FCA E PEUGEOT SI UNISCONO: L’EVIDENTE DEBOLEZZA DEL CAPITALISMO

Il mercato mondiale dell’automobile è uno dei settori principali di sviluppo del moderno capitalismo globalizzato. Se è pur vero che in certi ambiti economici “locali” (quindi nazionali) si registra una contrazione della domanda in merito, è anche altresì vero che i colossi puntano alle aree del pianeta in costante via di espansione demografica: il che significa un potenziale incremento delle vendite laddove il mercato non era ancora riuscito ad arrivare compiutamente.

Si comprende molto bene la battaglia per l’acquisizione di nuove tecnologie che riducano l’impatto ambientale dell’immissione su strada di nuovi veicoli: principalmente ciò viene messo in essere per evitare le multe dell’Unione Europea, ma pure per reggere un confronto concorrenziale non da poco.

Se, infatti, FCA e Peugeot-Citroen (PSA) decidono di creare una nuova società che le veda unite e collaboranti, è per fronteggiare le sfide di Wolkswagen che rimane il primo produttore al mondo, nonché di tutto il comparto cino-giapponese-coreano (Toyota, Mitsubishi, ecc.). Proprio lì punta la nuova unione creata dalla famiglia Agnelli che ha già fatto registrare in borsa un balzo notevole del valore delle azioni.

Per quanto, comunque, i capitalisti cerchino di inserire nella produzione migliorie volte alla tutela dell’ambiente, rimane comunque sempre centrale il nodo del trattamento del lavoro salariato, ampiamente sostituito da una meccanizzazione che nel settore auto si fa potentemente sentire e che incide tanto sui contratti stipulati con la forza-lavoro operaia quanto sulla creazione del plusvalore moderno, differente da quello analizzato da Marx soltanto non nella composizione quanto nella sua origine.

La robotizzazione standardizzata delle industrie era, infatti, qualcosa che Marx ed Engels avevano potuto osservare solo tramite rudimentali strumenti di filatura introdotti nelle fabbriche inglesi di metà ‘800. Qualcosa di tendenzialmente più simile alla meccanica odierna potevano rappresentare le presse e i macchinari che venivano comunque diretti dalla manovalanza proletaria per la costruzione, ad esempio, delle locomotrici e dei vagoni ferroviari o dei primi prototipi di automobili.

Ma siamo, in effetti, ancora molto lontani dal balzo novecentesco nella rivoluzione industriale moderna, nell’automazione della produzione, nella creazione della concorrenza interna alle fabbriche tra forza meccanica e forza-lavoro operaia.

Si calcola con una certa precisione che, ad oggi, i salariati (quindi gli sfruttati per eccellenza, per antonomasia) nel mondo siano due miliardi e mezzo di persone su sette miliardi di abitanti del pianeta terra.

In Europa 84,2 miliondi di loro lavora nel settore dell’industria, mentre soltanto il 19 milioni lavorano nel settore agricolo. Il totale della popolazione del Vecchio Continente che risulta occupata è pari a 342 milioni di cittadini. Sono stime che si proiettano agevolmente verso il 2020, calcoli con un margine esiguo di errore, viste le cifre enormi che trattano e la cui variazione può al massimo riguardare qualche decimale, ma difficilmente dei punti in percentuale).

Con una massa così enorme, e tuttavia ampiamente al di sotto delle esigenze dei proletari europei di accesso al mercato del lavoro, di salariati, l’industria dell’automobile ha a disposizione un quantitativo di manodopera qualificata non sufficiente a stimolare quel regime concorrenziale cui i colossi delle auto vorrebbero arrivare come punto di partenza per la conquista di nuovi mercati.

A differenza del governo francese, che ha quote di azionariato in PSA e che intende mettere voce nella stipula degli accordi (non si comprende ancora bene quanta incidenza ciò avrà nella tutela degli interessi dei lavoratori e delle lavoratrici: ma se conosciamo sufficientemente l’orientamento economico del movimento di Emmanuel Macròn, c’è poco da sperare…), dal governo italiano non arriva ad oggi nessuna intenzione in merito.

Si tratta, nella sostanza, di salvaguardare il mantenimento degli stabilimenti di FCA nel nostro Paese ed evitare che, sull’altare dell’esaltazione dei dividenti aziendali e del sempre maggior profitto, vengano adottate politiche di delocalizzazione brutali, prive di qualunque rispetto dei più elementari diritti degli operai ex-Fiat.

Che FCA abbia un comparto di stabilimenti innovativi rispetto a Peugeot e Citroen, è un dato evidente, sottolineato dagli esperti tanto del settore quanto dagli analisti economici indipendenti, tal volta anche molto critici verso certe scelte dell’azienda italo-americana.

FCA dal giugno del 2018 è rientrata inoltre del passivo che si registrava nei suoi bilanci, quindi non ha alcun motivo per chiudere impianti industriali in Italia e delocalizzare, ad esempio, in Cina o in India.

Il governo deve farsi portavoce delle esigenze di tutela di una forza-lavoro che ha già in passato subito tanto e poco ottenuto dalle rimodulazioni dei comparti aziendali, dalle ristrutturazioni che sono state fatte. Basti pensare alle lotte di Pomigliano d’Arco, ai tanti scioperi, al monte ore di salario perso dai lavoratori per difendere diritti che parevano, pure questi come molti altri nella vita sociale e civile, acquisiti da tempo.

La globalizzazione esige che le lotte dei mercati mondiali si facciano sempre più aspre e convincano il capitale a concentrarsi sempre più: qui la lezione economica e la previsione di Marx emerge in tutta la sua potenza scientifica e dimostra, allo stesso tempo, la fragilità del sistema che non può fare altro che ricorrere a compromessi per evitare che cane mangi cane, pescecane mangi altro pescecane. Ma è inevitabile.

Analisi ed editoriali dei giornali italiani vedono ricadute positive per l’Europa. Sì, quella dei banchieri e dei grandi azionisti. Non certo quella dei lavoratori che subiranno indubbiamente nuove pressioni, nuovi ricatti che i padroni sapranno sempre attribuire alle “necessità” del mercato, cui rimangono – per funzione che essi stessi del resto esprimono – fedeli e devotissimi figli.

Marco Sferini

31/10/2019 www.lasinistraquotidiana.it

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