Congresso CGIL. “Fate rumore e siate la voce di chi non ce l’ha”

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Negli ultimi numeri abbiamo già analizzato gli interni del congresso CGIL che si terrà nei prossimi giorni, siamo al dunque: cosa dirà, per fare cosa?

Partiamo da una constatazione, le organizzazioni confederali hanno, chi più (CISL) chi meno (UIL) chi con i piedi di piombo (CGIL) hanno scelto finora nei confronti dei gravi passi del governo un atteggiamento attendista, rinunciando a qualsiasi azione e ancor meno al coinvolgimento delle lavoratrici e dei lavoratori, che continuano a trovarsi impotenti di fronte ad aziende che delocalizzano con estrema discrezionalità, ad altre che aumentano i ritmi di lavoro nelle forme di ricatto e conseguente schiavismo in termini di orario e di carichi di lavoro, con ricadute sulla salute e sulla stessa vita, di salari bloccati e sempre più decurtati dal costo della vita.

Queste sono le emergenze che il sindacato dovrebbe affrontare? Certo, è il loro mestiere, la stessa ragion di esistere, coperto dai milioni di euro che entrano nelle loro casse con l’automatismo delle tessere. A meno che non sia in atto una trasformazione della loro storica ragione sociale in organismo di assistenza varia ed eventuale. L’offensiva padronale, strettamente coniugata con quella governativa, da decenni, ora trova con il governo dell’estrema destra un’accellerazione, con la repressione di ogni elementare diritto, della funesta Agenda Draghi.

Parliamo di quella“Agenda” che rappresenta la Bibbia del neoliberismo spinto e che il governo Meloni, fatto nascere dentro quei principi, ha il compito di portare a compimento dopo il percorso tracciato dal governo Draghi. Ecco il sunto:

  • Fine dell’obbligo Costituzionale che impone allo Stato di promuovere la piena occupazione. è il libero mercato che deve stabilire regole da tradurre in leggi dello Stato
  • Nelle dinamiche del mercato lo Stato deve evitare ogni ingerenza nelle relazioni tra capitale e lavoro perchè crea intralci agli imprenditori
  • Le regole contrattuali devono essere estremamente flessibili. Il lavoro è un ambito come altri e solo il mercato deve stabilire il suo prezzo, senza essere oggetto contrattuale di tutele che alterano i prezzi dalla libera concorrenza
  • La spesa pubblica è per natura inefficiente e toglie spazio all’iniziativa privata. Le politiche economiche devono essere determinate soltanto dal capitale in modo da favorire il contenimento degli oneri fiscali gli imprenditori.
  • Attuare illimitatamente i principi del neoliberalismo, così come hanno fatto la Thatcher e Reagan (“lo Stato non è la soluzione dei problemi, lo Stato è il problema”).

Questa Bibbia per essere introietta con le sue parole d’ordine dalla massa dei meno abbienti è stata irradiata da quarant’anni e oggi la strada è in veloce discesa per la barbarie politica.

Crediamo che la CGIL sottovaluti la pericolosita, per la stessa democrazia formale, di questo stato di cose, così come ha sottovalutato (eccetto la categoria FLC) da quattro anni il percorso secessionista dell’Autonomia Differenziata. Solo da qualche settimana se ne accorta ma non prende la bestia secessiva dalle corna con uno sciopero generale. vincolante per uno stop al governo.

A questo stato di cose è chiamato a rispondere il congresso della Cgil, per uscire da una lunga fase d’impotenza che ha contribuito a creare sfiducia e depressione nel popolo maltrattato.

Si spera che Landini ricordi le parole del Papa, che lo ha invitato a muoversi, per dare voce a chi negli ultimi tre decenni è stato messo il sasso in bocca. E si spera che non venga “preso” dalla verve parolaia della Schlein.

Redazione LavoroeSalute


QUESTO LAVORO CARNIVORO

Straordinari non retribuiti per un lavoratore su sei. Ma è la punta dell’iceberg: metà degli occupati lavora in orari antisociali.

