“Fascismo”: il nome e la cosa
1) L’uso del termine «fascismo» per indicare aspetti tutt’altro che marginali dell’attuale governo a trazione Salvini è al centro di un dibattito fortemente controversistico sul rapporto tra il «nome» e la «cosa». Una discussione che si svolge a diversi livelli: quello degli studiosi di professione, quello degli ex studiosi (personaggi che non fanno più ricerca reale da qualche decennio), quello dei giornalisti «colti» (si sono a suo tempo laureati in storia, ma non hanno mai praticato davvero il mestiere e ignorano del tutto le logiche dell’indagine analitico-epistemologica) e giornalisti-propagandisti tout court. Inevitabilmente questi diversi livelli finiscono per incrociarsi nelle necessità di scelta inerenti all’odierna temperie politica.
Uno dei filoni di questo intreccio, nel negare le possibilità di un’analogia tra il fascismo storico ed elementi caratterizzanti il momento attuale definiti tramite il termine «fascismo», appare interessato, soprattutto, alla banalizzazione di tali fenomeni. E la banalizzazione è un modo particolarmente efficace per immetterci in una «notte in cui tutte le vacche sono nere» e le parole perdono il senso profondo del loro significato, nella storia e soprattutto nella memoria. È ora di sconfiggere «l’egemonia delle parole (il corsivo è mio) della sinistra»[1], ebbe a dire Gianfranco Fini nel momento in cui il «neofascismo», parola certo più adeguata nel contesto di esaurimento del
«fascismo storico», cominciava la sua, finora, irresistibile ascesa. Un’ascesa che lo avrebbe portato da una presenza
ai margini del sistema politico italiano al centro delle istituzioni, in particolare al centro dell’esecutivo, ed a diventare un aspetto rilevantissimo di tanta parte del «senso comune» degli italiani.
Il nostro presente italiano deve confrontarsi con fantasmi che non si sono dissolti nella dissoluzione del Novecento,
ma che anzi, nei modi di quella dissoluzione hanno trovato nuove forme di apparizione, nuove forme di corposa presenza.
Sul nostro presente italiano gravano i lineamenti di pesanti eredità storiche. Naturalmente le eredità storiche non si manifestano nelle forme originarie. L’analisi del fenomeno non può prescindere, come avviene invece nella pubblicistica giornalistica più o meno «colta» e qualche volta anche in interventi di studiosi professionali, dalla consapevolezza della pluralità dei tempi della storia. I processi storici, infatti, non si comprendono considerando il loro procedere secondo meccaniche unilineari, né tantomeno astraendo dalla diversità dei loro ritmi di svolgimento.
Ritmi più veloci e ritmi più lenti fanno parte dello stesso corso storico, ed implicano un insieme vario di periodizzazioni ineluttabilmente connesse. In questo senso il «fascismo storico» è davvero morto, ma il «neofascismo» è ben vivo e lotta contro di noi.
2) Emilio Gentile, uno studioso che ha dedicato all’analisi del fascismo pressoché tutta la sua vita scientifica, in un ambizioso libretto di sintesi mette in guardia contro l’uso inflazionato del termine «fascismo», un uso che di fatto
finisce per renderlo euristicamente inservibile[2].
«L’illuminismo ha cominciato ad essere tutto, e quindi nulla», ha affermato Robert Darnton a proposito dello stesso fenomeno di perdita di capacità analitica di un termine chiave della nostra modernità. «Io sono per ridimensionare – argomenta ancora Darnton – . Proviamo a considerare l’Illuminismo come un movimento, una causa, una campagna per cambiare le menti e riformare le istituzioni. Come tutti i movimenti ha un inizio, una fase intermedia, e da qualche parte, ma non dappertutto una fine. È stato un fenomeno storico concreto che può essere collocato nel tempo e localizzato nello spazio»[3].
