Fermi amministrativi per bloccare i soccorsi umanitari in acque internazionali
Abstract
Gli operatori umanitari che soccorrono nelle acque internazionali del Mediterraneo centrale operano sotto stato di necessità (forza maggiore) e sotto la costante minaccia di intervento armato delle motovedette libiche donate dall’Italia e assistite con il tracciamento aereo da Frontex. Non si può continuare dunque a ritenere che i comandanti delle navi svolgano attività illecite, dopo le sentenze dei Tribunali e della Corte di Cassazione che hanno archiviato i procedimenti penali avviati dal 2017 ad oggi ed hanno riconosciuto i loro soccorsi come adempimento di un dovere derivante dal diritto internazionale, richiamato dagli articoli 10 e 117 della Costituzione.
Secondo i più recenti provvedimenti di fermo amministrativo adottati nei confronti delle navi delle ONG sarebbero state violate le disposizioni introdotte con il Decreto legge n.1 del 2023, concernenti il mancato rispetto delle indicazioni della Guardia Costiera libica e il divieto di operare “salvataggi multipli”. Prosegue la prassi di assegnare dopo i soccorsi operati dalle ONG in acque internazionali porti sempre più lontani, da ultimo Genova e Ravenna, anche se le condizioni meteo obbligano sovente le centrali di coordinamento italiane a modificare la prima indicazione, ma tutto questo avviene a scapito del trattamento dei naufraghi. Lo scorso 20 febbraio il Tribunale civile di Brindisi ha sospeso l’efficacia del provvedimento di fermo amministrativo e affidamento in custodia della nave Ocean Viking, dela ONG SOS Mediterraneé, fissando l’udienza del 14 marzo per la discussione sul merito del ricorso. Nel sospendere il provvedimento di fermo amministrativo il Tribunale insiste soprattutto sulle violazioni dei diritti fondamentali, dunque con copertura costituzionale, con riferimento alla libertà di associazione, e del diritto delle associazioni di perseguire i fini statutari, tra cui nel caso di specie rientrava lo svolgimento di attività di ricerca e salvataggio in alto mare.
Ma oltre i diritti delle Organizzazioni non governative sotto il profilo della libertà di associazione vanno posti in evidenza e tutelati i diritti delle persone, a partire dal diritto di non essere respinti in paesi non sicuri (art.33 Convenzione di Ginevra sui rifugiati del 1951). Non si può imporre ai comandanti delle navi umanitarie l’obbligo di farsi coordinare da autorità di Stati che non garantiscono porti sicuri di sbarco. E vanno sanzionate anche sul piano risarcitorio, sul piano interno, e quindi con ricorsi alla Corte europea dei diritti dell’Uomo, le omissioni e le condotte indebite da parte di agenti statali che costringono le navi umanitarie a rotte vessatorie ed a fermi amministrativi privi di base legale, se si considerano gli obblighi positivi di soccorso, anche con interventi multipli, imposti dalle Convenzioni internazionali in capo ai comandanti delle navi. Nessun naufrago può essere abbandonato in mare perchè una centrale di coordinamento statale non fornisce tempestivamente istruzioni, oppure ordina uno stand-by in attesa che arrivino motovedette provenienti da paesi che non garantiscono porti sicuri di sbarco.
1. All’inizio, mentre si spegneva rapidamente la pietà suscitata dalle stragi del 3 e dell’11 ottobre 2013, gli attacchi contro i soccorsi umanitari nelle acque internazionali del Mediterraneo centrale venivano configurati dal Ministero dell’interno e da Frontex sulla base di denunce di polizia sulle quali la magistratura apriva procedimenti penali, seguite, e talvolta precedute, da violente campagne di stampa che servivano a spostare consenso elettorale verso i partiti di destra. E proprio quei partiti che oggi si scagliano contro la diffusione di notizie vere relative a loro esponenti di punta, si avvalevano di uno spregiudicato dossieraggio per diffondere notizie false sulle organizzazioni non governative, che supplivano alla sistematica omissione di soccorso seguita nel 2017 al ritiro degli assetti navali di Frontex ed alla limitata operatività degli interventi SAR dei mezzi militari italiani, costretti all’interno delle acque territoriali e della zona contigua, entro il limite massimo di 24 miglia dalla costa. Alla base di questa prima fase degli attacchi mediatici e giudiziari contro i soccorsi umanitari, la creazione “a tavolino” di una zona SAR (di ricerca e salvataggio) libica nel 2018, di fatto coordinata da autorità italiane, e lo snaturamento degli eventi di ricerca e salvataggio ridotti ad attività di immigrazione clandestina, se non di favoreggiamento dell’ingresso irregolare, addirittura sulla base di intese con organizzazioni criminali, come si sosteneva con il teorema delle “consegne concordate”, rilanciato da alcune procure siciliane a partire dal caso Iuventa del 2017. Nessuna delle numerose inchieste avviate dalla magistratura, anche su forte spinta politica, arivava ad una sentenza di condanna, e ormai non si contano più le archiviazioni, mentre nell’opinione pubblica, e nel corpo elettorale dei partiti di destra, minoritario nel paese, ma vincente in tempi di forte astensionismo, si consolidava la percezione del carattere illecito, e comunque contrario agli interessi del “popolo italiano”, dell’intervento di soccorso in acque internazionali di chi voleva soltanto salvare persone in pericolo (distress) che gli stati costieri abbandovano in alto mare o riconsegnavano agli aguzzini libici. Si continua a parlare anche in sede legislativa di “flussi migratori” dalla Libia, quando si tratta nella totalità di casi di migranti forzati, di persone che non hanno alternative di rimanere in un paese nel quale sono quotidianamente esposte ad abusi di ogni genere. E la situazione dei diritti umani è in continuo peggioramento anche in Tunisia, proprio a seguito della stipula del Memorandum UE-Tunisia, che ha prodotto espulsioni violente e respingimenti collettivi verso la Libia. No, non sono davvero “flussi migratori.” E non sono sanzionabili con i fermi amministrativi le doverose attività di ricerca e salvataggio operate dalle navi delle Organizzazioni non governative nelle acque internazionali del Mediterraneo centrale, dopo che gli Stati costieri hanno ritirato i loro assetti di soccorso, delegando i respingimenti collettivi illegali alle navi commerciali, se non alla sedicente Guardia costiera “libica”.
2. Con il secondo governo Conte, a partire dal 2020, seguiva la stagione dei fermi amministrativi della ministro Lamorgese al Viminale con la contestazione rituale, dopo i soccorsi in acque internazionali, che le imbarcazioni delle Organizzazioni non governative non avrebbero avuto certificazioni specifiche per svolgere la loro attività di ricerca e salvataggo, e che non avrebbero dovuto prendere a bordo un numero di naufraghi più elevato rispetto alla portata indicata nei documenti di navigazione. Gli Stati costieri intanto , per ridurre un presunto effetto di attrazione, ritiravano le loro navi e, in collaborazione con l’agenzia FRONTEX, concentravano tutti i loro sforzi sulla sorveglianza aerea, non per soccorrere, ma per agevolare le intercettazioni violente da parte della sedicente Guardia costiera “libica”nelle acque internazionali del Mediterraneo centrale.
Si tentava allora di utilizzare in modo strumentale il potere delle Capitanerie di porto di effettuare controlli in porto dopo l’ingresso delle navi uanitarie (PSC) con una applicazione distorta della Direttiva 2009/16/CE .E si arrivava a sanzionare con il fermo aministrativo la mancanza di dotazioni di sicurezza o di servizi igienici, in base al numero dei naufraghi soccorsi in acque internazionali e poi sbarcati a terra. Che le autorità italiane consideravano alla stessa stregua di comuni passeggeri. Come se il comandante della nave potesse abbandonare in alto mare naufraghi che chiedevano aiuto, soltanto perchè il loro numero risultava superiore alla portata riconosciuta nei documenti rilasciati dalle autorità marittime degli Stati di bandiera. Stati di bandiera che, secondo le interpretazioni farneticanti del Viminale avrebbero dovuto garantire il coordinamento dei soccorsi e lo sbarco in un porto sicuro (place of safety). Una importante sentenza della Corte di Giustizia dell’Unione europea, dopo contrastanti decisioni dei Tribunali aministrativi italiani, spazzava il campo da queste interpretazioni fuorvianti della Direttiva europea 2009/16/CE. La Corte di Giustizia dell’Unione Europea con la sentenza 1 agosto 2022 ha posto rigorosi limiti al potere degli Stati costieri di adottare provvedimenti amministrativi di fermo di navi che avevano operato anche continuativamente attività SAR in alto mare.