Roma, 10 febbraio 2023 – Un lavoratore dipendente su sei (15,9%) fa straordinari non retribuiti. Un dato preoccupante, se consideriamo che gli straordinari interessano sei occupati su dieci (60%), in maggioranza uomini (64,7% contro il 54,1% delle donne). Le motivazioni sono di vario tipo: nella maggior parte dei casi (51,2%) per carichi di lavoro eccessivi o carenza di personale, nel 18,4% per guadagnare di più. C’è poi un 8,1% che dichiara di non potersi rifiutare.

È uno dei fenomeni rilevati dall’indagine INAPP PLUS (Participation, Labour, Unemployment Survey), che ha coinvolto 45.000 individui dai 18 ai 74 anni e si è conclusa nel 2022, il cui Rapporto finale verrà presentato prossimamente nella sede dell’Istituto.

Il problema degli straordinari, tuttavia, si inscrive nel più generale tema della regolazione dei tempi di vita e di lavoro che vedono emergere un dato allarmante: circa la metà degli occupati svolge la propria attività in orari che si potrebbero definire antisociali. Nello specifico, il 18,6% dei dipendenti lavora sia di notte che nei festivi (circa 3,2 milioni di persone), il 9,1% anche il sabato e i festivi (ma non la notte), mentre il 19,3% anche la notte (ma non di sabato o festivi). Gli uomini sperimentano di più sia il solo lavoro notturno, sia quello svolto sia di notte che nei festivi; le donne, invece sono impegnate più il sabato o nei festivi.

“Spesso la domanda di lavoro richiede disponibilità che confliggono con le esigenze di vita – ha dichiarato il professor Sebastiano Fadda, presidente dell’Inapp – È vero che per alcuni settori economici, come il commercio o la sanità, e per alcune professioni, come quelle dei servizi, il lavoro notturno o nei festivi è connaturato alla natura della prestazione, ma è anche vero che questa modalità sembra diffondersi anche dove non è strettamente necessaria. È urgente avviare una seria riflessione sull’organizzazione e articolazione del tempo di lavoro, ma anche sulla sua quantità e distribuzione”.

E c’è anche chi sta peggio. Sono quei lavoratori che sperimentano allo stesso tempo sia un orario ridotto, non per scelta, sia la presenza di orari antisociali. Si tratta di circa 900mila dipendenti che, oltre ad avere un part time involontario, svolgono la propria attività la notte o nei festivi (quasi il 52% di chi ha un part time involontario e oltre il 27% sul totale degli occupati part time). E si pensi che a questi lavoratori subordinati vanno aggiunti molti lavoratori autonomi i cui i tempi di lavoro sono molto impegnativi perché legati all’esigenza della clientela. Un modo di lavorare che è particolarmente oneroso soprattutto per coloro che devono far fronte a carichi di cura, perché si concentra in momenti in cui non sono disponibili i servizi e, comunque, in generale costituisce uno sfasamento rispetto agli orari diffusi tra la maggioranza della popolazione.

“Mentre altrove si discute, e si avviano sperimentazioni, di orario ridotto o settimana corta – ha puntualizzato Fadda – nel nostro Paese restano ancora da superare vecchi modelli di organizzazione del lavoro che incidono pesantemente sui tempi di vita. Il mondo del lavoro è sempre più digitale, veloce, in costante evoluzione, ma per gran parte dei lavoratori “tradizionali” si presentano problemi ancora irrisolti sul piano della distribuzione degli orari di lavoro. La permanenza di usi e abitudini del passato prevale spesso sulla capacità di trovare soluzioni organizzative equilibrate, sia in termini di turnazione ove necessario, sia in termini di alleggerimento del peso dei vincoli di orario in generale, che consentano un bilanciamento sostenibile tra vita di lavoro e vita privata-sociale nella prospettiva del “lavoro dignitoso”. Eppure, la combinazione di nuove tecnologie, elevate competenze e appropriati modelli organizzativi dovrebbe generare livelli di produttività che non rendano necessari tempi di lavoro “disumani”, ma garantiscano occupazioni di qualità: ben retribuite, tutelate, ad alta produttività”.