È molto difficile per chi fa di mestiere lo studioso di storia non concordare con le giuste considerazioni sia di Emilio Gentile che di Robert Darnton. Si dovrà, tuttavia, fare ricorso ad un ampio ventaglio di «distinzioni» per provare a comprendere se e come l’evocazione del fantasma del fascismo è in grado di dirci qualcosa sul fenomeno in corso in Italia e sul suo rapporto con la storia italiana.
Del resto Darnton che vuole «ridimensionare» l’illuminismo, poi di fronte all’estendersi delle critiche di «eccesso di razionalismo», si lascia andare all’uso di una concettualità di diretta derivazione illuministica.
Nel nostro caso il processo di successive distinzioni può partire dal fascismo in generale, fenomeno europeo ed in qualche modo mondiale, al fascismo in particolare, il fascismo italiano. Si presenta immediatamente però una questione dirimente: cosa sarebbe stato ilfascismo in generale senza il fascismo italiano? Addirittura ci sarebbe stato un fascismo in generale? Sì, perché il punto di partenza per porre il problema del rapporto tra fascismo, specifico fenomeno storico periodizzabile con relativa precisione, e lineamenti del fascismo di lungo periodo, non può assolutamente prescindere dal fatto che il fascismo è stato inventato dagli italiani. Dal fatto che il fascismo del Novecento è la massima innovazione politica italiana; un modello che l’Italia offre al mondo e che una parte del mondo, a suo modo naturalmente, accetterà riconoscente.
Motivi culturali e politici tipici del fascismo sono presenti in Europa prima della «Grande guerra». Gli studi di Sternhell sull’ideologia fascista ci dimostrano quanto profondi siano questi motivi anche nell’Europa avanzata, in Francia ad esempio[4]. È in Italia, però, che finiranno per coagularsi nel fenomeno che dà loro nome e più precisa riconoscibilità: fascismo.
La crisi del dopoguerra è diffusa a diversi livelli di gravità in molti paesi d’Europa, ma è in Italia che produce il fascismo. Nemmeno nella Germania sconfitta, umiliata, con la moneta polverizzata, con l’insurrezione a Berlino, la
effimera repubblica rossa di Baviera, si ebbero esiti di tipo fascista alla crisi postbellica. Bisognerà aspettare la disoccupazione di massa del 1929-30 perché a tali esiti si arrivasse. E la presenza non secondaria di un modello a cui ispirarsi: il modello italiano appunto, il maestro Mussolini. Il ruolo di maestro a Mussolini, Adolf Hitler lo riconobbe fino in fondo.
«La storia unitaria dell’Italia ha poco più di centotrent’anni e, nel momento in cui si è modernizzato, passando da una società agraria a una società industriale, lo Stato liberale fondato dai protagonisti dell’unificazione nazionale, non ha retto e ha ceduto il passo al primo movimento fascista dell’Europa». Nicola Tranfaglia sintetizza in questi termini il problema della primogenitura del fascismo italiano. Tranfaglia sottolinea anche un altro aspetto importante per riflettere sui tempi lunghi del fascismo, il fatto cioè che «il fascismo ha chiuso in vent’anni la sua parabola non per consunzione interna, ma essenzialmente per un colpo venuto dall’esterno»[5].
Piero Scoppola per spiegare la lunga persistenza di elementi di fascismo nell’Italia del secondo dopoguerra fa riferimento ad una «scia che il fascismo lascia dietro di sé, non solo nelle leggi e nelle istituzioni, ma nella mentalità (il corsivo è mio) degli italiani»[6]. Una recente documentatissima ricerca su prefetti, questori, generali e criminali di guerra, protagonisti del fascismo storico e delle sue guerre, e presenti, spessissimo in posizioni apicali e per lungo tempo, nei quadri della burocrazia militare e civile della Repubblica, ci prova lo spessore e la durata di questa «scia»[7].
Scoppola, non so se consapevolmente, usa un termine, mentalità, che, nonostante la sua ambiguità storiografica[8], ci permette un approccio un poco più rigoroso al problema della molteplicità dei tempi e delle forme del fascismo italiano.
