FEMMINISMO 2018
Nella foto l’autrice
A qualcuno fa ancora paura il concetto di femminismo, perché lo associa inevitabilmente all’odio verso gli uomini. In realtà è una rappresentazione fuorviante. La vera femminista ama gli uomini ma è ostile verso una mentalità di tipo maschilista. Il femminismo nasce dalla consapevolezza di una disparità rispetto all’uomo, che, se protratta nel tempo, sfocia in conflitto. Le donne si uniscono trasformando quel noi in soggetto politico e, consapevoli di una comune forma di oppressione, decidono di combattere insieme il sistema. La femminista deve usare la propria emancipazione per combattere ogni tipo di oppressione che sfocia in separatismo, dunque si identifica in colei che con le proprie forze rigetta il sopruso, sopruso che per anni ha patito e conosciuto sulla propria pelle e al quale, in forme differenti, viene assoggettata ancora oggi. Ogni donna, a qualunque latitudine, è figlia, nipote, discendente di altre donne che hanno subito prevaricazioni.
Fermiamoci un attimo qui. Quando si affronta il dibattito di emancipazione sarebbe fuorviante prescindere dal contesto socio-culturale nel quale questi cambiamenti prendono forma. Non esiste un modello giusto o da imitare, le donne non si possono omologare. La battaglia per l’indipendenza di una donna bengalese o indiana difficilmente può svilupparsi sulla falsariga di quella di una donna occidentale che lotta per raggiungere la parità salariale, così come la battaglia di una donna africana non può prescindere dalle ferite inferte dal colonialismo prima e dal razzismo poi. Non possiamo e non dobbiamo amalgamarci forzatamente, individuando un modello di liberazione a senso unico che pretenda di essere valido per tutte. Quello che possiamo fare è appoggiare e difendere la lotta di altre donne, nel rispetto delle specificità dei diversi contesti temporali, storici, religiosi e culturali, diversamente rischiamo di affrontare il tema del femminismo esclusivamente con una versione euro-centrica.
Se da un lato siamo accomunate da temi universali quali il patriarcato, la violenza domestica e l’accesso al lavoro, su altre questioni ogni donna deve poter esprimere le proprie rivendicazioni nel contesto nel quale vive. Possiamo noi occidentali criticare finchè vogliamo i matrimoni precoci, la bigamia, il velo, l’infibulazione, ma è dall’interno della società che deve svilupparsi la spinta decisiva delle donne che vivono sulla propria pelle queste pratiche, decidendo come e se siano da combattere. Non sarà attraverso la critica astratta e il giudizio moraleggiante che verrà segnata una svolta decisiva. La rappresentazione di femminismo come modello che debba obbligatoriamente uniformarsi alle esigenze occidentali rischia di trasformarsi in una sorta di demonizzazione di situazioni vissute da altre che non tiene conto del contesto e penalizza le donne del terzo mondo, rappresentate perennemente come vittime sacrificali, senza voce, impossibilitate a rappresentare loro stesse. Un racconto che sminuisce le spinte interne che stanno invece coinvolgendo tante femministe nei loro paesi facendole apparire, nuovamente, come bisognose di interventi esterni. Se il termine stesso di femminismo dovrebbe corrispondere ad una libertà di scelta, che questa sia contestualizzata in base alla propria cultura ed al proprio vissuto, che è differente per ognuna di noi.
Ritornando al discorso in premessa, se femminismo deve significare appoggiare le minoranze contro l’oppressione dei sistemi sociali, affinchè vi siano maggiori riconoscimenti della libertà di ognuno, allora questa parola ha ancora un senso, e forse oggi più che mai assume un ruolo fondamentale. La vera femminista si batte per la manager come per la prostituta, per la lesbica, la disabile e la detenuta con figli. E si spende anche per l’uomo che viene discriminato, essendo lei stessa portatrice di un fattore discriminatorio presente nel suo stesso dna. Anche l’uomo può appoggiare la battaglia femminista, se inquadrata in questi termini. Questo non deve tradursi in un’esaltazione sessista, dove la donna è depositaria della bontà e l’uomo della cattiveria, altro palliativo di un certo tipo di femminismo disgregante, bensì il motivo che dovrebbe spingerci tutte ad essere femministe permettendo agli uomini di supportare determinate battaglie.