Del resto, sempre secondo il Rapporto, una certa rigidità si registra anche sul fronte dei permessi: il 21,3% degli occupati (circa 4,7 milioni) dichiara di non poter o non volere prendere permessi per motivi personali, il 54,8% può prenderli e il restante 23,9% può modulare l’impegno lavorativo. Gli uomini hanno una maggiore autonomia, mentre per le donne si evidenzia la pressione di un contesto che disincentiva l’uso dei permessi. E sono soprattutto gli autonomi che svolgono la propria attività in condizione di para-subordinazione a dichiarare che nei propri contesti di lavoro o non sono previsti permessi o che non è ben visto prenderli.

C’è poi l’altro lato della medaglia, quello della consistente quota di sottoccupati, ovvero di occupati che vorrebbero lavorare un maggior numero di ore rispetto a quelle effettivamente svolte. Questa sottoccupazione è più presente tra le donne – anche per la maggiore concentrazione della componente femminile nel part-time – tra i lavoratori con bassi titoli di studio, tra i residenti nel Nord-Ovest e del Sud e Isole e per chi svolge la propria attività in aziende di piccole dimensioni.

Per maggiori informazioni:
Giancarlo Salemi
Portavoce Presidente INAPP (347 6312823)

stampa@inapp.org (link sends e-mail)


LAVORI DA INCUBO O L’INCUBO DEL NON LAVORO?

Diminuisce il numero medio di giornate retribuite e aumentano fortemente le posizioni in somministrazione (+4,8% in termini congiunturali e +20,8% su base annua), “confermando la diffusione del ricorso a questa tipologia occupazionale nel periodo di rientro dalla fase più acuta della pandemia”.
Prosegue nel primo trimestre 2022, e per il quarto trimestre consecutivo, “a ritmi più intensi l’aumento del numero di lavoratori intermittenti (+97 mila unità, +83,0% rispetto al primo trimestre 2021”.
I lavoratori a chiamata svolgono in media ben 10,1 giornate retribuite al mese (erano 10,3 giornate un anno prima) e sono stati utilizzati ben oltre i soli settore del turismo, dello spettacolo e dei pubblici servizi.
Il 33,3% delle posizioni lavorative attivate a tempo determinato ha una durata prevista fino a 30 giorni, il 9,2% un solo giorno, il 27,5% da due a sei mesi, e l’1,0% supera un anno.
Aumenta l’incidenza “sul totale delle attivazioni dei contratti di brevissima durata (19,7% fino a una settimana, +2,9 punti in più rispetto al primo trimestre 2021)”.

Dati che non considera l’abuso schoavostocp dei lavoratori stagionali. Media di diati risultanti dalle ultime statistiche ISTA.

A cosa d’altro canto dovevano servire le norme capestro sul lavoro precario, interinale, somministrato, approvate dai governi Berlusconi, Renzi, Draghi?

