Fermare i nuovi Ogm
Le nuove frontiere dell’ingegneria genetica spingono oltre ogni limite il principio base del capitalismo: tutto è merce, anche la vita. In gioco c’è la privatizzazione della biodiversità globale
Quando, dopo 9 mesi di attesa, Dan Carlson ha visto nascere due vitelli senza corna da embrioni clonati e impiantati in madri surrogate, ha creduto davvero di aver coronato un sogno: quello di un mondo senza più la brutale pratica della decornazione in allevamento. Il giovane «farm guy» coltiva la passione per la biotecnologia da quando i genitori hanno iniziato a coltivare Ogm nella fattoria in Minnesota. La manipolazione del vivente lo ha sempre affascinato, così ha deciso di farne un mestiere. Ha preso un dottorato in scienze animali all’Università dello Stato e da 13 anni lavora per la Recombinetics, società biotech specializzata in gene editing, la nuova frontiera della biotecnologia. La storia dei vitelli senza corna è del 2016, ma è emblematica di una deriva presa dal settore.
Carlson, infatti, è il perfetto esempio della grottesca immaginazione che affligge molti biotecnologi: da un lato c’è il senso di onnipotenza figlio del privilegio di maneggiare il «codice della vita», dall’altro l’incapacità di pensare soluzioni realmente emancipative rispetto al modello di sviluppo. Il problema di Carlson, infatti, non è l’allevamento intensivo o il sistema alimentare industriale, ma fornire un’arma agli allevatori per rintuzzare le critiche di pratiche inumane. Invece di sostenere teorie di radicale cambiamento, le scienze «dure» spesso hanno l’effetto di allungare la vita ai modelli disfunzionali, cercando soluzioni nel perimetro della loro presupposta ineluttabilità.
Idealismo e avidità di denaro
Ma oltre a guadagnare tempo per il capitale e comprimerlo per le alternative, la ricerca dominante nel campo delle scienze della vita non sta facendo molto. Anzi, mostra tutti i suoi limiti a ogni pie’ sospinto. Gli errori e le «sviste» dei gene jockeys possono avere effetti domino su scala globale che vanno dal collasso ecosistemico all’eugenetica, se non viene messo un freno etico e politico all’ambizione di mescolare il Dna per scopi che fondono l’idealismo, la brama di riconoscimento pubblico e l’avidità di denaro.
Per tutte queste ragioni, molto umane e molto poco in linea con l’aura di responsabilità, autorevolezza e distacco di cui solitamente ammantiamo gli esperti, le tecniche di genome editing vengono vendute al pubblico come precise, puntuali, chirurgiche. Non è raro trovare la metafora del «bisturi» che incide la doppia elica di Dna per sottrarre o inserire sequenze genetiche e fornire caratteristiche «desiderate» agli organismi viventi. La stessa Recombinetics, nel descrivere l’esperimento sui vitelli, riferiva di non aver rilevato alterazioni inaspettate come risultato della procedura di modifica genetica. La retorica della perfezione porta quindi molti scienziati a invocare un approccio di regolamentazione zero per i loro «processi creativi» e i nuovi Ogm che ne derivano. Un esempio tra tanti è l’appello lanciato su Nature dopo la nascita dei vitelli geneticamente modificati. «Gli effetti dell’editing genomico sono in gran parte identici a quelli dei processi naturali che creano continuamente variazioni nei genomi degli animali da consumo – scrivono gli scienziati, due dei quali lavorano alla Recombinetics – Da questo punto di vista, è difficile capire perché il processo di editing genomico per introdurre cambiamenti genetici definiti dovrebbe essere regolamentato».
Questo assunto è semplicemente falso, ma regge un’industria da miliardi di dollari che negli ultimi trent’anni ha concentrato i sistemi alimentari e sanitari nelle mani di pochi soggetti multinazionali, capaci di scalare la piramide sociale a colpi di promesse da marinaio e brevetti sulla vita.