Per definire fenomeni di lunga durata, anche culturali, Fernand Braudel, usa il termine «struttura». Il problema non sta nel considerare o meno «la struttura dal punto di vista marxista»[9], come Immanuel Wallerstein rimprovera al suo maestro nell’ambito di un fruttuoso e aperto colloquio. Nel nostro caso interessa invece il fatto che il peso di un
termine come struttura venga utilizzato per qualsiasi «fenomeno durevole»[10], e che questa struttura durevole possa riguardare anche «sentiments et comportements collectifs»[11]. Nel nostro caso l’analisi della struttura in questione può essere utile ad individuare alcuni meccanismi delle continuità del fascismo dopo il 1945, il suo andamento carsico, le sue persistenze profonde pur nel mutamento di alcune forme, le sue persistenze profonde nel mantenimento di altre forme.
L’analisi della struttura in questione, inoltre, può contribuire a chiarire meglio il quadro, peraltro già abbondantemente tratteggiato, delle ragioni per cui proprio in Italia la crisi dopo la catastrofe 1914-1918 finì per consolidarsi nella forma fascismo.
Nella pubblicistica di questi ultimi anni il fantasma del lungo fascismo, del fascismo carsico, è stato più volte evocato tramite il riferimento alla formulazione gobettiana sulla «autobiografia della nazione». Ciò è significativo di un allarme più che giustificato per qualsiasi intelligenza critica, per qualsiasi intelligenza non servile, avrebbe detto Gobetti.
Tale ricorso può diventare decisamente fuorviante se la formulazione gobettiana viene usata al di fuori di una prospettiva storica. L’aspetto che la rende «attuale», infatti, può portare a confondere una particolare lettura della storia d’Italia, senz’altro datata, con indicazioni euristiche di grande importanza per delineare meglio le caratteristiche di quella struttura di lungo periodo che concerne le problematiche relative alla «mentalità».
Bruno Bongiovanni ha giustamente affermato che «l’autobiografia della nazione» fu «una provocazione militante, una denuncia morale, un moto di insofferenza, una folgorante metafora, un grido “congiunturale” che i tempi, e il regime avevano reso “strutturale”». In questo modo si distingue il contesto della formulazione da meccanismi di lettura della storia d’Italia, del Risorgimento, che Gobetti condivideva con altri intellettuali del suo tempo.
Perché, allora, «con l’autobiografia della nazione, tutti lo avvertiamo, è (…) di noi, e del nostro presente, che si continua instancabilmente a discorrere»[12]?
Con l’autobiografia della nazione si parla di noi, del nostro presente perché:
a) le note de La rivoluzione liberale che sono il contesto argomentativo di tale formulazione mettono in luce aspetti dell’oggi che da tempo parevano scomparsi dal nostro orizzonte. Alla luce di quelle note acquisisce nuovo cromatismo un quadro che eravamo abituati a vedere troppo da vicino e di cui ci erano ormai sfuggite le fughe in profondità. Attraverso una parziale nuova prospettiva (la mentalità) possiamo porre alla storia domande più problematiche sul complesso dei tempi del fascismo italiano.
b) Le note de La rivoluzione liberale ci suggeriscono atteggiamenti politici diversi da quelli ormai consueti, più adatti a tempi di «orrore politico».
La «folgorante metafora» e il suo contesto argomentativo riescono bene a dare conto del fatto che la soluzione fascista alla crisi del dopoguerra affonda certamente le sue radici nel modo in cui la storia d’Italia ha forgiato alcuni aspetti del carattere degli italiani, e che nello stesso tempo tale soluzione non era necessariamente obbligata. Lo sbocco fascista, dirà anche Angelo Tasca, «favorito da tante passività accumulatesi nel corso dei secoli nella penisola non era però fatale»[13]. Renzo De Felice ha notato, a ragione, come le riflessioni di Tasca siano un arricchimento continuo di temi «elaborati e portati avanti dal gruppo gramsciano di cui Tasca aveva fatto parte»[14].