La Corte di Giustizia dell’Unione Europea ha demolito due dei capisaldi delle motivazioni con cui le Capitanerie di Porto su evidente indirizzo ministeriale, e con l’ausilio di una specifica squadretta di ispettori, avevano ordinato il fermo amministrativo per diversi mesi, a partire dal 2020, delle navi Sea Watch 3 e Sea Watch 4. Nel caso della Sea Watch 4 la nave era rimasta bloccata nel porto di Palermo addirittura per sei mesi, e poteva ripartire soltanto nel mese di marzo del 2021.
Per i giudici europei, e secondo la logica del diritto, non disgiunta da un minimo di umanità, non possono essere considerati “passeggeri” i naufraghi che vengono soccorsi in mare, mentre le navi delle ONG non possono essere costrette a dotarsi di ulteriori certificazioni dello Stato che è obbligato a garantire il porto di sbarco (POS), certificazioni che in passato le autorità italiane hanno invece richiesto a loro discrezione, contestando il carattere “non occasionale” delle attività di soccorso. Nel caso dell’Italia queste certificazioni non sono peraltro previste neppure dai registri del naviglio civile ed erano evidentemente frutto di richieste arbitrarie da parte delle autorità amministrative.
Secondo la Corte di Lussemburgo, dunque,“lo Stato di approdo non può imporre che venga provato che tali navi dispongono di certificati diversi da quelli rilasciati dallo Stato di bandiera o che esse rispettano tutte le prescrizioni applicabili a una diversa classificazione. Peraltro, nel caso in cui l’ispezione riveli l’esistenza di carenze, lo Stato di approdo può adottare le azioni correttive che ritenga necessarie. Tuttavia, queste ultime devono, in ogni caso, essere adeguate, necessarie e proporzionate. Lo Stato di approdo non può poi subordinare la revoca del fermo di una nave alla condizione che tale nave disponga di certificati diversi da quelli rilasciati dallo Stato di bandiera”. Dopo l’ingresso della nave soccorritrice in porto e lo sbarco dei naufraghi, lo Stato italiano “può sottoporla a un’ispezione diretta a controllare il rispetto delle norme di sicurezza in mare. A tal fine, occorre però che tale Stato dimostri, in maniera concreta e circostanziata, l’esistenza di indizi seri di un pericolo per la salute, la sicurezza, le condizioni di lavoro a bordo o l’ambiente”.
Rimane comunque confermato il principio desumibile dalla Convenzione SOLAS e richiamato dall’art.2 della Direttiva 2009/16/CE, secondo cui l’idoneità al servizio per la quale la nave è “destinata” debba essere intesa in senso astratto, avuto riguardo alla tipologia di classificazione della nave, e non invece in senso concreto, avuto riguardo alla specifica tipologia di attività effettivamente espletata, che potrebbe essere variamente apprezzata da ogni autorità portuale. Non esistono a livello internazionale parametri di classificazione delle navi impiegate in attività di ricerca e salvataggio che permettano di individuare requisiti specifici da verificare in sede di ispezioni portuali (PSC). L’art.94 della Convenzione UNCLOS esclude chiaramente la possibilità che in sede di controllo lo stato di approdo possa riqualificare diversamente una nave già certificata dal proprio Stato di bandiera o ritenere non sufficiente la certificazione rilasciata da questo Stato.
3. Con l’avvento del nuovo governo le politiche di contrasto dei soccorsi umanitari si intensificavano e si traducevano prima nel Decreto Piantedosi “ad navem” che ordinava gli “sbarchi selettivi” nel Porto di Catania, poi dichiarato illegittimo dal Tribunale di Catania. Secondo il Tribunale di Catania che in quella occasione affermava la soccombenza “virtuale” del Ministero dell’interno, essendosi comunque verificato lo sbarco a terra di tutti i naufraghi, il soccorso non si esaurisce con l’assistenza in mare, ma si conclude solo quando il naufrago sbarca in un luogo sicuro (place of safety), dove possono essere garantite le necessità umane primarie: cibo, alloggio, cure mediche, protezione internazionale. Lasciare un naufrago su una nave equivale dunque a non prestare il soccorso completo richiesto dagli obblighi internazionali.
In base all’art.1 comma 2 del Decreto legge n.130 del 2020, ” Fermo restando quanto previsto dall’articolo 83 del regio decreto 30 marzo 1942, n. 327, per motivi di ordine e sicurezza pubblica ovvero quando si concretizzano le condizioni di cui all’articolo 19, paragrafo 2, lettera g), della Convenzione delle Nazioni Unite sul diritto del mare, con allegati e atto finale, fatta a Montego Bay il 10 dicembre 1982, resa esecutiva dalla legge 2 dicembre 1994, n. 689, limitatamente alle violazioni delle leggi di immigrazione vigenti, il Ministro dell’interno, di concerto con il Ministro della difesa e con il Ministro delle infrastrutture e dei trasporti, e previa informazione al Presidente del Consiglio dei ministri, puo’ limitare o vietare il transito e la sosta di navi nel mare territoriale, salvo che si tratti di naviglio militare o di navi in servizio governativo non commerciale. Non trovano comunque applicazione le disposizioni del presente comma nell’ipotesi di operazioni di soccorso immediatamente comunicate al centro di coordinamento competente per il soccorso marittimo e allo Stato di bandiera ed effettuate nel rispetto delle indicazioni della competente autorita’ per la ricerca e soccorso in mare, emesse in base agli obblighi derivanti dalle convenzioni internazionali in materia di diritto del mare nonche’ dello statuto dei rifugiati fermo restando quanto previsto dal Protocollo addizionale della Convenzione delle Nazioni Unite contro la criminalita’ organizzata transnazionale per combattere il traffico di migranti via terra, via mare e via aria”.
In base al Decreto legge n.1 del 2023, convertito con modificazioni dalla L. 24 febbraio 2023, n. 15 (in G.U. 02/03/2023, n. 15),, quando il comandante della nave o l’armatore non fornisce le informazioni richieste dalla competente autorita’ nazionale per la ricerca e il soccorso in mare o non si uniforma alle indicazioni della medesima autorita’, si applica la sanzione amministrativa del pagamento di una somma da euro 2.000 a euro 10.000. Alla contestazione della violazione consegue l’applicazione della sanzione amministrativa accessoria del fermo amministrativo per venti giorni della nave utilizzata per commettere la violazione. In caso di reiterazione della violazione, la sanzione amministrativa accessoria del fermo amministrativo e’ di due mesi e In caso di ulteriore reiterazione della violazione, si può arrivare al sequestro ed alla confisca della nave.
Con il Decreto legge n.1 del 2 gennaio 2023, si ampliavano dunque i poteri di fermo amministrativo affidati ai prefetti nel caso di ingresso in porto di navi delle ONG che avessero svolto in modo continuativo attività di ricerca e salvataggio, magari senza farsi coordinare dalle “autorità competenti” rispetto alle zone SAR di intervento, oppure operando una sequenza di soccorsi, senza dirigere immediatamente verso il porto di sbarco indicato dalle autorità italiane. Che comunque, in base a questo decreto, sia pure nei limiti stabiliti dallo stesso provvedimento, si vedevano riconosciuta una precisa titolarità a coordinare operazioni di ricerca e salvataggio in acque internazionali. Non venivano più frapposti divieti di ingresso nelle acque territoriali, ma la Centrale di coordinamento della Guardia costiera italiana (IMRCC) su indicazione del Nucleo centrale di coordinamento (NCC) del ministero dell’interno assegnava, soltanto per le navi delle ONG, porti di sbarco sempre più lontani, addirittura Ravenna o Genova, tanto da potersi definire come “vessatori”, allo scopo evdente di allontanarle per il maggior tempo possibile dalla zona di soccorsi a nord delle coste libiche e tunisine. La circostanza che le navi umanitarie svolgessero in modo continuativo attività di ricerca e salvataggio in acque internazionali è stata quindi ritenuta sufficiente per adottare a livello amministrativo prassi discriminatorie rispetto a quanto previsto nel caso di soccorsi occasionali in acque internazionali prestati da altre navi civili o commerciali. L’articolo 98 della Convenzione UNCLOS fa però riferimento ad «ogni persona» e le previsioni più importanti delle Convenzioni SAR e SOLAS vietano qualsiasi discriminazione sulla base dello status delle persone da soccorrere in mare o alla qualificazione delle navi soccorritrici.