I danni di Recombinetics
Il caso della Recombinetics è emblematico. L’invenzione dei vitelli senza corna aveva portato a un accordo tra l’azienda e il governo brasiliano per un programma di breeding di bovini geneticamente modificati. Una revisione della Food and Drug Administration statunitense, svolta nel 2019, ha però dimostrato che la precisione e la chirurgia del processo dichiarato dalla Recombinetics erano parecchio sovrastimate. Riesaminando il Dna dei vitelli geneticamente decornati, le cui sequenze genomiche erano state pubblicate online da Recombinetics, hanno scoperto che contenevano alterazioni involontarie. In particolare, due geni di resistenza agli antibiotici, insieme a varie altre sequenze genetiche di origine batterica. I vettori usati per trasportare il Dna nelle cellule da modificare sono infatti batteri, introdotti negli organismi bersaglio con arrangiamenti potenzialmente rischiosi e modalità niente affatto «chirurgiche».
In pratica, con la preoccupazione globale per i potenziali impatti dell’antibiotico resistenza, una società biotecnologica stava per mettere in commercio animali che la esprimono dalla nascita e possono passarla alla progenie. Il tutto, nel tentativo di modificarli in modo che possano continuare a «vivere» pressati gli uni agli altri senza più segargli le corna. Inutile dire che il Brasile ha stracciato il contratto quando la Fda ha pubblicato la sua revisione.
L’infortunio della Recombinetics, ovvero la determinazione di effetti fuori bersaglio, imprevedibili e potenzialmente dannosi delle nuove tecniche per l’editing genomico, è un problema ricorrente. Sono centinaia i tagli del Dna che avvengono in luoghi anche molto diversi da quelli «presi di mira» dagli strumenti biotecnologici. L’emersione di tossine o allergeni negli organismi geneticamente modificati è una possibilità concreta. Tuttavia, non ha fermato la fiducia che governi e imprese ripongono nell’editing genomico. Perfino l’Unione europea, dove gli Ogm sono regolati in maniera rigida da quasi venticinque anni, ha iniziato ad aprire le porte. Una proposta per esentare le piante i prodotti vegetali ottenuti con le cosiddette New Genomic Techniques (Ngt) da tracciabilità, etichettatura e valutazione del rischio è stata avanzata dalla Commissione Ue il 5 luglio 2023, approvata dall’Europarlamento a febbraio 2024 e ora attende soltanto il parere degli Stati membri. I promotori della deregulation sostengono che gli organismi vegetali modificati con le Ngt in modi che potrebbero occorrere naturalmente o con la selezione classica, non devono essere normati come gli organismi geneticamente modificati (Ogm).
La forma merce del vivente
I criteri per definire le modifiche «equivalenti» a quelle naturali o alla selezione convenzionale sono stati definiti «privi di basi scientifiche» dall’Agenzia francese per la salute e la sicurezza alimentare (Anses). Decine di organizzazioni ambientaliste, movimenti contadini e reti della società civile hanno denunciato l’arbitrarietà della proposta e gli effetti potenzialmente irreversibili sugli ecosistemi e l’agricoltura. Ma la posta in gioco è troppo grande. Dopo aver fallito con gli Ogm «di prima generazione» l’accesso al mercato europeo, l’evoluzione delle biotecnologie ha permesso di aggiornare la narrazione. Ora non si parla più di processi straordinari e prodigiosi, con la capacità di mettere fine alla fame nel mondo. Quella retorica, fiaccata da vent’anni di fallimenti incontrovertibili, è stata ridimensionata: oggi cerca di dichiarare l’identità fra biotecnologia e natura, per rendere la prima più accettabile.