E che la riflessione del gruppo dell’«Ordine Nuovo» su fascismo e storia d’Italia nella crisi del dopoguerra fosse comune anche a Gobetti appare con chiarezza proprio da un interscambiabile approfondimento tematico di cui, per ovvie ragioni cronologiche (i tempi degli assassinii di Gobetti e di Gramsci non coincidono), l’autore de La rivoluzione liberalecondivise nella sostanza solo la fase iniziale.
Interscambiabilità di temi che appare anche in un concetto di «rivoluzione passiva» che dà conto della specificità con cui in Italia si arriva al fascismo. Una «rivoluzione passiva» (ed oggi?) fu il brodo di cultura più adatto alla forma fascista di soluzione della crisi.
Interscambiabilità delle analisi di Tasca, con quelle di Togliatti: il fascismo esprime sì aspetti caratteristici che stanno nella storia d’Italia, ma è legato alla crisi del dopoguerra ed è facilitato dagli errori dei partiti antifascisti, comunisti compresi, che hanno respinto da sé, per settarismo, le masse «gli ex combattenti, gli spostati»[15].
Vi è una concordanza sostanziale tra Gobetti, Gramsci, Tasca, Togliatti (nei tempi diversi e nei diversi contesti e livelli di riflessione) nello stabilire un rapporto tra gli aspetticongiunturali e quelli strutturali del fenomeno di grandissima portata che si trovarono a vivere, a combattere, ad analizzare.
Questo nostro presente, così diverso da quello del fascismo storico, finisce per sollecitare quei meccanismi che in altri tempi hanno dato risposte esiziali alla «crisi della democrazia», quei modelli che si adeguano certo alle nuove circostanze ma che mantengono non irrilevanti aspetti dell’archetipo. Aspetti che, lungi dall’ostacolare i successi politici attuali del «salvinismo», sono un anello importante nella costruzione di un circolo virtuoso tra passato fascista e presente neofascista.
3) La chiave dello sfondamento salviniano in un corpo diventato molle, sta, appunto, nel carattere reso plasmabile di
quel corpo. In questa plasmabilità concorrono sia i percorsi di lungo periodo che i salti di qualità. Il salto di qualità fondamentale nella vicenda italiana è rappresentato dalla magistrale operazione politico-culturale di cui è stato protagonista 25 anni fa Silvio Berlusconi. Giustamente, dal suo punto di vista, Salvini continua a considerare Berlusconi un «grande». Il terreno arato da Berlusconi è quello su cui cresce rigogliosa la pianta Salvini. Ed è il terreno della indistinguibilità tra l’eredità fascista nella sua forma «neo» e la tradizione eversiva illiberale della parte prevalente della classe dominante italiana. Una tradizione, anche questa, di lungo periodo.
Il «New York Times» il 29 aprile 1994 metteva al primo posto tra le notizie dall’estero questa: «Dopo cinquant’anni,
i fascisti tornano al governo in Italia».
Il «New York Times» non considerava il fatto di «ordinaria amministrazione», come invece ha fatto la pubblicistica mainstream italiana ed anche la parte maggioritaria della «sinistra». Se commisurato, però, con le logiche dei tempi lunghi e carsici del fascismo italiano, anche se non di ordinaria amministrazione, il fatto non è inspiegabile. Il fatto, i modi con cui si è imposto, sono una componente fondamentale del berlusconismo, il suo «vizio» o la «virtù» di origine. Comunque il suo immediato disvelamento.
Tutto incominciò nell’autunno del ’93, quando in occasione del ballottaggio Fini-Rutelli, per il comune di Roma, alla
domanda «Se fosse a Roma per chi voterebbe?», Berlusconi rispose senza esitazione alcuna: «Conoscete già le mie
idee, voterei per Fini!».
Nell’autunno del 1993 Fini era fieramente fascista: «Credo ancora nel fascismo, sì, ci credo» (19 agosto 1989); «Nessuno può chiederci abiure della nostra matrice fascista» (5 gennaio 1990).
Ebbene nel turno di ballottaggio Fini raggiunge il 46,9 per cento. Del resto nel primo aveva raggiunto il 35,8 per
cento.