Il Piano SAR nazionale 2020, nella distinzione che opera tra le diverse categorie di navi, suddivise esclusivamente in navi da carico e navi passeggeri, e nella individuazione delle attività di ricerca e salvataggio, non fa alcun riferimento alla categoria di «navi di soccorso», se non per indicare unità militari appartenenti allo Stato, né attribuisce rilievo alcuno alla categoria delle «attività di ricerca e salvataggio svolte in modo continuativo», che sarebbero svolte dalle ONG, categoria priva di base legale nel diritto internazionale e nell’ordinamento interno, ma che è stata adottata in passato a fondamento dei provvedimenti di fermo amministrativo. Al paragrafo 110 del Piano Sar Nazionale 2020 si prevede che «con riferimento alle Mass Rescue Operations correlate al fenomeno migratorio via mare restano salve le previsioni specifiche di cui all’art. 10-ter del d.lgs. 286/98 «Testo unico delle disposizioni concernenti la disciplina dell’immigrazione e norme sulla condizione dello straniero». Ma, al successivo paragrafo 111 si aggiunge che per soccorso si deve intendere non solo l’operazione destinata al recupero in mare delle persone in pericolo, con le prime cure mediche, ma anche quanto necessario al loro trasporto in un “luogo sicuro”.
Non si possono adottare dunque per le navi delle ONG regole diverse da quelle stabilite per tutti i comandanti delle navi che operano soccorsi in acque internazionali. Le convenzioni internazionali non permettono ancora di discriminare i naufraghi, ed i socorritori, a seconda che le attività di ricerca e salvataggio siano svolte dalla nave soccorritrice in modo occasionale, o avvengano con modalità continuative. In ogni caso deve prevalere la salvaguardia della vita umana in mare ed il rispetto dei diritti fondamentali delle persone.
4. Nel mese di giugno del 2023 il Tribunale amministrativo del Lazio ha deciso su due ricorsi proposti contro l’assegnazione di porti di sbarco “vessatori”, a notevole distanza dall’area nella quale venivano operati i soccorsi da parte di una organizzazione non governativa. Il Tribunale ha legittimato le scelte del ministro dell’interno affastellando una serie di motivazioni che vanno oltre la portata del caso esaminato e gettano ombre inquietanti sul futuro dei soccorsi in mare nel Mediterraneo centrale. Le affermazioni incidentali del TAR Lazio sulla competenza (libica) nei soccorsi in acque internazionali rientranti nella cd. “zona SAR libica” e sulla pretesa competenza primaria dello Stato di bandiera ad indicare il porto di sbarco sicuro, appaiono assai inquietanti. Secondo il TAR del Lazio “l’’assolvimento, da parte del comandante della nave, dell’obbligo di procedere senza indugio al salvataggio di persone in pericolo di vita non impedisce allo Stato di bandiera di fornire alla propria nave le direttive da seguire, compresa l’individuazione del POS, chiedendo eventualmente la cooperazione ad altri Stati, a mente del Capitolo 3 dell’annesso alla Convenzione SAR, rubricato proprio “Cooperazione tra Stati”. E ciò a maggior ragione nel caso di specie in cui la Geo Barents viene impiegata, come le imbarcazioni di altre ONG, in modo stabile e strutturale per soccorrere i migranti in mare in alcune aree del Mediterraneo”.
La sentenza richiama a fondamento della sua motivazione, cadendo in evidenti contraddizioni, il punto 3.1.9 dell’Annesso alla Convenzione di Amburgo SAR del 1979, oggetto di un emendamento introdotto nel 2004, e mai ratificato da Malta, secondo cui «la Parte responsabile della zona di ricerca e salvataggio in cui viene prestata assistenza si assume in primo luogo la responsabilità di vigilare affinché siano assicurati il coordinamento e la cooperazione suddetti, affinché i sopravvissuti cui è stato prestato soccorso vengano sbarcati dalla nave che li ha raccolti e condotti in luogo sicuro, tenuto conto della situazione particolare e delle direttive elaborate dall’Organizzazione marittima internazionale (Imo). In questi casi, le Parti interessate devono adottare le disposizioni necessarie affinché lo sbarco in questione abbia luogo nel più breve tempo ragionevolmente possibile”. Si utilizza il richiamo al “più breve tempo ragionevolmente possibile” per impedire che la nave soccorritrice possa operare ulteriori interventi di soccorso, costringendola a puntare immediatamente sul porto di destinazione assegnato dalle autorità statali senza deviazioni di rotta, ma poi si indicano porti lontanissimi dall’area dei soccorsi, in modo da impedire un sollecito ritorno della nave nella zona nella quale potrebbe operare altre attività di ricerca e salvataggio.
Anche se TAR Lazio ribadisce il divieto di “soccorsi multipli”, introdotto dal Decreto legge n.1 del 2 gennaio 2023, anche nella lunga fase di navigazione verso il porto assegnato, il Comandante della nave, per effetto dell’obbligo imposto dalla Convenzione Solas, Cap. V, Reg.33 deve comunque prestare soccorso a chiunque sia trovato in mare in pericolo di vita ed è, altresì, tenuto a procedere- con tutta rapidità- all’assistenza di persone in pericolo in mare, di cui abbia comunque avuto informazione.
L’intero ragionamento seguito nella decisione del TAR Lazio si poggia sulla asserita inesistenza dell’obbligo di sbarco nel porto sicuro (POS) più vicino, e su questo non ci possono essere dubbi, ma questa considerazione non può implicare, una volta che la nave soccorritrice abbia richiesto un porto di sbarco, la indicazione di un POS che imponga diversi giorni di navigazione a persone che rivestono a tutti gli effetti la qualità di naufraghi fino alla conclusione dell’operazione di soccorso, con lo sbarco a terra.
Secondo Francesca De Vittor, docente di Diritto internazionale all’Università Cattolica di Milano,“L’assegnazione di porti di sbarco ingiustificatamente lontani contraddice l’idea di cooperazione in buona fede tra gli Stati stabilita dalle Convenzioni internazionali in materia di soccorso in mare”. Secondo l’art.31 della Convenzione di Vienna sul diritto dei Trattati, (Regola generale per l’interpretazione) “Un trattato deve essere interpretato in buona fede in base al senso comune da attribuire ai termini del trattato nel loro contesto ed alla luce dei suo oggetto e del suo scopo”.