L’impresa che si avvale dei contratti di somministrazione, grazie ai decreti attuativi del jobs-act, non è nemmeno più tenuta a giustificare l’instaurazione di questi tipi di rapporto di lavoro. E ricordiamo che il governo Draghi ha approvato una norma che deresponsabilizza l’impresa rispetto al pagamento delle retribuzioni, qualora l’agenzia, che le affitta i lavoratori, non voglia o possa farsene carico.
Non più dipendenti produttivi ma in dipendenza variegata delle imprese; lo teorizzò, anzi lo lo indicò programmaticamente al sindacato e alla politica la Confindustria a metà del lo scorso decennio“l’antica partizione fra autonomia e subordinazione è destinata a diventare sempre meno netta”, in parole povere: i lavoratori come soggetti “collaboratori”, “soci”, addirittura “imprenditori di se stessi”, dentro società o cooperative più o meno improvvisate, con partite-Iva, che scaricano i costi sui propri simili che continuano a fare lavoro sfruttato, nei luoghi fisici e anche dentro piattaforme digitali che rendono informali l’attività e la vita, contesti di lavoro precario e senza contrattazione ma prestati a chi formalmente non è il datore di lavoro e perennemente sul baratro dell’esclusione dall’attività lavorativa. Alla fino dei conti questi sono i cosiddetti “soci” o “collaboratori” assistono soli e impotenti all’assottigliamento di salari e tutele, senza saper individuare la controparte alla quale addebitare l’ingiustizia subita.

Questa è la società futura che si stà materialmente sperimentando da decenni e che il Jpbs-Act del governo Renzi ha strutturato come inizio di un processo di ristrutturazione del capitale, alle prese della digitalizzazione e finanziarizzazione, per strutturare nuove forme di dipendenza assoluta della valorizzazione del valore prevedendo le forme per disinnescare ogni possibile forma di lotta di classe.

Ecco la realtà in cammino che tutti i narratori dell’informazione dipendente dal capitale (quasi tutto l’arco editoriale) nascondono sotto il tappeto della politica dominante: il lavoro ridotto sempre più, e in prospettiva completamente, a prestazione a carattere discontinuo secondo le richieste dell’impresa, che non se ne assume in alcun modo la responsabilità in termini di retribuzioni, tutele e diritti.
Che il lavoratore si arrangi. Il mercato offre forme di welfare privato: se lo vuoi, te lo paghi. Se non vuoi, crepa, tanto nessuno ti vede. Ovvero, schiavitù.

Da questo fosco quadro sorge ingemuamente la domanda epocale ai sindacati confederali, in aprticolare alla CGIL: Che fare?

Redazione Lavoro e Salute


LA SCIAGURA DEI LAVORI A DISTANZA

La gig economy porta sconquassi al mondo del lavoro. Un altro tipo di invasione è quella a cui è soggetto il mercato del lavoro, dove, anche come conseguenza alla pandemia di Covid, il lavoro a distanza ed erogato attraverso piattaforme online è sempre più diffuso. Gli inglesi la chiamano “gig economy”. Riccardo Lo Bue scrive dello studio The Hidden Inequalities of Digitalisation in the Post-Pandemic Context, pubblicato dal think tank Bruegel, secondo cui il lockdown durante la pandemia di COVID-19 ha accelerato il drastico cambiamento delle condizioni del mercato del lavoro, in particolare per il numero crescente di lavoratori che offrono servizi attraverso le piattaforme online e lavorano a distanza. Questa invasione di nuove modalità lavorative ha modificato le condizioni dei lavoratori andando anche oltre la perdita di posti di lavoro, con l’aumento di modalità di impiego non strutturate attraverso contratti standard e una diminuzione del welfare.

Da una parte si assiste all’aumento delle categorie di lavoratori non protetti, con contratti atipici che tutelano in maniera insufficiente diritti, salute e sicurezza sul lavoro. Dall’altra, il lavoro a distanza può comportare comunque problemi, legati all’isolamento e alla perdita delle reti sociali, che modificano anche le dinamiche del mercato indebolendo i lavoratori meno qualificati.

