Fase 2?
Con il diffondersi degli effetti della pandemia appaiono sempre più evidenti le conseguenze negative della mancata, tempestiva, adozione di un approccio precauzionale, in linea peraltro con le prescrizioni (articolo 191) del Trattato di Funzionamento dell’Unione Europea, trattato costituzionale dell’Unione Europea, come si è già ricordato sul Menabò. Poco o nulla si è fatto, prima che la pandemia si manifestasse, malgrado molti dessero per certo che si sarebbe manifestata, per prepararsi ad affrontarla nel migliore dei modi. Ciò vale per il mondo intero, non solo per il nostro paese e ci si può chiedere perché poco seguito abbiano avuto atteggiamenti come quello che assunse un presidente degli Stati Uniti, per altro oggetto di molte critiche e per varie ragioni, allorché nel 2005 – dunque ben prima di Bill Gates – ammoniva contro i rischi di una pandemia influenzale e stanziava diversi miliardi. Quel presidente era G.W. Bush.
E poco e tardi si è fatto allorché è divenuto chiaro che la pandemia si stava diffondendo e in Italia stava devastando le province più ricche, quelle che avevano saputo reagire alla crisi del 2008-2009 conquistando nuove quote nel mercato internazionale. In una sorta di contrappasso dantesco queste province stanno pagando un inaudito tributo in termini di vite umane e di malati, probabilmente ben superiore a quello ufficiale. Misure che non era difficile considerare urgenti e necessarie – e tali sarebbero state di certo considerate se si fosse utilizzata la precauzione per delineare in anticipo un piano di interventi – sono state introdotte in ritardo, parzialmente e con modalità che ne hanno limitato l’efficacia. Dopo un mese di lockdown il 14 aprile registravamo oltre 3.000 nuovi contagiati e 566 morti, che portano questa sinistra contabilità quasi 160 mila casi di COVID-19 e 20.465 decessi, con il tasso di letalità più elevato al mondo.
Tali misure non consistono soltanto nel lockdown, che peraltro è necessario come dimostrano i paesi che hanno vagheggiato la possibilità di lasciar fare il suo corso al virus per ottenere la cosiddetta immunità di gregge, senza farmaci specifici né tanto meno un vaccino. Dal Regno Unito agli Stati Uniti, dall’Olanda alla Svezia, tutti oggi fanno i conti con l’insostenibilità di una strategia che scommette tutto in un colpo solo contro la Natura. Oltre al lockdown occorrono mascherine, ventilatori e molto altro, eventualmente attrezzandosi per produrli. Se paesi diversi in continenti diversi, come Germania, Grecia, Corea, Giappone, Singapore, Taiwan, Canada, Australia, Nuova Zelanda, Israele, Austria ecc. presentano un bilancio ufficiale di morti e di contagiati migliore del nostro, la ragione è (anche al di là di eventuali incomparabilità dei dati) che probabilmente erano preparati meglio e hanno saputo adottare tempestivamente varie misure di contenimento dell’epidemia.
Al di là delle responsabilità di organi o individui, sarebbe molto grave se queste deficienze si presentassero anche nella fase di cosiddetta ri-partenza, che speriamo sia vicina, la quale presenta molteplici aspetti problematici che legittimano diverse preoccupazioni e che richiedono, per essere allontanate, competenze, risorse, capacità di decisione e propensione alla cooperazione che non lascino alcun dubbio sulla loro adeguatezza.
Le preoccupazioni riguardano in primo luogo i modelli utilizzati per predire la fine dell’emergenza acuta della fase di lockdown. Esperti di diverse discipline hanno presentato modelli epidemiologici e curve statistiche che dovrebbero guidarci in questa predizione. Purtroppo nessuno di questi modelli concorda con l’altro e non è neanche possibile aggregarli per individuare qualche forma di tendenza, tipo media, mediana o altro, perché sono incomparabili e così ambigui, cioè strutturalmente e scientificamente incerti, da essere poco più di esercizi. Nel caso della pandemia di CoVid-19 gli unici dati apparentemente attendibili sono quelli della Corea del Sud secondo cui il tasso di letalità è di 1,4% per gli uomini e 0,8% per le donne, in una proporzione di contagi di 3 a 2.
Forse è opportuno ricordare che gli assessment reports sul riscaldamento globale dell’International Panel on Climate Change (IPCC) sono costruiti su migliaia di articoli scientifici e decine se non centinaia di modelli che non possono essere aggregati. Per questo nel 5° Rapporto sul clima, l’IPCC usa giudizi qualitativi e intervalli di probabilità. E ancora, il comitato scientifico del rapporto annuale sulle malattie prioritarie, il Research and Development Blueprint dell’OMS, fa riferimento a procedure Delphi e all’analisi multicriteriale gerarchica per definire le malattie prioritarie. Avere la certezza che si tenga conto di questi problemi e si dia loro una soluzione appropriata servirebbe ad alleviare le preoccupazioni.
La seconda preoccupazione nasce dalla mancanza di alcune competenze nelle unità di crisi. Certamente sono indispensabili virologi, epidemiologi e biologi, ma ci aspetteremmo che in quelle unità figurino anche teorici delle decisioni o dei giochi, cioè esperti che sappiano disegnare i possibili scenari futuri e valutarne le conseguenze, pur in presenza di probabilità imprecise sul loro realizzarsi. In Lombardia e Veneto vi sono dipartimenti universitari con esperti eccellenti a livello mondiale in questo ambito, ma non risulta che alcuno di loro sia stato chiamato dalle loro regioni – o dal governo – per operare nelle war-room.