Appare poi singolare, e sintomatica della torsione politica che dimostra l’intera sentenza del TAR Lazio, l’argomentazione di rigetto del ricorso basata sulla considerazione del tribunale secondo cui non ricorrerebbe “la manifesta irragionevolezza e sproporzione degli atti impugnati, che sarebbero sfociati nella designazione di un porto di sbarco “gravosa”. Al proposito, è sufficiente richiamare quanto già illustrato ai parr. 11.2, 11.3, 11.4, 11.5 e 11.6 sulla correttezza e sulla proporzionalità delle scelte compiute dall’Amministrazione avuto riguardo alla situazione concreta e cioè: i) alla prontezza della designazione del porto di sbarco; ii) all’assenza di situazioni di urgenza da parte dei migranti; iii) all’indisponibilità – puntualmente comprovata dalle allegazioni della difesa erariale non efficacemente confutata dalla ricorrente – dei centri di accoglienza nelle zone vicine a quella del luogo del soccorso, a causa della congestione da sovraffollamento dei migranti già ospitati; iv) allo smistamento dei migranti in zone non lontane dal luogo di sbarco; v) al tempo di permanenza dei migranti a bordo, analogo ad altre pregresse vicende in cui detta permanenza era dipesa dal ritardo della Geo Barents nel contattare le Autorità italiane. A fronte di tali puntuali evidenze, le ricorrenti non hanno offerto alcun elemento tangibile a dimostrazione dell’aggravamento della condizione dei migranti, che era tale da non destare allarme. Neppure è stato enucleato il benché minimo riscontro in merito alla lamentata irragionevolezza delle determinazioni contestate. Altrettanto infondata, infine, risulta la censura di irragionevolezza della decisione (v. nota 8/1/2023) con cui l’Amministrazione ha negato alla Geo Barents diretta verso il porto di Ancona la possibilità di trasbordare i 73 naufraghi a bordo sulla nave Ocean Viking (essa stessa diretta verso il porto di Ancona). Sul punto, va evidenziato che il potere autorizzativo in materia apparteneva in via esclusiva alla competenza dell’autorità SAR coordinatrice al cui interno della Regione SAR è avvenuto il recupero. Pertanto l’autorità di soccorso italiana non era competente per fornire tale autorizzazione. A ciò si aggiunga che, ai sensi dell’art. 1 comma 2-bis lett. d) del d.l. n. 130/2020, come modificato dal Decreto Legge n. 1/2023, “il porto di sbarco assegnato dalle competenti autorità è raggiunto senza ritardo per il completamento dell’intervento di soccorso”. Si ribadisce in questo modo che il raggiungimento del porto di sbarco sicuro deve verificarsi “senza ritardo”, all’evidente scopo i sanzionare i cd. “soccorsi multipli”, ma poi si indicano località di sbarco lontane giorni di navigazione, qualificandole porti di destinazione, e non “porti sicuri” o place of safety (POS). Una scelta discrezionale del Ministero dell’interno che non riconosce la natura di soccorso dell’evento di salvataggio operato dalle ONG e lo riconduce ad un fenoneno di immigrazione irregolare.
5. Il sottosegretario al ministero dell’interno Nicola Molteni ha subito parlato di una “sentenza storica”, dimenticando che la sentenza del TAR Lazio fa riferimento a due casi specifici, ma non è automaticamente applicabile a tutti i soccorsi operati in acque internazionali dalle navi umanitarie delle ONG. Non è del resto la prima volta che la giustizia amministrativa adotta una linea conforme agli indirizzi del Ministero dell’interno, salvo poi essere smentita da una successiva decisione di un organo giurisdizionale superiore o da un Tribunale internazionale, come è successo nel caso della sentenza della Corte di Giustizia dell’Unione Europea ad agosto dello scorso anno, in materia di fermi amministrativi delle navi umanitarie, dopo i controlli operati in porto (PSC) sulla nave allo sbarco dei naufraghi. Di certo la sentenza del TAR Lazio non consente di assegnare alla responsabilità dello Stato di bandiera della nave soccorritrice l’onere di indicare il porto di sbarco sicuro (POS), ipotesi che non trova conferma nella normativa interna e sovranazionale.
Come richiamato dai giudici del Tribunale dei ministri di Palermo nel caso Open Arms, innanzitutto, «deve escludersi che lo Stato di “primo contatto” si identifichi con quello di bandiera della nave che ha provveduto al salvataggio; tale individuazione, invero, confligge innanzitutto con la stessa lettera del testo normativo di riferimento (Risoluzione MSC 167-78), che al punto 6.7 fa esplicito riferimento al “primo RCC contattato”, esigendo, dunque che ilcontatto” sia realizzato con il Centro di coordinamento per le attività di ricerca e soccorsocostituito, in ottemperanza alle linee guida IMO, presso ogni Stato aderente alle Convenzioni in materia; essa, poi, appare incoerente con lo scopo perseguito dalle richiamate linee guida (criterio ermeneutico, questo, di primaria rilevanza nell’applicazione dei Trattati e delle Convenzioni internazionali), scopo che, come s’è detto, consiste nel far sì che la collaborazione degli Stati converga verso il risultato di consentire alle persone soccorse di raggiungere quanto prima un posto sicuro, arrecando alla nave soccorritrice il minimo sacrificio possibile»
Secondo la Raccomandazione della Commissione europea adottata il 23 settembre 2020 (Raccomandazione (UE) 2020/1365 della Commissione del 23 settembre 2020 sulla cooperazione tra gli Stati membri riguardo alle operazioni condotte da navi possedute o gestite da soggetti privati a fini di attività di ricerca e soccorso) lo Stato di bandiera ha una responsabilità relativa al controllo dei requisiti ai fini della registrazione delle navi, ma in alcun modo questa responsabilità comporta l’assegnazione dell’obbligo di indicare un porto di sbarco sicuro (come si può ricavare, seppure indirettamente, dalla sentenza della Corte di Giustizia dell’Unione Europea nel caso Sea Watch, C-14/21 del 1° agosto 2022).
Il TAR Lazio omette di considerare il passaggio centrale della sentenza n.6626/2020 della Corte di Cassazione, che pure richiama in modo evidentemente strumentale, al fine di motivare la propria decisione. Secondo questa sentenza della Cassazione, infatti, “….«Né si potrebbe ritenere che l’attività di salvataggio dei naufraghi si fosse esaurita con il loro recupero a bordo della nave. L’obbligo di prestare soccorso dettato dalla convenzione internazionale SAR di Amburgo non si esaurisce nell’atto di sottrarre i naufraghi al pericolo di perdersi in mare, ma comporta l’obbligo accessorio e conseguente di sbarcarli in un luogo sicuro (c.d. “place of safety”)». Se si legge questa decisione alla luce della successiva sentenza della Corte di Cassazione che esclude che la Libia possa essere ritenuta un paese in grado di offrire” porti di sbarco sicuri” si impone una interpretazione del Decreto legge n.1 del 2023 che esclude dalle “autorità competenti” per il coordinamento, che comprende anche la indicazione del porto sicuro di sbarco (POS), le autorità libiche, o meglio, qualsiasi governo o milizia rappresenti in questo momento lo Stato libico. Che non ha ancora istituzioni politiche unifcate ed una unica Centrale di coordinamento dei soccorsi in mare (MRCC). che peraltro sarebbe imposta ai fini del riconoscimento di una zona di ricerca e salvataggio (SAR) “libica”. Se compete all’Italia l’indicazione del porto di sbarco sicuro, non si può sostenere che questo possa essere assegnato nelle località più lontane possibile per garantire esigenze di ordinata accoglienza, quando non si fornisce alcuna motivazione in ordine alla impossibilità di fornire adeguata assistenza ai naufraghi in porti più vicini.
Non ci si può limitare dunque a quanto sostiene il TAR del Lazio quando afferma che ” L’intervento del Ministero dell’Interno nella designazione del porto di sbarco risulta, quindi, necessario in considerazione dell’imprescindibile necessità dello stesso di effettuare:- per un verso, una valutazione, d’intesa con gli altri Ministeri interessati, circa la conformità dell’intervento alle condizioni di cui all’art. 1, comma 2-bis, del d.l. n. 130/2020 (ai fini dell’eventuale adozione del provvedimento interdittivo di cui al comma 2), – per altro verso, un’essenziale valutazione prognostica, per i profili di specifica competenza, circa le possibili ricadute dello sbarco sulle strutture dedicate e sugli organismi preposti alla gestione degli arrivi, in una determinata località, in termini di rapido ma corretto adempimento degli incombenti correlati alle esigenze di assistenza, di accoglienza e di corretta gestione del fenomeno migratorio via mare”.
Quando si parla di possibili ricadute dello sbarco sul sistema di accoglienza non si può ridurre la conclusione di una operazione di ricerca e salvataggio con lo sbarco in un porto sicuro alla “corretta gestione del fenomeno migratorio via mare”. Perchè le attività di ricerca e salvataggio (SAR) non rientrano nella “gestione del fenomeno migratorio via mare”, trattandosi di atti dovuti e non di scelte discrezionali al di fuori dei criteri di proporzionalità e ragionevolezza imposti anche dalla legislazione nazionale in materia di motivazione dei provvedimenti amministrativi.
