidi venivano confiscati i beni loro e di tutta la famiglia , se ne possedevano, e poi i loro corpi venivano ‘puniti’ con impiccagioni del cadavere o venivano gettati nei pozzi.
I sopravvissuti all’atto suicidario venivano incarcerati e condannati a morte per omicidio, le loro case sigillate. Queste pratiche avvennero in tutta Europa fino alla Rivoluzione francese, quando tali prescrizioni non vennero più applicate (Code pénal del 1791 le abrogo definitivamente), seguendo le indicazioni di Hume, Montesquieu, Rousseau, Beccaria per la depenalizzazione della morte volontaria. Il suicidio era vietato anche nella Grecia antica e nell’antica Roma. Veniva accettato dagli stoici solamente se si aveva il parere favorevole del Senato, a cui ci si poteva rivolgere spiegandone le motivazioni a patto che la morte non arrecasse danno diretto a qualcuno, come nel caso degli schiavi che avrebbero arrecato danno ai loro padroni. Ancora oggi tutte le religioni vedono il suicidio come omicidio di se stessi. Un atto contro l’ente supremo che ci ha concesso la vita e a volte, un atto contro la società, come ci ricorda Durkheim nel suo trattato ‘Il suicidio’.
Ogni società si è sempre sentita attaccata dal gesto suicidario, anche se le motivazioni non sono sempre nell’evidenza contro la società, perchè il compiere questo gesto non è solamente una ferita inferta all’ordine costituito per non essere stato in grado di ‘comprendere’ nel senso di prendere a se, anche le esigenze di quel singolo individuo è anche un gesto di ribellione, nel sottrarre il proprio corpo alla società. Il vilipendio dei corpi e le punizioni erano una vendetta e un monito. .Due sono i filoni più rilevanti di analisi e di studio del fenomeno: la dimensione personale di pertinenza psichiatrica, psicologica e psicoanalitica e quella collettiva, di cui si occupano i sociologi ed è molto difficile fare uno studio che li comprenda entrambi, nonostante lo stesso Durkheim per certi versi ci abbia provato, prestando comunque una maggiore attenzione al fenomeno sociale. Quando parlo di ordine costituito potrei anche parlare di ‘ordine costituendo’ o ‘ordine costituente’, riferendomi a quella parte di società che si colloca nell’opposizione ad un sistema dato. Nello specifico alla comunità variegata dei marxisti. Alcuni compagni sentono l’esigenza di un confronto su questo tema perchè sono troppi a cadere sotto le intemperie , molti i giovani, ma non solo. Questo scritto è un contributo alla riflessione comune, spero. Tutti noi abbiamo apprezzato il grande lavoro fatto da F. Basaglia per le istituzioni psichiatriche, ma la deriva è stata tanta non solamente per la carenza di strutture adeguate, che ha determinato l’abbandono pressoché totale delle persone a loro stesse e alle loro famiglie; la deriva più grave è stata culturale la dove il discorso di Basaglia è stato stressato al punto da negare il misterioso percorso che porta alla disperazione, come evento possibile nell’esistenza di ciascuno e che solamente le cure adeguate possono interrompere cercandone il senso profondo personale e collettivo. Negli ambienti marxisti esiste un tabù all’uso del termine depressione, tabù giustificato quando viene usato nel sostantivo ‘depresso’,come categoria, indicando in tal modo il ‘depresso’ come persona comunque incapace di seguire una norma a prescindere dalla contingenza di eventi, che possono aver determinato la sua chiusura al mondo. Di questi tempi bui è facile essere tristi e non vedere prospettive perchè gli eventi negativi che influenzano il nostro umore sono molteplici e possono essere riassunti nell’insicurezza generale sulle nostre sorti legata all’attuale fase liberista del capitalismo, dove ogni istanza annega nell’impossibilità, a livello collettivo e personale di trovare risposte. Dalla tristezza, in particolari circostanze è facile ritrovarsi sulle spalle il macigno della depressione Non s’inorridisce di fronte a termini medici come polmonite, infarto o diabete. Malattie o affezioni, chiamatele come volete. Si cerca la cura migliore nell’antibiotico o nell’insulina, si ricorre al cardichirurgo. Certo sto semplificando, tanto per capirci.