Lo spiega bene Luigi Pellizzoni, professore di sociologia dell’ambiente e del territorio alla Scuola Normale Superiore di Firenze, quando dice che «le nuove biotecnologie rappresentano una sostanziale unicità fra la tecnicità della natura e la naturalità della tecnica. Da un lato si dice che non c’è bisogno di nessuna regolamentazione perché i nuovi Ogm sono equiparabili ai prodotti della natura, ma dall’altro sono organismi brevettabili perché contengono qualcosa che in natura non c’era». Si tratta di assunzioni contraddittorie, a ben guardare. Ma secondo Pellizzoni è proprio questo il punto: «Il meccanismo si basa proprio sulla contraddizione, è completamente sfaldato il principio di non contraddizione. Vale l’assunto per cui tutto può essere una cosa e il suo contrario allo stesso tempo». I promotori dell’ingegneria genetica, e non solo loro, hanno integrato nel proprio modo di operare questa teoria dell’indistinzione, portando ancora più all’estremo la logica della mercificazione. Seguendo la riflessione di Pellizzoni, infatti, capiamo che non stiamo più assistendo alla trasformazione della vita in merce in senso classico. La vita, nella nuova logica anti-dualista del capitale, è sempre stata merce, ancora prima che ne prendesse le sembianze finendo sotto la sua lente. Un passaggio, questo della messa a fuoco della dimensione di merce delle forme viventi, che è possibile ormai attraverso operazioni puramente cognitive: basta dichiarare che una sequenza genetica, presa da un organismo e trasferita in un altro, attiva in esso nuove funzioni, per brevettare quella sequenza e innescare cicli di accumulazione.
Se il vero obiettivo è cercare nuovi modi per far emergere la forma-merce dal vivente, la scienza che lo assume e la tecnica che ne deriva non hanno alcun bisogno di rigore metodologico, né di risultati empirici. Possono svolgere un lavoro “a tesi” senza più fornire le prove della sua validità o valutare effetti collaterali. Una simile postura manda completamente in crisi il principio di precauzione. Quello che è stato considerato per anni un pilastro dell’approccio europeo, basato su cautela e ponderazione prima di sdoganare processi potenzialmente irreversibili, oggi appare un cimelio del passato.
Perché fermare i nuovi Ogm
La retorica proposta dalle multinazionali sementiere è accolta dalle più grandi organizzazioni agricole, come la Coldiretti in Italia. Rinnegando vent’anni di lotta agli Ogm, le principali organizzazioni di categoria adesso fanno lobby insieme a Bayer-Monsanto, Basf, Corteva e Syngenta per deregolamentare i nuovi Ogm. L’effetto di una liberalizzazione sarebbe la sicura biocontaminazione dei campi non geneticamente modificati, con impatti economici non indifferenti, primo fra tutti quello dell’agricoltura biologica, non più in grado di mantenersi libera da Ogm come prevede il disciplinare. I prodotti al consumo perderebbero l’etichettatura obbligatoria e noi la libertà di scelta. I brevetti associati alle colture geneticamente modificate potrebbero migrare indisturbati nei campi di agricoltori che non li hanno acquistati: se le loro piante esprimeranno i caratteri brevettati dalle imprese, potranno subire denunce per violazione della proprietà intellettuale, che hanno per effetto il sequestro e la distruzione del raccolto. Centinaia di queste cause sono già state intentate dalla Monsanto agli agricoltori statunitensi. Nel 2013, i giudici avevano accordato 26 milioni di dollari in compensazioni.
Tutte queste storie, che raccontiamo nel libro Perché fermare i nuovi Ogm uscito di recente, tentano di offrire gli elementi di conoscenza necessari a costruire un’opposizione dal basso alla deregolamentazione delle New Genomic Techniques. Lo facciamo attraverso i numeri che inquadrano il fallimento degli Ogm di prima generazione, le interviste ai contadini francesi che hanno falciato i campi sperimentali nei primi anni Duemila, la ricostruzione dei legami pericolosi scienza-industria che caratterizzano la storia del Dna, dalle origini in un pub di Cambridge fino al Nobel del 2020, assegnato a due scienziate che hanno sviluppato una tecnica di genome editing subito brevettata e venduta alle multinazionali agrochimiche.