Una delle prime strategie suggerite nello studio è occuparsi dell’aggiornamento dei lavoratori in campo digitale, che risulta fondamentale per mantenere la competitività nel mercato del lavoro attuale; bisogna anche aggiornare le forme di tutela dei lavoratori, provvedendo a garantire una protezione sociale contro la disoccupazione e la fluttuazione del reddito caratteristica di alcune occupazioni atipiche. Inoltre bisogna pensare ad attività di prevenzione, che riguardino la salute anche mentale dei lavoratori. (Redazione)

Con la pandemia, il lavoro a distanza ha conosciuto una accelerazione, e in qualche modo è stato sdoganato come la nuova normalità. Tuttavia, la crescita dei lavori erogati attraverso piattaforme digitali e di altre forme di lavoro alternativo è solo il sintomo di una trasformazione molto più profonda e duratura dei modelli di lavoro, che è iniziata molto prima della pandemia. La rivoluzione digitale ha infatti modificato radicalmente la struttura dell’impiego e delle competenze richieste, con conseguenze ancora poco note sulle condizioni dei lavoratori e sulla loro salute mentale.

Questo è quanto emerge dallo studio The Hidden Inequalities of Digitalisation in the Post-Pandemic Context pubblicato dal think tank Bruegel.

Il lavoro digitale porta con sé una maggiore precarizzazione

Il lavoro allocato attraverso piattaforme online, pensiamo per esempio alle consegne a domicilio o all’erogazione di altri servizi, noto anche come crowd-employment, si inserisce nel recente contesto della trasformazione digitale e dell’automazione. Nonostante questi tipi di lavoro siano relativamente nuovi, possono essere raggruppati sotto la categoria di lavoro non-standard (non-standard work NSW), che include i lavoratori autonomi, i contratti a tempo determinato e il lavoro part-time.

Il lavoro non-standard è aumentato notevolmente in Europa almeno dal 1995, una tendenza che si è verificata insieme a una chiara polarizzazione del mercato del lavoro, con il declino dei lavori di media qualificazione e l’aumento sia dei lavori altamente qualificati sia di quelli poco qualificati.

Sebbene i lavoratori che offrono prestazioni attraverso piattaforme online presentino alcune peculiarità, si inseriscono nell’ambito di una tendenza più ampia verso la precarizzazione del lavoro; in particolare quelli impegnati con più piattaforme hanno accordi contrattuali con più parti, il che rende difficile identificare chi sia il loro datore di lavoro sia ai fini della contrattazione collettiva sia del rispetto degli obblighi in materia di salute e sicurezza sul lavoro.

La crescita del lavoro digitale a distanza, causata dalla pandemia, ha contribuito in parte ad accentuare tre tendenze: a livello globale la maggior parte dei lavoratori delle piattaforme online si concentra in Nord America, Europa e Asia meridionale; una seconda polarizzazione si osserva tra aree rurali e aree urbane, in queste ultime si concentra la maggior parte dei lavoratori delle piattaforme online; infine, c’è una chiara polarizzazione delle competenze: i lavoratori che possiedono competenze molto richieste guadagnano più degli altri lavoratori, che devono affrontare una concorrenza più ampia, il che provoca un abbassamento dei salari.

Le conseguenze negative del lavoro da remoto

Alcuni studiosi segnalano altri potenziali effetti negativi a lungo termine del lavoro da remoto.

  1. In primo luogo, la mancanza di interazioni faccia a faccia potrebbe portare alla perdita di un ambiente fertile per le idee creative, che sono al centro dell’innovazione.
  2. In secondo luogo, la perdita delle reti sociali e l’opportunità di scambiarsi idee in modo informale all’interno delle organizzazioni potrebbero portare a una perdita della ricchezza legata a queste reti, poiché da una parte questo capitale sociale esistente viene eroso, dall’altra non se ne forma di nuovo.

Un altro aspetto delle disuguaglianze legate alla digitalizzazione e al lavoro a distanza riguarda i loro effetti sulle condizioni dei lavoratori, che sono stati esacerbati dalla pandemia. In particolare, bisogna valutare gli effetti sulla salute mentale dell’isolamento e su come le nuove condizioni possono modellare le aspettative, i cambiamenti comportamentali e le dinamiche del mercato del lavoro. L’isolamento prodotto dai lockdown è molto specifico del contesto, tuttavia, può anche essere preso per analogia e confrontato con gli effetti di isolamento che il lavoro a distanza può produrre.