6. I giudici del Tribunale amministrativo del Lazio omettono di ricordare quanto dispone l’ Annesso alla Convenzione SAR di Amburgo del 1979, che pure viene ritenuto fonte normativa vincolante dallo stesso Tribunale, che specifica gli obblighi a carico dello Stato tenuto ad indicare un porto di sbarco sicuro alla nave soccorritrice che ne faccia richiesta. Un obbbligo imposto dalle Convenzioni internazionali, e non una mera facoltà discrezionale, anche quando il soccorso è avvenuto in una zona di ricerca e salvataggio che sarebbe di competenza di un altro Stato costiero. La Risoluzione IMO (Organizzazione internazionale del mare) MSC.167(78) (adottata il 20 maggio 2004) impone che gli Stati responsabili debbano “… fornire un luogo sicuro o di assicurare che tale luogo venga fornito…” (paragrafo 2.5) ai naufraghi e ai sopravvissuti soccorsi.
Nella medesima risoluzione, il paragrafo 6.12, definisce come “porto sicuro” (o place of safety, POS) il luogo in cui si considerano terminate le operazioni di salvataggio. In detto luogo, i sopravvissuti non si trovano più esposti ad un rischio per la loro vita e possono accedere ad alcuni beni e servizi fondamentali (cibo e acqua, rifugio e ripario, cure mediche), nonché, a tutte le procedure per poter ottenere un trasferimento verso la destinazione finale o la più vicina, anche al fine di presentare una domanda di asilo.
In base alla Risoluzione MSC.167(78) del 2004, che fissa le Linee guida sul trattamento delle persone soccorse in mare:6.3 Una nave non dovrebbe essere soggetta a indebiti ritardi, oneri finanziari o altre difficoltà correlate dopo aver prestato assistenza a persone in mare; pertanto gli Stati costieri dovrebbero dare il cambio alla nave non appena possibile.6.8 I governi e l’RCC responsabile dovrebbero compiere ogni sforzo per ridurre al minimo il tempo in cui i sopravvissuti rimangono a bordo della nave che presta assistenza6.13 Una nave che presta assistenza non dovrebbe essere considerata un luogo sicuro basandosi unicamente sul fatto che i sopravvissuti non sono più in pericolo immediato a bordo della nave. Una nave che presta assistenza potrebbe non disporre di strutture e attrezzature adeguate per sostenere altre persone a bordo senza mettere in pericolo la propria incolumità o prendersi cura adeguatamente dei sopravvissuti. Anche se la nave è capace di ospitare in modo sicuro i sopravvissuti e può fungere da luogo temporaneo di sicurezza, dovrebbe essere sollevato da questa responsabilità al più presto in quanto è possibile prendere accordi alternativi.6.14 Un luogo sicuro può essere a terra, oppure può essere a bordo di un’unità di soccorso o altra imbarcazione o struttura idonea in mare che possa fungere da luogo sicuro fino allo sbarco dei sopravvissuti verso la destinazione successiva.6.15 Le Convenzioni, come modificate, indicano che la consegna in un luogo sicuro dovrebbe tener conto delle circostanze particolari del caso. Tali circostanze possono includere fattori quali la situazione a bordo della nave che presta assistenza, le condizioni sulla scena, le esigenze mediche e la disponibilità di mezzi di trasporto o di altre unità di soccorso. Ogni caso è unico e la selezione di un luogo sicuro potrebbe dover tenere conto di una serie di fattori importanti.6.20 Qualsiasi operazione e procedura come lo screening e la valutazione dello stato delle persone soccorse che vanno oltre il fornire assistenza alle persone in difficoltà non dovrebbe essere autorizzata a ostacolare la fornitura di tale assistenza o ritardare indebitamente lo sbarco di superstiti della nave o delle navi che prestano assistenza.
Rimane poi incomprensibile il richiamo operato dal TAR del Lazio alla nozione di Place of safety (POS) dal “Regolamento 2013/106 del Parlamento Europeo e del Consiglio” secondo sui si definisce il POS come “un luogo in cui si ritiene che le operazioni di soccorso debbano concludersi e in cui la sicurezza per la vita dei sopravvissuti non è minacciata, dove possono essere soddisfatte le necessità umane di base e possono essere definite le modalità di trasporto dei sopravvissuti verso la destinazione successiva o finale tenendo conto della protezione dei loro diritti fondamentali nel rispetto del principio di non respingimento”. Si tratta probabilmente di una svista formale dell’estensore della sentenza, perchè è il Regolamento UE n.656 del 2014 che, all’art. 2 lettera A punto 12, indica negli stessi termini la nozione di luogo sicuro, appunto come ” un luogo in cui si ritiene che le operazioni di soccorso debbano concludersi e in cui la sicurezza per la vita dei sopravvissuti non è minacciata, dove possono essere soddisfatte le necessità umane di base e possono essere definite le modalità di trasporto dei sopravvissuti verso la destinazione successiva o finale tenendo conto della protezione dei loro diritti fondamentali nel rispetto del principio di non respingimento“. Se di mera svista formale si tratta, con riferimento al Regolamento europeo n.2013/106 del Parlamento Europeo e del Consiglio, e non al Regolamento n.656/2014/UE, a meno che non esista un Regolamento europeo che ci rimane ignoto, appare interessante che i giudici del TAR Lazio abbiano riconosciuto la valenza normativa di un Regolamento europeo (che non citano correttamente) in ordine alla qualificazione di porto sicuro di sbarco. Perchè quello stesso Regolamento attribuisce valore gerarchico sovraordinato alle fonti nazionali -come diritto cogente- alle norme di diritto internazionale di diritto del mare che pure richiama, ad esempio in materia di accertamento delle condizioni di distress, tanto da impedire qualsiasi confusione tra “eventi migratori”, da monitorare e contrastare con attività di “law enforcement”, ed “attività di ricerca e salvataggio” nelle quali ricorrono obblighi inderogabili di intervento a carico degli Stati costieri.
Secondo l’art. 9 del Regolamento 656/2014/UE, ” Gli Stati membri osservano l’obbligo di prestare assistenza a qualunque natante o persona in pericolo in mare e durante un’operazione marittima assicurano che le rispettive unità partecipanti si attengano a tale obbligo, conforme mente al diritto internazionale e nel rispetto dei diritti fondamentali, indipendentemente dalla cittadinanza o dalla situazione giuridica dell’interessato o dalle circostanze in cui si trova”. Nello stesso Regolamento, l’art.10 prevede che “nel caso di situazioni di ricerca e soccorso di cui all’articolo 9 e fatta salva la responsabilità del centro di coordinamento del soccorso, lo Stato membro ospitante e gli Stati membri partecipanti cooperano con il centro di coordinamento del soccorso competente per individuare un luogo sicuro e, una volta che il centro di coordinamento del soccorso competente abbia determinato tale luogo sicuro, assicurano che lo sbarco delle persone soccorse avvenga in modo rapido ed efficace”
La sentenza del Tar del Lazio che legittima l’assegnazione di porti non solo “gravosi” ma “vessatori”, quelli più lontano possibile dalla zona dei soccorsi, e soltanto per le navi del soccorso civile, asserendo che in questo modo si puo’ garantire una migliore distribuzione dei naufraghi sul territorio nazionale e’ peraltro smentita dal principio di realta’. Infatti, favorendo la presenza e le attività di salvataggio delle Ong, e assegnando sollecitamente porti di sbarco che non ritardano ulteriori attività di soccorso, gli sbarchi possono essere programmati, come avveniva fino al 2017 (fino al codice di condotta Minniti). Fino ad allora, addirittura, le navi delle ONG trasbordavano su altre navi umanitarie, se non su navi della Guardia costiera o della Marina militare, i naufraghi appena soccorsi e riprendevano subito le attività di ricerca e salvataggio, sotto coordinamento della centrale operativa della Guardia costiera italiana. Esattamente l’opposto di quanto avviene oggi, non perchè siano mutate le Convenzioni internazionali, ma per i diversi indirizzi politici dei governi e dei ministri dell’interno. Allontanando le Ong, assegnando porti di sbarco sempre più lontani, ed impedendo i cosiddetti “soccorsi multipli”, come si stabilisce con il Decreto legge n.1 del 2023, oltre la consueta criminalizzazione dei soccorsi umanitari, si violano le Convenzioni internazionali, che da allora ad oggi non sono cambiate, si sguarnisce di mezzi di soccorso il Mediterraneo centrale e si aumentano in modo esponenziale gli arrivi “in autonomia”, almeno di quelle persone più fortunate che il mare non inghiotte dopo giorni di abbandono in acque internazionali, per la mancanza di mezzi di soccorso che possano intervenire con la necessaria tempestività.