Perché Dan Carlson, tutto sommato, è un dilettante. La partita è molto più grande della Recombinetics e delle società di medio calibro. In gioco c’è l’appropriazione della biodiversità globale, mantenuta dalle conoscenze tradizionali di contadini, Popoli Indigeni e comunità locali che la utilizzano come base per la sovranità alimentare. Il corredo genetico di questi organismi biologici, ottenuti con l’approccio dell’agroecologia, meglio adattati agli ecosistemi e più capaci di affrontare il cambiamento climatico, è oggi la nuova miniera di un estrattivismo che opera nella sfera dell’immateriale. Lo fa con strumenti come la bioinformatica, l’ingegneria genetica e la biologia sintetica, nati per carpire l’informazione genetica dalla natura e perimetrarla con un brevetto industriale. Si tratta di vere e proprie operazioni di biopirateria, che impediscono alle comunità di conservare, riutilizzare, scambiare e vendere risorse genetiche da loro sviluppate. Una volta che i ricercatori o le imprese (o i ricercatori delle imprese) entrano in possesso di organismi selvatici, piante di varietà locali o loro informazioni genetiche digitalizzate, e le utilizzano per applicazioni biotecnologiche, possono brevettare i risultati e trasformare il germoplasma in proprietà privata. Tutte le forme viventi che lo contengono, diventano immediatamente proprietà dell’inventore. E chi ne fa uso senza comprare la licenza, rischia il tribunale. Così l’ingegneria genetica serve gli scopi di un nuovo sistema di accumulazione, che non si sporca più le mani con l’estrattivismo vecchio stile. Va semplicemente alla ricerca di proprietà della vita interessanti per il commercio e trova il modo di privatizzarle.
Il destino dei sistemi alimentari si trova, quindi, conteso tra le mani segnate di quei piccoli contadini che ancora oggi producono la maggior parte del cibo consumato sul pianeta, e quelle guantate dei biotecnologi al servizio delle imprese. Se cade il baluardo europeo, sarà difficile regolamentare il settore secondo un principio di cautela. Altri paesi dove ciò è avvenuto, come il Sudafrica, faticherebbero a tenere il punto sotto le enormi pressioni.
La deregolamentazione dei nuovi Ogm è dunque un giro di boa piuttosto significativo. Se non sapremo fermarla, rischiamo che diventi sempre più complesso avviare una conversazione pubblica sugli obiettivi della ricerca scientifica, sui suoi limiti e sui bisogni che dovrebbe servire. Rischiamo che la regia della produzione di cibo si trasferisca progressivamente dai campi ai laboratori, segnando la morte della sovranità alimentare. Un concetto, questo, nato quasi trent’anni fa dai movimenti contadini, che indica il diritto dei popoli a un cibo sano e culturalmente appropriato, prodotto con metodi ecologici e sostenibili e il loro diritto di definire i propri sistemi alimentari e agricoli. Difesa dai movimenti rurali a tutti i livelli – dalle Nazioni unite ai singoli paesi – la sovranità alimentare è l’àncora di salvezza che può fermare la deriva verso l’era dell’alimentazione artificiale e proprietaria.
Francesco Panié è giornalista ambientale e campaigner per il Centro Internazionale Crocevia. Si occupa di politiche agricole, del cibo, della biodiversità e di supporto ai movimenti sociali per la sovranità alimentare.
Stefano Mori è coordinatore del Centro Internazionale Crocevia e responsabile del segretariato del Comitato Internazionale di Pianificazione per la Sovranità Alimentare (Ipc). Dottorando di ricerca presso il Dipartimento di Scienze Politiche e Sociali dell’Università della Calabria, dove è membro del Centro Studi per lo sviluppo rurale, si occupa di politiche agricole a livello globale e nazionale.
20/6/2024 https://jacobinitalia.it/
Lascia un Commento
Vuoi partecipare alla discussione?Sentitevi liberi di contribuire!