Di fronte al vissuto depressivo e in particolare di fronte al suicidio, accade un fatto strano: tutti coloro che si pongono criticamente contro lo stigma, si sentono investiti di una grande responsabilità per non aver ‘capito’ in tempo, sprofondando in grandi sensi di colpa dai quali ci si difende imprecando contro il capitalismo che ha falciato ancora una volta una vita. Ma è difficilissimo prevedere un suicidio, più difficile ancora prevenirlo, eppure credo che ogni gruppo, ogni comunità potrebbe avere degli anticorpi a che il fenomeno non dilaghi. É proprio questo smarrimento che sta ad indicare come anche in queste comunità, il suicidio è vissuto come un tradimento nei confronti del gruppo. Un venir meno del singolo all’imperativo collettivo di rafforzare l’ottimismo della volontà. Questo senso di tradimento e la rabbia che spesso genera, può essere mitigato solamente dal fluire di un sentimento di accettazione dell’inneffabilità di questi vissuti estremi legati all’esperienza esistenziale del singolo, l’accettazione non solamente della dimensione personale ma al tempo stesso la consapevolezza dell’inevitabilità che nei periodi di depressione economica questi eventi possano accadere con più frequenza significa mantenere lucido il pessimismo della ragione senza il venir meno alla volontà di cambiamento. Accettare quindi la depressione come malattia del corpo e della mente, perchè quando arriva è una furia, non si dorme non si magia, si è costantemente angosciati si ha paura di tutto, proprio della morte, di più: a volte ci si vive come già morti e il suicidio appare come l’unica soluzione per completare con la distruzione del corpo un evento già avvenuto. Il suicidio è l’ombra per tutti coloro che svolgono il lavoro psichiatrico psicologico.
Un’ombra che li accompagna costantemente perchè dipende tutto dalla possibilità di creare un ponte tra la prigione nel quale l’Altro è rintanato impaurito e il mondo. Un ponte molto instabile che a volte non regge il peso. James Hillmann, psichiatra e psicoanalista nel suo saggio IL SUICIDIO E L’ANIMA affronta proprio questo aspetto del lavoro terapeutico sostenendo l’aporia tra l’essere colui che si prende cura del corpo non tenendo conto della necessità dell’anima di ‘sperimentare’ la morte, come accade nelle fantasie di suicidio, peraltro molto più frequenti di quanto comunemente si creda. Egli pone l’accento sulla necessità di riattivare il processo creativo della psiche. In una lettera ad Eckermann, Goethe, parlando del suo autobiografico Werther, scrive: “Anche questa è una mia creatura, che io, come il Pellicano, ho nutrito col sangue del mio cuore. (… ) Sono razzi incendiari! Ed io mi trovo a disagio e temo di riprovare lo stato patologico in cui il libro nacque.. La felicità impedita, l’attività contrastata, i desideri insoddisfatti, non sono mali di una speciale epoca, ma di ogni singolo uomo. E male sarebbe se ogni uomo in vita sua non avesse un periodo nel quale il Werther non gli sembrasse scritto proprio soltanto per lui.” (1)
L’affermazione di Goethe sottende un discorso sulla relazione esistente tra il processo creativo come ‘necessità’ di una ricerca continua per trovare nuovi linguaggi adatti a comunicare il disagio, che si presenta sempre fuori dall’ordinario: cultura ed arte come cura nel confronto altrettanto creativo tra esperienze simili che permettono di uscire dal sentimento di isolamento profondo. Il rapporto tra depressione e creatività emerge in maniera significativa in un interessante scritto MEMORIALE DALLA DEPRESSIONE, testimonianza autobiografica di Aldo Cinti, un uomo semplice che per tutta la vita ha convissuto con la depressione riuscendo comunque a dare un senso alla propria esperienza, nel quale è contenuto un passo di straordinario interesse. L’autore riesce a descrivere il complesso correlarsi di depressione e creatività, nel momento della sua vita successivo ad un tentativo di suicidio: “A casa, rinvoltato nel gesso, non mi potevo muovere. Per passare il tempo leggevo. Nel leggere venivo a conoscenza di cose che non sapevo; inoltre continuavo a fare quadri… , mentre riassumevo il brano di lettura che avevo letto. Dall’erudizione venivano fuori nuove conoscenze, delle quali ne prendeva atto l’intelletto; le cui intuizioni sfociavano in risentimento perché le conseguenze rimostravano effetti di cause lontane e rieccitavano i sentimenti; cioè con concetti diversi, in cui era stata rinchiusa la mia mentalità. Inoltre dall’argomento della conoscenza ne prendeva atto la coscienza, dando una nuova forma all’idea, muovendo quelle nozioni fisse basate sui principi ottusi e puerili. Il risentimento che provavo nello svilupparsi dell’erudizione, incrociandosi con quei punti che erano stati cagione di disturbo al sentimento, lo raffiguravo attraverso le immagini che costruivo, sui quadri.” (2)