In realtà il governo italiano con le modifiche normative introdotte al Decreto 130 del 2020 dal Decreto legge n.1 del 2023 ha creato una vera e propria trappola, che non è stata avvertita per tempo dalle ONG. Infatti con l’assegnazione di porti di sbarco sempre più lontani, (e con i ritardi nell’assunzione del coordinamento dei soccorsi in acque internazionali da parte di IMRCC, quando non viene detto di rivolgersi ad autorità libiche o maltesi) sono aumentati i casi nei quali, durante l’avvicinamento della nave umanitaria ai porti imposti dal Viminale, si verificano altri eventi di soccorso che obbligano i comandanti delle navi ad intervenire. A totale discrezione delle autorità marittime italiane, l’assunzione del coordinamento dei soccorsi da parte di IMRCC, in alcuni casi costretto a coordinare anche al di fuori della zona SAR di competenza italiana, o il mero rimbalzo alle autorità libiche o maltesi, ha creato, sulla base, di scelte politiche ed elettorali, i presupposti per fare applicare dai prefetti, con una ulteriore sfera di discrezionalità, le sanzioni previste dal Decreto legge anti ONG n.1 del 2 gennaio 2023, che adesso possono arrivare anche al sequestro ed alla confisca, indipendentemente dalla tutela del valore primario della vita umana in mare, e dagli obblighi di sbarco in un porto sicuro (POS) a cui si attengono le Convenzioni internazionali e le scelte obbligate dei comandanti delle navi umanitarie.
7. Lo scorso 20 febbraio il Tribunale civile di Brindisi ha sospeso l’efficacia del provvedimento di fermo amministrativo e affidamento in custodia della nave Ocean Viking, dela ONG SOS Mediterraneé, fissando l’udienza del 14 marzo per la discussione sul merito del ricorso. Nel sospendere il provvedimento di fermo amministrativo il Tribunale insiste soprattutto sulle violazioni dei diritti fondamentali, dunque con copertura costituzionale, con riferimento alla libertà di associazione, e del diritto delle associazioni di perseguire i fini statutari, tra cui nel caso di specie rientrava lo svolgimento di attività di ricerca e salvataggio in alto mare.
Il Tribunale di Brindisi osserva che ” l’opposizione appare sostenuta da un fumus di fondatezza in ordine alla possibile carenza di competenza di accertamento e sanzionatoria in capo all’autorità amministrativa italiana; nonché in ordine alla insussistenza nel merito dei presupposti per l’applicazione dell’art. 1, comma 2 sexies, del d.l. 21 ottobre 2022, n. 130, attesa la ricostruzione dei fatti fornita da parte ricorrente e che non risulta, allo stato, essere stata verificata dall’autorità italiana prima dell’emissione del provvedimento sanzionatorio.
Per lo stesso Tribunale esistevano i presupposti per l’adozione della misura sospensiva del provvedimento impugnato, “considerato, sotto il profilo del fumus, che il perdurare della misura del fermo amministrativo è suscettibile di pregiudicare in modo irreversibile il diritto da parte della SOS Mediterranée Ocean Viking di esercitare la propria attività di soccorso in mare, in cui si realizzano le sue finalità sociali, come evincibile dall’accordo di partenariato con la Federazione internazionale delle società di Croce Rossa e Mezzaluna Rossa, in atti, ovvero “Prevent loss of life, Enhance safety at sea, Alleviate human suffering, Enhance response to distress calls, Enhance operational cooperation, Share and exchange information, Advocate for adherence to international maritime law obligations and principles applicable to rescue obligations at sea for the achievement of the above goals” (“Prevenire la perdita di vite umane, Migliorare la sicurezza in mare, Alleviare la sofferenza umana, Migliorare la risposta alle chiamate di soccorso, Rafforzare la cooperazione operativa, Condividere e scambiare informazioni, Sostenere l’adesione agli obblighi e ai principi del diritto marittimo internazionale applicabili obblighi di salvataggio in mare per il raggiungimento degli obiettivi sopra indicati”); considerato che tali attività implicano il perseguimento di obiettivi di indubbio valore ex se, in ossequio al sistema di valori costituzionali e del diritto internazionale consuetudinario cui l’Italia aderisce (art. 117 Cost.) e che è chiamata altresì a promuovere; ma che tale aspetto resta irrilevante rispetto alla verifica della sussistenza del requisito del periculum, nelle specie sussistente invece nella impossibilità per la SOS Mediterranée di esercitare i diritti inviolabili di cui è titolare: considerato infatti che anche i cosiddetti “corpi intermedi” – ivi compresi gli enti associativi di qualsiasi natura siano pacificamente titolari dei diritti inviolabili (art. 2 Cost.) enucleati nella parte prima delle Costituzione e che le Organizzazione non Governative, per la specificità dei loro fini sociali, con l’espletamento delle rispettive attività non esercitino solo la libera iniziativa economica (art. 41 Cost.), ma anche il diritto fondamentale alla manifestazione del proprio pensiero (art. 21 Cost.) e quello all’associazione (art. 18 Cost.), inibiti dal divieto di proseguire nella sua attività di soccorso in mare. Ma oltre i diritti delle Organizzazioni non governative sotto il profilo della libertà di associazione vanno posti in evidenza e tutelati i diritti delle persone, a partire dal diritto di non essere respinti in paesi non sicuri (art.33 Convenzione di Ginevra sui rifugiati del 1951).
Secondo il provvedimento di fermo amministrativo adottato nei confronti della Ocean Viking sarebbero state violate le disposizioni introdotte con il Decreto legge n.1 del 2023, concernenti il mancato rispetto delle indicazioni della Guardia Costiera libica e il divieto di operare salvataggi multipli. Non si può imporre ai comandanti delle navi umanitarie l’obbligo di farsi coordinare da autorità di Stati che non garantiscono porti sicuri di sbarco. E vanno sanzionate anche sul piano risarcitorio le omissioni e le condotte indebite da parte di agenti statali che costringono le navi umanitarie a rotte vessatorie ed a fermi amministrativi privi di base legale, se si considerano gli obblighi positivi di soccorso, anche con interventi multipli, in capo ai comandanti delle navi. Nessun naufrago può essere abbandonato in mare perchè una centrale di coordinamento statale non fornisce tempestivamente istruzioni, oppure ordina uno stand-by in attesa che arrivino motovedette provenienti da paesi che non garantiscono porti sicuri di sbarco.
Malgrado la decisione del Tribunale di Brindisi il governo, tramite gli organi di coordinamento del Viminale (NCC) e la Guardia costiera (IMRCC) ricorrono ancora oggi alla prassi dell’assegnazione di porti di sbarco “vessatori” sempre più lontano dai luoghi di sbarco, come Genova o Ravenna, allo scopo di tenere più a lungo lontane le navi delle odiate ONG dall’area nella quale più frequentemente si verificano tra le coste africane e le Pelagie gli interventi di ricerca e salvataggio. Si insiste ancora, da parte del governo italiano, sulla delega alle autorità libiche e tunisine per il coordinamento delle attività di soccorso in acque internazionali, ma i richiami a queste autorità sono smentiti dalla situazione di fatto, sia in mare che nei territori controllati da governi che non garantiscono accesso alle procedure di asilo ed un effettivo rispetto dei diritti umani. La Tunisia e la Libia , ammesso che pure rispondano alle chiamate di soccorso, non possono garantire porti di sbarco sicuri, malgrado gli sforzi diplomatici italiani, e dunque non possono essere designate come autorità competenti a gestire e coordinare attività di ricerca e salvataggio in acque internazionali. In proposito basti il rinvio alle posizioni ed alle Linee guida formulate dalle Nazioni Unite nel 2017 e ribadite con un documento nel dicembre del 2022, per non parlare dei rapporti internazionali (Amnesty, Human Rights Watch) che segnalano in questi paesi pesanti violazioni dei diritti dei migranti ed il mancato riconoscimento effettivo del diritto di asilo, con una diffusa violazione del divieto di trattenimento arbitrario e con casi sempre più numerosi di respingimento collettivo illegale. Si rafforza la collaborazione con questi paesi, anche con il contributo economico dell’Unione europea, ma non si muove un passo nella direzione di una maggiore tutela delle persone che si ritrovano intrappolate in paesi di transito in una condizione di irregolarità, anche quando potrebbero essere riconosciti come titolari del diritto di asilo e comunque versano in codnizioni di grave vulnerabilità per la mancanza di uno status di soggiorno regolare. Malgrado il perfezionamento degli accordi bilaterali, e l’intervento dell’Unione Europea, come nel caso del Memorandum d’intesa UE-Tunisia, il calo degli “sbarchi”, finora osservato nei mesi invernali, ritorna utile per la campagna elettorale dei partiti di governo, ma le partenze non si fermano, anche se l’intensificazione della lotta ai trafficanti peggiora le condizioni di soggiorno, con espulsioni collettive verso la Libia, e di sicurezza nelle traversate, tanto che in termini relativi il numero delle persone che fanno naufragio in acque internazionali è sempre più rilevante.