La narrazione va dunque ripensata e aggiornata. In Occidente, la lotta delle nostre nonne e bis-nonne, private di qualsivoglia potere decisionale all’interno della famiglia patriarcale e dalle istituzioni, va rivista alla luce del nostro tempo. Oggi l’uomo si è fatto carico delle sue responsabilità in modo maggiore rispetto al passato trasformandosi spesso in alleato, non è più, a parte sporadici casi, quel padre-padrone privo di qualsivoglia empatia che incuteva timore. Nonostante ciò la rivendicazione di alcuni diritti, periodicamente rimessi in discussione anche nelle società maggiormente all’avanguardia in merito ai diritti civili, aggravata dai continui femminicidi, si riaffaccia puntualmente alla ribalta costringendoci a non abbassare la guardia. In alcuni contesti arabi la donna musulmana, dopo una parentesi paritaria, ha dovuto subire uno sconvolgimento di ruoli che l’hanno riportata nuovamente a combattere contro un patriarcato istituzionale. Allo stesso tempo però paradossalmente la sua battaglia và anche contro certi canoni imposti da altre società che la considerano inferiore sul piano dell’uguaglianza, come se spettasse ad altri giudicare in quali termini ella debba manifestare le proprie rivendicazioni. Ella deve invece essere libera di essere ciò che è, mettendo in atto la propria rivoluzione senza uniformarsi necessariamente ad un modello di riferimento esterno. Anche la donna africana ha nuove strategie da mettere in atto. Non può più basare la sua lotta utilizzando le stesse modalità degli anni ’70, le cui portavoci gettavano le fondamenta esclusivamente sugli effetti coloniali dell’uomo bianco-padrone sulla donna. Il contesto coloniale ed il razzismo sono stati fortemente caratterizzanti nella sua evoluzione storica e lo sono ancora oggi, ma partendo da lì dovrà necessariamente sviluppare anche altri modi e tempi di emancipazione nel contesto odierno che possano apparentarla ad altre donne che spingono su tematiche universali (temi che sicuramente vanno approfonditi e che meritano un articolo a parte).
In questa nuova narrazione globale bisogna poi inserire tutti quei soggetti che vivono una sessualità ed una identità a cavallo tra due generi, e che hanno gli stessi diritti di espressione e di pacifica convivenza rispetto alle altre categorie. Non più un femminismo che si basi sul binomio uomo-donna, ma un concetto più ampio e malleabile rispetto alle nozioni tradizionali di identità.
Un femminismo “nuovo” dovrà necessariamente tenere conto altresì di fattori sociali ed economici: le criticità di una donna affrancata economicamente mal si apparentano a quelle di una donna povera costretta a vivere di espedienti, che non può discernere da quella nozione di intersezionalità che distingua tra le tipologie di differenze, che siano di genere, di etnicità, di classe o di scelte sessuali. Senza tuttavia perdere di vista quella forma di predominio patriarcale che ci accomuna nello squilibrio di potere.
Spesso sento professioniste teorizzare sul femminismo in generale, donne che si ostinano a essere portavoci di altre, che pretendono di conoscere il vissuto di tutte, assumendo come punto di riferimento le proprie esperienze a modello unico. In realtà non esiste un femminismo più avanzato di altri: si rischia di finire in stereotipi che racchiudono una visione che invece ha la necessità di esprimersi non come soggetto forzatamente omogeneo ma in modo eterogeneo. Ogni donna è un mondo a sé, e come tale va rispettata.
Agatha Orrico
Dall’inserto CULTURA/E del numero di novembre di Lavoro e Salute
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