La terza preoccupazione riguarda la capacità di fare fronte a una carenza già abbondantemente palesatasi dalla cui soluzione dipende la possibilità di una ri-partenza senza danni per la salute di molti. Ancora il 5 aprile la presidente dell’associazione mondiale dei medici virologi, presumiamo il top della competenza sul tema, ha riaffermato che le mascherine, e non quelle chirurgiche, sono indispensabili per tutti per l’uscita dal lockdown. A un mese e mezzo di distanza dall’inizio dell’emergenza in Italia non si producono mascherine di protezione a norma, né ventilatori polmonari per le Unità di Terapia Intensiva. Uno sguardo a quel che accade nel resto del mondo è sufficiente per valutare la debolezza della nostra posizione e per individuare la strada da imboccare per alleggerire le nostre preoccupazioni.
La Skoda nella Repubblica Ceca produce ventilatori polmonari, la Ford in Turchia ha iniziato a produrre ventilatori polmonari, principalmente per la Germania. La sezione corse di F1 della Mercedes in collaborazione con l’UCL ha avviato la produzione di un dispositivo detto CPAP (Continuous Positive Airway Pressure) che permette di ossigenare i pazienti gravi e prevede di aumentare la produzione da 600 a 1.000 al giorno. Gli ingegneri della Mercedes hanno trasformato macchinari che in origine producevano pistoni e turbocompressori e con poche ore di lavoro (100) hanno prodotto il prototipo e poi elaborato una vera e propria linea di produzione di respiratori.
In Italia abbiamo il top dell’automotive: Ferrari, Lamborghini, Maserati, FCA, Ducati, Piaggio, Marelli, Brembo e crediamo che non avrebbero difficoltà a fare almeno altrettanto. Allo stesso modo abbiamo politecnici tra i migliori del mondo, ENI, Leonardo, Avio, Alenia, Ansaldo, il medicale leader nel mondo. Ma se non riusciamo a produrre mascherine ffp2 e ffp3, né quelle con i filtri a valvola che pure costano pochi centesimi di euro e hanno una tecnologia primitiva, né quelle in “tessuto non tessuto”, è evidente che qualcosa non sta funzionando. Come se non bastasse, facciamo fatica ad acquistare sul mercato con le procedure che passano per la Consip, elefante in una cristalleria, e ne faremo sempre di più vista la concorrenza mondiale, la strozzatura nell’offerta e le temute restrizioni all’export dei partner commerciali (i maggiori produttori sono Cina, Germania e Usa). Le conseguenze sono evidenti: le mascherine scarseggiano, hanno prezzi proibitivi, il loro uso è contingentato anche per quegli operatori che pure dovrebbero farne un uso costante (conducenti dei mezzi pubblici, addetti alle pulizie, addetti alla distribuzione alimentare ecc.) e soprattutto, laddove riutilizzate, è arduo credere che vengano eseguite le sterilizzazioni prescritte.
La quarta preoccupazione riguarda i test sierologici, per la rilevazione delle igm e delle igg, che varie regioni stanno per avviare con il dichiarato obiettivo di accertare se singoli individui sono immuni dal COVID-19. I motivi della preoccupazione sono soprattutto quelli contenuti in una intervista a Paolo Vineis dell’Imperial College di Londra: “…i test sierologici sono imperfetti: misurano solo alcune classi di anticorpi, hanno apparentemente bassa sensibilità e specificità – cioè molti falsi positivi e falsi negativi – non sappiamo quanto a lungo perduri l’immunità e quanto sia forte la protezione. Dunque siamo lontani da ‘patenti di immunità’”. La questione più rilevante è che un risultato positivo non è garanzia di immunità. Inoltre, per effettuare confronti e valutazioni attendibili anche soltanto a fini statistici, sarebbe necessario che le varie regioni adottassero lo stesso tipo di test.
È di questi giorni la notizia che la Bosch, cooperando con la Randox Laboratories (RU), ha messo a punto Vicaltyc, un tampone rapido che in due ore e mezza e con un’affidabilità al 95% è in grado di individuare i positivi al CoVid-19. Si tratta di un test rapido che, con un solo apparecchio che può usare chiunque, può eseguire fino a dieci test nell’arco di 24 ore e potrebbe rappresentare un complemento ai test standard. La Germania riesce a eseguire centinaia di migliaia di test a settimana, ma anche con quella capacità, che difficilmente avremo, ci vorrebbero più di due anni per testare l’intera popolazione.
Ricapitolando, se il fine di questi test è cercare di stimare, attraverso un campione sufficientemente numeroso e ben fatto, un numero affidabile di contagiati, che riconduca a valori credibili il tasso di fatalità e disegni uno scenario verosimile della diffusione dell’epidemia nel paese non vi è nulla di cui preoccuparsi, ma se con questi test si vuole stabilire chi può avere il lasciapassare per il ritorno a uno stile di vita non-pandemico e chi no, allora le preoccupazioni ci sono e riguardano il rischio di ripiombare nel pieno di un’epidemia.
Peraltro, le stime dei contagiati vanno da alcune centinaia di migliaia ad alcuni milioni di soggetti, ma anche in questo caso estremo sarebbero comunque troppo pochi per la cosiddetta immunità di gregge, che richiederebbe percentuali molto più alte di contagi e, purtroppo, di decessi. Tutto questo non è, naturalmente, senza effetti sulle misure di precauzione e contenimento da adottare nell’avvio della cosiddetta fase 2.
In conclusione, ci auguriamo che competenze, risorse, capacità di valutazione e di decisione nonché spirito di cooperazione saranno quelli richiesti per disperdere le preoccupazioni e rendere sano e sicuro il percorso che conduce alla nuova normalità.
Marcello Basili, Maurizio Franzini
15/4/2020 https://www.eticaeconomia.it/
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