Nell’autunno del 1993 quasi la metà degli elettori romani aveva votato per un fascista non mascherato.
E del resto appena quattro mesi dopo (30 marzo 1994), mentre si sta preparando l’alleanza elettorale nazionale a geometria variabile con Berlusconi e la Lega, Fini dichiarerà nell’ambito di un’intervista a «La Stampa»:
«Mussolini è stato il più grande statista del secolo (…) Ci sono fasi in cui la libertà non è tra i valori preminenti».
«Berlusconi può eguagliarlo?» incalzava i il giornalista. Risposta: «Berlusconi dovrà pedalare per dimostrare di appartenere alla storia come Mussolini». Da allora, con l’aiuto di Fini, Berlusconi ha pedalato molto e certo appartiene alla storia come Mussolini.
Il richiamo senza infingimenti al fascismo storico è, dunque, aspetto costitutivo di un nuovo patto i cui elementi impliciti sono più consistenti di quelli espliciti. Aspettocostitutivo di una fase della storia d’Italia cominciata
venticinque anni fa. Ed il fascismo ha potuto avere tale ruolo fondamentale perché in sostanziale sintonia con aspetti
strutturali di lunga durata.
L’ingresso trionfale nella nuova costituzione materiale di una forza politica che rivendicava l’eredità del fascismo storico, ha rappresentato il rovesciamento di tutti i motivi ispiratori della costituzione firmata il 27 dicembre 1947 dal Presidente dell’Assemblea Costituente Umberto Terracini. In particolare ne è risultata espulsa, nei fatti, l’ispirazione culturale degli azionisti e dei comunisti, considerate le forze più estranee ai motivi di fondo dell’«identità italiana».
La componente erede del fascismo storico si saldava con componenti che le erano in qualche modo contigue: il comunitarismo etnico, e l’autoritarismo aziendale. Parafrasando un lontano libro di Ernst Nolte si potrebbe parlare
de I tre volti del fascismo, o meglio I tre volti del neofascismo.
Il salvinismo non è altro che un cambio di guida: da uno dei volti ad un altro.
In questo contesto il fantasma del fascismo può cominciare ad assumere qualche contorno più definito, non legato soltanto alla riproposizione di immagini apparentemente (solo apparentemente) folkloriche del suo nucleo forte del «ventennio».
4) La letteratura storica professionale sul berlusconismo, quella che sa applicare davvero tutte le possibilità euristiche insite nell’analisi del «presente come storia», ha prodotto studi italiani di rilievo. In alcuni non mancano riferimenti al problema in oggetto, che però, nella sostanza, restano a margine. È il libro di un professore dell’Università di Lucerna ad affrontare la questione nel suo complesso. Il volume, edito in Germania nel 2010[16], è stato presto tradotto in italiano ed è uscito per Garzanti nel novembre 2011. Mentre in Italia il libro ha avuto scarsa risonanza nella pubblicistica «autorevole», in Germania e in Svizzera è stato ampiamente discusso.
Nel generale apprezzamento per una ricerca rigorosa e documentatissima sono emersi giudizi durissimi sulla compenetrazione tra l’eredità del fascismo storico ed un ceto di governo che la assumeva al proprio interno senza alcuna esitazione. Giudizi durissimi su un’Italia che in questo modo «sembra marcire» (Italien zu verrotten scheint) [17]. Su un’Italia che accettava senza reazioni di rilievo il fatto che una ministra e sottosegretaria alla Presidenza del Consiglio durante una manifestazione ufficiale dell’Arma dei Carabinieri a Lecco nel giugno 2009, concluso l’inno nazionale, avesse alzato il braccio destro nel saluto romano. Una ministra espressione non del neofascismo dichiarato, conclamato di Alleanza Nazionale, neofascismo che i ministri di quel partito, del resto, rivendicavano in ogni occasione anche istituzionale, ma della berlusconiana Forza Italia. La foto che la ritrae nel saluto fascista di fianco ad un generale dei carabinieri è stata così commentata da Daniel Krause: «Occasionalmente la miseria di un paese è condensata in una faccia (Gelegentlich verdichtet sich das Elend eines Landes in einem Gesicht)[18]..