Tutto ciò dà maggior valore alla definizione della creatività come capacità individuale, potenzialmente presente nei campi più diversi, di cogliere i rapporti tra le cose o tra le idee in modo nuovo o di formulare intuizioni non previste dagli schemi di pensiero abituali e tradizionali. Questa attività molto enfatizzata nella società dei consumi è stata di fatto variamente compromessa. Infatti viene richiesta esclusivamente in funzione della creazione di un prodotto. Prodotto necessario all’interno di una catena di montaggio regolamentata dagli schemi rigidi del profitto. Il concetto di alienazione marxiano è compiuto in ogni sua forma anche in quella intellettuale. J.Hillmann nel saggio sul suicidio (3) scrive come premessa: ‘l’anima non è un concetto, ma un simbolo.(4)
Vediamo come in ogni caso esista una congiunzione anima/corpo unitaria, qualsiasi sia il punto di osservazione. Ciò vuol dire che un corpo senza anima non è un corpo ma un cadavere, e un’anima senza corpo è un’idea metafisica, una supposizione. L’anima quindi come espressione vitale di un corpo. Anima come vita quindi a prescindere da qualsiasi altra considerazione filosofica o religiosa. Ora, quando si sta in uno stato depressivo è presente un vissuto senza emozioni, senza sentimenti, senza progetti e quindi senza futuro. Cercare la morte del corpo, perchè di fatto l’anima è già morta. Questo è il vissuto più drammatico della depressione e da qui il gesto estremo. Questo ho imparato ascoltando le persone che stavano male nelle quali ho constato che i problemi sociali ed economici sono sempre intrecciati e coniugati ai vissuti della singola storia personale. Alle scelte fatte, alle aspettative disattesi, ai sogni che creano illusioni. Basaglia non ha mai negato la sofferenza psichica. Ha combattuto il manicomio come istituzione totale, la legge 180 che porta il suo nome tentava di ridare dignità a tutti coloro che venivano rinchiusi e che venivano catalogati come depressi, schizofrenici, psicopatici, identità negate dalla colonizzazione razzista dell’essere umano. Riordinare la cura e l’assistenza questo era il progetto. Portare la cura della mente o dell’anima negli ospedali generali con i tanto famigerati SPDC ( acronimo di servizio psichiatrico di diagnosi e cura) risponde all’esigenza di dare dignità alla sofferenza psichica all’interno dell’ospedale generale, perchè è necessario curare anche il corpo nella crisi.e di permettere di ritrovare la capacità di prendersi cura di se; di approfondire poi e conoscere i propri punti deboli attraverso una terapia psicologica.
Vedere la crisi non come frattura ma momento di cambiamento come presa di coscienza di una possibilità diversa di guardare il mondo, acquisendo il giusto e necessario potere individuale per intervenire creativamente sulla realtà. L’etimologia di crisi viene da verbo krino, il cui significato è al tempo stesso separo e decido. In medicina viene usato quando al culmine di uno stato febbrile sopravviene lo sfebbramento o, all’opposto, un aggravamento dello stato di malattia. Qualunque accezione si voglia dare, il termine crisi è legato al cambiamento di una situazione o in bene o in male. Dipende dai rimedi messi in campo. È evidente che se un edile precipita per mancanza di protezione o un operaio s’intossica per le esalazioni di sostanze nocive è responsabilità diretta del datore di lavoro per la mancanza di sicurezza sul lavoro, ciò non toglie che si cercheranno le cure idonee per affrontare il danno.
Allora è vero che le condizioni di vita e di lavoro attuali fanno ammalare la psiche e questa malattia la possiamo chiamare depressione, senza metafore nè stigmi affrontandola come tale. A conclusione di queste brevissime riflessioni non posso non sottolineare come la negazione dello stato di malattia depressiva possa facilmente generare un’enfasi estetica del gesto in un momento nel quale la stampa meinstream da voce esclusivamente agli avvoltoi del Billderberg che da mane a sera martellano sul fatto che i giovani non hanno futuro e i vecchi hanno vissuto sopra le loro possibilità, veicolando i vissuti depressivi di mancanza di futuro e di colpa.
Note:
1 J.P. Eckermann ʻConversazioni con Goetheʼ a cura di E. Gianni – Einaudi 2008
2 Aldo Cinti ʻMemoriale dalla depressione. Abbecedario di sofferenze comuni e singolari.ʼ
Ed-Centro Documentazione Pistoia (collana Collana dei fogli di informazione)
3J. Hillman – IL SUICIDIO E L’ANIMA- Asrolabio pag.35; 4 idem pag. 34
Rita Chiavoni
pischiatra
14/6/2015 www.contropiano.org
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