A questo fine gli autori della pubblicazione confrontano tre diversi studi condotti in Spagna, Italia e Regno Unito: uno studio valuta gli effetti del Covid-19 e del lockdown sulla salute mentale in senso lato; uno quello sulla capacità cognitiva e uno quello sulle aspettative e sui cambiamenti di comportamento. La percentuale della popolazione la cui salute mentale era risultata a rischio era del 46% in Spagna, del 41% in Italia e del 42% nel Regno Unito. Essere disoccupati, vivere con più persone, avere figli in età scolare a casa, vivere un evento stressante, come la perdita del lavoro e del guadagno aumentano lo stress psicologico e il suo impatto sulla salute mentale. Al contrario, avere un reddito familiare relativamente più alto, possedere una casa senza un mutuo da pagare, avere una zona giorno relativamente ampia e avere le risorse per pagare le bollette, riducono i livelli di stress.
Non sorprende che coloro che nel campione manifestavano stress e depressione riferissero pessimismo sul futuro, paure e alcuni cambiamenti di comportamento dannosi.

A rendere evidente l’analogia tra il lockdown e il lavoro da remoto è un dato: quando agli intervistati è stato chiesto di confrontare alcuni comportamenti nelle quattro settimane precedenti il sondaggio con lo stesso comportamento prima dello scoppio della pandemia, il 47% ha riferito di avere avuto meno contatti con persone rilevanti per la carriera o per le future opportunità di trovare un lavoro. Questi ultimi sono quelli peggio posizionati nel mercato del lavoro. Ciò è in linea con l’argomentazione precedentemente citata sulla potenziale perdita della rete sociale, che potrebbe essere causata dall’isolamento derivante dal lavoro a distanza.

Mentre gli studi che si occupano degli effetti della digitalizzazione sull’occupazione hanno prodotto solidi risultati, manca uno sforzo sistematico per ideare politiche che affrontino i potenziali effetti collaterali.

La necessità di nuove tutele per i lavoratori da remoto e delle piattaforme digitali

Per rimanere competitivi nell’attuale mercato del lavoro, è necessario che i lavoratori acquisiscano una buona alfabetizzazione digitale. I lavoratori potrebbero non essere consapevoli di questa necessità o potrebbero non avere la possibilità di investire nella propria formazione. In tal caso – spiega il rapporto di Bruegel – è importante che i governi intraprendano politiche a sostegno delle competenze digitali dei lavoratori, per esempio con l’erogazione di contributi, o rendendo detraibili le spese per la formazione.

Nelle politiche per la sicurezza e la salute sul lavoro, sarebbe anche necessario integrare provvedimenti a tutela della salute mentale del lavoratore, per salvaguardarlo dalle nuove forme di stress legate alla digitalizzazione e alla maggiore instabilità del mondo del lavoro di oggi.

Inoltre, i governi dovrebbero estendere le tutele sociali a tutti i cittadini a prescindere dallo stato occupazionale e dal tipo di contratto di lavoro, provvedendo a garantire una protezione sociale contro la disoccupazione e la fluttuazione del reddito caratteristica di alcune occupazioni atipiche.
Ma non bastano solo le iniziative dei governi. Le politiche dovrebbero contribuire a integrare il benessere dei lavoratori nella cultura aziendale, come l’offerta di controlli medici preventivi ad esempio per prevenire problemi di salute derivanti da una postura scorretta davanti al computer, o la formazione del personale per riconoscere e affrontare lo stress nei colleghi dovuto alla “stanchezza dei cambiamenti organizzativi” e alla digitalizzazione del posto di lavoro.
Un focus sui problemi di salute mentale sembra particolarmente importante perché, a differenza di molte condizioni fisiche, queste tendono a essere negate da chi ne soffre sia a se stesso sia agli altri.

Riccardo Lo Bue

www.scienzainrete.it 23/02/2023

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