Si potrebbe considerare un’altra faccia, quella di Alessandra Mussolini, come un vero proprio paradigma di quell’insieme magmatico in cui sin dagli anni Novanta del Novecento si vanno omegeneizzando eredità del fascismo storico, neofascismo, e tradizionale «comprensione» della destra conservatrice italiana nei confronti del
ventennio mussoliniano. Ebbene la signora Mussolini senza possibilità di sbocchi in una carriera d’attrice per la quale, come mostrano le sue poche prove, non era assolutamente portata, nella logica dell’imprenditrice di se stessa mette sul mercato politico la sua persona come nipote del Duce ed il suo evocativo cognome. L’allure del cognome ha un particolare successo, trasforma un’improvvisata politica boccalona (mi scuso del toscanismo, ma rende perfettamente icastici i modi dell’eloquio della signora. «Sguaiata», «volgare»: Dizionari Treccani e Battaglia), in una protagonista di lungo corso. Ovviamente senza che lo stile boccalone subisca mutamenti. Nel 1993, candidata proveniente dal partito neofascista e sostenuta da tutti i tre volti ebbe un successo nella tornata elettorale per sindaco di Napoli, paragonabile a quello contemporaneo di Fini a Roma. Gli effetti politici della «banalizzazione», come si vede non sono opera recente del salvinismo.
Una banalizzazione del tutto estranea a scrupolosa acribia storico-critica. Aram Mattioli sottolinea che quest’Italia non ha una cultura del ricordo basata su cultura scientifica (In Italien fehlt eine auf wissenschaftlichen Erkenntnissen abgestützte Erinnerungskultur)[19].
La banalizzazione, nel periodo di Berlusconi, è legata soprattutto a schiere di giornalisti che nei suoi media, nei talkshow, nelle serie tv, evocano un fascismo paternalistico e perfino un «colonialismo dal volto umano», all’italiana; a libri senza alcun valore scientifico. Si pensi, come esempio indicativo, agli scritti di Giampaolo Pansa, in particolare
al suo bestseller del 2003, Il sangue dei vinti, definito da Mattioli «semi-immaginario» (halb fiktionalen)[20], e, sulla «Neue Zürcher Zeintung», puramente «sensazionalistico» (reisserischen)[21].
Un contesto frutto di percorsi che non iniziano con Berlusconi ma che trovano nel berlusconismo un terreno particolarmente adatto perché il seme dia frutti copiosi.
5) L’attuale salvinismo non è semplicemente il frutto di questo contesto. Il suo partito ne è stato una delle principali forze costituenti, sia al governo centrale in tutti gli esecutivi Berlusconi, sia al governo locale, sempre con Forza Italia. Su tale base ormai consolidata Salvini può fare il fascista usando consapevolmente pose e fraseologie mussoliniane. Interessa poco usare il fascistometro per misurare il grado di convinzione neofascista delCapitano (del Dux), interessa invece constatare, è un fatto, che per lui il continuo riferimento al Duce rappresenta la normalità dell’acquisizione di un vasto mercato elettorale. Il paradigma della boccalona Alessandra Mussolini, cui pensa di offrire un posto di rilievo nelle proprie liste (europee o addirittura candidatura alla presidenza della ragione
Campania), ne esce compiutamente confermato.
C’è di più, come ha argomentato un serio studioso del pensiero economico, Luca Michelini, tramite quell’eredità egli sviluppa una delle caratteristiche più pregnanti: il «razzismo politico». Un razzismo non basato, cioè, su discriminanti biologiche, bensì su discriminanti politiche. E tra il numero assai ampio di discriminazioni continuamente inserite nella narrazione salviniana c’è quella oggi particolarmente pericolosa, una narrazione tipica degli anni Venti del Novecento, tra «veri» italiani ed italiani «nemici» dell’Italia. Il recente «assedio» di Forza Nuova alla sede nazionale dell’Anpi, i cui aderenti sono stati additati come «nemici dell’Italia», è solo folklore?