Aumentano infatti le vittime, a bordo dei barconi lasciati per giorni senza soccorsi sulle rotte del Mediterraneo centrale, ed anche in prossimità di Lampedusa, come avviene da anni, quando si svuotano di mezzi di soccorso le acque internazionali, e si moltiplicano i cd. “sbarchi autonomi”, come quello durante il quale, ancora oggi 8 marzo 2024, è stato rinvenuto un cadavere sugli scogli di Lampedusa.
Lo scorso anno la Commissaria per i diritti umani del Consiglio d’Europa aveva chiesto all’Italia di ritirare il decreto sulle ONG (D.l. n. 1/2023) o almeno di rivedere in sede di conversione, le norme che violano i diritti umani dei migranti. Nella letera rivolta al governo italiano si censurava soprattutto la previsione del decreto legge n.1/2023 che obbliga le navi dopo l’operazione di salvataggio, a raggiungere senza ritardo il porto assegnato, ritenuta dalla Commissaria una previsione che impedisce i salvataggi multipli, e rischia nella sua applicazione pratica di inibire un’effettiva attività di ricerca e salvataggio, costringendo le navi ad ignorare ulteriori chiamate di soccorso in violazione del diritto internazionale. Con riferimento alle crescenti restrizioni imposte alle attività di ricerca e salvataggio in mare delle ONG, la Commissaria concludeva osservando che “Le restrizioni alle ONG hanno gravi implicazioni per la protezione dei diritti e delle vite in mare. Piuttosto che riconoscere le ONG come partner chiave, colmando una lacuna cruciale lasciata dal loro stesso disimpegno, gli Stati membri hanno persistito in un approccio apertamente o tacitamente ostile. Ciò sta portando a ulteriori riduzioni della capacità di salvataggio in mare e a limiti al monitoraggio dei diritti umani. Inoltre, tali azioni continuano a stigmatizzare il lavoro di questi difensori dei diritti umani. Sebbene gli Stati membri abbiano il diritto di imporre requisiti amministrativi e altri requisiti necessari alle ONG per garantire la sicurezza, la Commissaria osserva che si perpetua una preoccupante tendenza alla criminalizzazione di coloro che salvano vite in mare”.
La Commissaria per i diritti umani reiterava quindi l’invito a sospendere ogni cooperazione con il Governo libico e a favorire in futuro attività di cooperazione con Paesi terzi nel rispetto delle Raccomandazioni del 2019 sul Mediterraneo Centrale. Un documento che avrebbe potuto portare a ricorsi alla Corte europea dei diritti dell’Uomo, ma che purtroppo fino ad oggi è rimasto privo di conseguenze. Nel frattempo non si può dire che l’Unione Europea abbia fatto progressi nella definizione di piani di azione nel Mediterraneo, anche se i più recenti compromessi politici in vista delle prossime elezioni sembrano confermare la esternalizzazione già avviata da anni con il sostegno ai paesi terzi nel contrasto dell’immigrazione irregolare e nella correlata cancellazione del diritto di asilo delle persone intrappolate in questi paesi.
Si può attendere che le prossime scadenze elettorali comportino una ulteriore criminalizzazione dei migranti forzati che tentano la traversata del Mediterraneo, e degli operatori umanitari che prestano loro assistenza. Di fronte a questa ulteriore involuzione del quadro istituzionale italiano, ormai caratterizzato da un diffuso rancore e da una violenta stigmatizzazione, contro le ONG , ben oltre l’evidenza dei fatti ed il rispetto del dettato costituzionale, che rinvia al diritto internazionale (art.117 Cost.), occorre reagire con denunce, sui canali informativi ancora liberi, e con ricorsi alla magistratura, nazionale ed internazionale, tenendo conto della documentazione fornita dalle organizzzioni del soccorso civile e dei precisi punti critici individuati lo scorso anno dal Garante nazionale per le persone private della libertà, con l’auspicio che anche i nuovi componenti dell’Ufficio del Garante nominati con il governo Meloni possano, con la stessa autorevolezza, intervenire nei casi di allungamento ingiustificato delle rotte vessatorie di sbarco, imposte alle navi delle Organizzazioni non governative in modo da pregiudicare le loro complessive capacità di intervento, e di salvataggio di vite, nel Mediterraneo centrale.
Fulvio Vassallo Paleologo
Nota del Garante nazionale sul Decreto-legge dal titolo “Disposizioni urgenti per la gestione dei flussi migratori e la semplificazione procedimentale in materia di immigrazione”
In attesa di avere contezza del provvedimento approvato dal Consiglio dei ministri del 28 dicembre 2022 e nella certezza che, al di là di espressioni riportate dalla stampa, il Ministero dell’Interno avrà già doverosamente considerato molti degli aspetti che qui si intende evidenziare, il Garante nazionale ritiene utile ricordare alcuni principi nazionali e sovranazionali che vincolano il nostro Paese.
Per altri aspetti, sarà, ovviamente, il Parlamento a valutare la necessità di una decretazione d’urgenza in materia.
Una premessa
Le Convenzioni internazionali sono un limite alla potestà legislativa dello Stato e gli articoli 10, 11 e 117 della Costituzione codificano il principio per cui il diritto internazionale e le Convenzioni internazionali ratificate dall’Italia non sono derogabili dalla legislazione interna. In prospettiva di un’analisi dettagliata del decreto-legge approvato il 28 dicembre scorso dal Consiglio dei ministri e del processo di sua successiva conversione, gli elementi di riferimento sono le norme di diritto internazionale nonché quelle del diritto, anche interno, della navigazione e del soccorso in mare[1].
Circa gli specifici punti:
Il soccorso
La Corte Europea dei diritti dell’uomo (più avanti CtEdu) nelle sentenze emesse nel caso Sharifi c. Italia e Grecia del 21 ottobre 2014[2] (ricorso n. 16643/09) e nel caso (Grande Camera) Hirsi Jamaa c. Italia del 23 febbraio 2012[3] (ricorso n. 27765/09) ha affermato che il mancato accesso alla procedura d’asilo o a qualsiasi altro rimedio legale all’interno del porto di attracco configura una violazione dell’articolo 4 del Protocollo n.4 alla Convenzione, che, come è noto, è parte integrante della Convenzione stessa. La CtEdu ha sottolineato che il sistema di Dublino deve essere applicato in modo compatibile con la Convenzione e che nessuna forma di respingimento o di rimpatrio collettivo e indiscriminato può avere luogo. Ovviamente tali principi sono noti al Legislatore italiano e da esso condivisi.
Risulta evidente che debbano, quindi, essere garantiti nel territorio nazionale il transito e la sosta al fine di assicurare il soccorso e l’assistenza a terra delle persone prese a bordo a tutela della loro incolumità. Sorge il problema se questa possa avvenire «ai soli fini» di esercitare tali funzioni e non anche ai fini di tutelare le garanzie complessive che ogni persona debba avere anche sul piano giuridico. Appare opportuno comunicare le operazioni al Centro di coordinamento competente per il soccorso marittimo nella cui area di responsabilità si svolge l’evento e allo Stato di bandiera della nave. Ovviamente, ciò non fa venir meno alcuna responsabilità dello Stato che ha effettuato il soccorso.