«Prima di arrivare alla codificazione legislativa di politiche razziste e discriminatorie, la discriminazione ha cercato la via più semplice: farsi propaganda, titolo di giornale, intervista; poi farsi cemento ideologico di partito; in seguito farsi provvedimento amministrativo apparentemente indolore per la cornice legislativa che lo contiene; poi diventare provvedimento di ordine pubblico, così da criminalizzare il gruppo da discriminare; infine, quando le coscienze sono state abituate alla discriminazione, quando le voci discordi sono rese minoritarie, quando appare politicamente corretto e condiviso (…), il razzismo diventa codice, legge, organizzazione»[22].
Una realtà talmente pervasiva che combatterla semplicemente contrapponendo il «fascismo» di Salvini all’«antifascismo» dei suoi oppositori è del tutto inutile, anzi controproducente.
Bisogna tornare alle radici dello scollamento avvenuto tra sinistra e il suo popolo. La ex sinistra che ha seminato a piene mani il neoliberismo ne sta raccogliendo frutti amarissimi. Le sue responsabilità storiche sono davvero enormi.
NOTE
[1] «La Stampa» 1 aprile 1994.
[2] E. Gentile, Il fascismo in tre capitoli, Bari, Laterza, 2006.
[3] R. Darnton, La dentiera di Washington. Considerazioni critiche a proposito di Illuminismo e modernità, Donzelli, Roma, 1997. Le cit. pp. 4 e 5.
[4] Z. Sternhell, La destra rivoluzionaria. Le origini francesi del fascismo 1885-1914, Milano, Corbaccio, 1997, Idem, Nascita dell’ideologia fascista, Milano, Baldini Castoldi Dalai, 2002.
[5] N. Tranfaglia, Un passato scomodo. Fascismo e postfascismo, Bari, Laterza, 1996, pp. 7, 8.
[6] P. Scoppola, La repubblica dei partiti, Il Mulino, Bologna, 1991, p. 72.
[7] D. Conti, Gli uomini di Mussolini, Torino, Einaudi, 2017.
[8] «Ci si chiede se il termine corrisponde ad una realtà scientifica, se implica una coerenza concettuale, se è epistemologicamente operativo». J. Le Goff, La “mentalità” una storia ambigua, in Fare storia. Temi e metodi della
nuova storiografia, a cura di J. Le Goff e P. Nora, pp. 239-258. La cit. p. 239.
[9] Intervento di I. Wallerstein, in F. Braudel, Una lezione di storia, Torino, Einaudi, 1988, p. 137.
[10] Intervento di F. Braudel, ivi, p. 138.
[11] Entretien avec Jean Delumeau, in L’histoire aujourd’hui, Auxerre, Editions Sciences Humaines, i999, p.299.
[12] B. Bongiovanni, L’autobiografia della nazione, in Cent’anni. Piero Gobetti nella storia d’Italia, a cura di V. Pazé, Milano, FrancoAngeli, 2004, pp. 174-185. Le cit. p. 185.
[13] A. Tasca, Nascita e avvento del fascismo, Bari, Laterza, 1965, p. 4.
[14] R. De Felice, Premessa, ivi, p. XIV.
[15] P. Togliatti, Corso sugli avversari, in Idem, Opere, Vol. III, tomo II, Roma, Editori Riuniti, 1973, pp. 533- 671. La cit. p. 537.
[16] A. Mattioli, »Viva Mussolini«: Die Aufwertung des Faschismus im Italien Berlusconis, Paderborn, Schöningh Verlag, 2010.
[17] D. Krause, «Literaturkritik.de», 5 Mai 2010
[18] Ivi.
[19] A. Mattioli, »Viva Mussolini«:…, cit., p. 150.
[20] Ivi, p. 95.
[21] F. Haas, Der herzensgute Massenmörder Mussolini, «NZZ Digital», 5 Mai 2010.
[22] L. Michelini, «il manifesto», 7 6 2018
Paolo Favilli
19/12/2018 www.rifondazione.it
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