La domanda per le persone migranti a bordo delle navi che hanno effettuato il soccorso pone preliminarmente la dicotomia tra «possibilità» e «obbligo». La prima ipotesi rappresenta un incremento delle potenzialità che compongono l’idea stessa di salvataggi, sempre che vi siano anche elementi informativi adeguati e indipendenti disponibili a bordo dell’imbarcazione. La seconda impone una irragionevole accentuazione di vulnerabilità che farebbe antecedere la politica interna di uno Stato rispetto al principio sovranazionale di massima tutela di chi può trovarsi in condizioni di fragilità sul piano personale e anche giuridico. Certamente il testo varato dissiperà la perplessità perché la seconda ipotesi esporterebbe il Paese al rischio di censure internazionali. È, infatti, principio ineludibile, che non possa essere la finalità di radicare la responsabilità per l’accoglimento o il respingimento della domanda d’asilo in capo agli Stati di bandiera delle navi in oggetto[4] il criterio che compone il diritto umanitario degli Stati democratici[5].
«Imporre» e non «dare la possibilità» di domanda di protezione internazionale agli Stati di bandiera delle navi delle Organizzazioni non governative potrebbe degenerare verso una situazione di immediatezza del respingimento degli altri non richiedenti e, quindi, entrare in contrasto con il citato articolo 4 del Protocollo n. 4 della Convenzione.
I requisiti
Le navi che effettuano «in via non occasionale» attività di ricerca e soccorso in mare devono corrispondere, nel loro operare, ad alcuni requisiti. Le informazioni avute dal Garante nazionale sono riassumibili nei seguenti aspetti:
- idoneità tecnico-nautica alla sicurezza della navigazione nelle acque territoriali (obiettivo condivisibile);
- tempestivo avvio di iniziative volte ad acquisire le intenzioni di richiedere la protezione internazionale. Il problema sorge laddove il diritto internazionale marittimo non individua il comandante di una nave quale competente a determinare lo status di coloro che ricadono temporaneamente sotto la propria tutela a seguito di un’operazione di salvataggio e non è dunque in alcun modo tenuto a richiedere alle persone soccorse se vogliano presentare domanda di protezione internazionale. Peraltro il paragrafo 6 delle “Linee guida sul trattamento delle persone soccorse in mare”[6] adottato nel 2004 dal Comitato marittimo per la Sicurezza[7] (Agenzia Onu specializzata nel settore) nel contesto dell’adozione di una serie di emendamenti alle Convenzioni Sar[8] e Solas[9], prevede che ogni operazione e procedura, come l’identificazione e la definizione dello status delle persone soccorse, che vada oltre la fornitura di assistenza alle persone in pericolo, non debba essere consentita qualora possa ostacolare la fornitura di tale assistenza o possa ritardare lo sbarco;
- la richiesta all’Autorità Sar competente, nell’immediatezza dell’evento, dell’assegnazione del Pos (place of safety). Da una parte ciò riprende quanto già previsto; da un’altra, occorre ben valutare se ciò possa essere compatibile nella singola situazione in essere con le norme sul soccorso in mare, che hanno il precetto consuetudinario e generalmente accolto di non mettere in essere qualsiasi azione che aggravi la situazione di pericolo, individuale e collettivo, tenendo anche conto della vulnerabilità delle singole persone, che potrebbe accentuarsi in caso di mancata risposta alle richieste di coordinamento delle operazioni di ricerca e soccorso condotte nelle zone Sar di competenza di altri Paesi.
- il raggiungimento del porto di sbarco individuato dalle competenti Autorità senza ritardo per il completamento dell’intervento di soccorso. Anche in questo caso occorre non piegare la giustezza del precetto a finalità diverse. In assoluto, il precetto è elemento di garanzia per le persone; va tuttavia letto in congiunzione con la specificità del Pos assegnato. Inoltre, questo punto va letto in connessione con quello di cui alle cosiddette «operazioni plurime», sempre tenendo conto dell’articolo 1158 del Codice della navigazione[10] che riguarda l’ipotesi di omissione di soccorso.
- comunicazione alle Autorità per la ricerca e il soccorso in mare italiane o, nel caso di assegnazione del porto di sbarco, alle Autorità di Pubblica sicurezza, delle informazioni richieste ai fini dell’acquisizione di elementi relativi alla ricostruzione dettagliata delle fasi dell’operazione di soccorso effettuata. L’interpretazione dell’indicazione è quella dei fini investigativi che, comunque, non devono poter ostacolare lo sbarco. Su questa linea, in termini più generali, vale il Protocollo addizionale alla Convenzione delle Nazioni unite contro la Criminalità organizzata transnazionale del 2000[11], che in tema di contrasto al traffico illecito di migranti per via terrestre, aerea e marittima, all’articolo 19 recita «Nessuna disposizione del presente Protocollo pregiudica gli altri diritti, obblighi e responsabilità degli Stati e degli individui derivanti dal diritto internazionale, compreso il diritto internazionale umanitario e il diritto internazionale relativo ai diritti dell’uomo e, in particolare, laddove applicabili, la Convenzione del 1951 e il Protocollo del 1967 relativi allo status dei rifugiati e il principio di non respingimento ivi enunciato».
- le modalità di ricerca e soccorso in mare da parte della nave non devono aggravare situazioni di pericolo a bordo né impedire di raggiungere tempestivamente il porto di sbarco. Inoltre:
- nel caso di operazioni di soccorso plurime, le operazioni successive alla prima devono essere effettuate in conformità agli obblighi di notifica e non devono compromettere l’obbligo di raggiungimento, senza ritardo, del porto di sbarco. Qui occorre preliminarmente osservare che qualora una nave abbia raccolto alcune persone in rischio di naufragio e stia avviandosi verso il Pos indicato dalle Autorità, ha comunque l’obbligo, sulla base del diritto del mare, di soccorrere altre persone, qualora sia raggiunta da una comunicazione del loro pericolo e sia in grado di poterle accogliere. Tale obbligo non può venir meno sulla base di un provvedimento di un singolo Paese, tantomeno ai fini della regolazione degli accessi al suo territorio. È opportuno ricordare l’articolo 98 della Convenzione Unclos del 1982, che prevede che ogni Stato deve esigere che il comandante di una nave che batte la sua bandiera, nella misura in cui gli sia possibile adempiere senza mettere a repentaglio la nave, l’equipaggio o i passeggeri, debba procedere quanto più velocemente possibile al soccorso delle persone in pericolo, se viene a conoscenza del loro bisogno di aiuto, nella misura in cui ci si può ragionevolmente aspettare da lui tale iniziativa. Relativamente alla ventilata previsione di sanzioni in merito, per il comandante dell’imbarcazione, potrebbe palesarsi in sede di applicazione la scriminante dell’articolo 51 c.p. dell’adempimento di un dovere imposto da una norma giuridica.
La sanzione amministrativa:
Il passaggio da reato penale a sanzione amministrativa che può essere letto come elemento depenalizzante può avere effetti molto peggiori rispetto all’attività in sé operata da chi presta soccorso in mare. Occorrerà valutare quali sanzioni amministrative saranno imposte. Resta tuttavia il punto fermo del Garante nazionale consistente nel fatto che la valutazione da parte della Magistratura è comunque elemento di garanzia rispetto a sanzioni che abbiano effetti, sul piano pratico, anche maggiori e che vengono imposte dal potere amministrativo.
Certamente la lettura del testo definitivo sarà in grado di chiarire molti aspetti e sciogliere le attuali perplessità, qui sopra espresse. In tale prospettiva il Garante nazionale dei diritti delle persone private della libertà personale ha inteso pronunciarsi già sul testo così provvisoriamente illustrato dagli Organi di informazione e ribadisce la sua volontà di un costruttivo dialogo in merito. Un dialogo che tiene presenti i diritti e le necessità primarie, incluso il soccorso, di chi mette in mare la vita propria e quella dei suoi cari in cerca di un “altrove” migliore, il diritto della collettività a essere rassicurata circa la presenza di persone irregolari sul proprio territorio, il diritto dell’Ordinamento a non essere esposto a rischi di censura rispetto a quegli impegni che costituiscono l’ossatura del proprio sistema democratico.
Roma, 30 dicembre 2022
Mauro Palma
8/3/2024 https://www.a-dif.org/
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