Gaza. Non chiamateci eroi

A Gaza, la sopravvivenza non riguarda il coraggio. Riguarda il sopportare l’insopportabile.

Fonte: English version

Roaa Shamallakh – 25 novembre 2024

L’aria era pesante, piena di cenere e fumo che mi bruciavano la gola a ogni respiro.

Mi sono accovacciata dietro un muro rotto, tenendo stretta una bottiglia di acqua sporca che non potevo permettermi di sprecare.

In alto, il rumore delle schegge che squarciavano il cielo era assordante. Da qualche parte dietro di me, un carro armato si avvicinava.

Non ho pensato; mi sono semplicemente mossa. Le gambe mi hanno portato in un altro angolo, un altro fugace senso di sicurezza.

Non ero coraggiosa e non ero un’eroina. Stavo solo cercando di sopravvivere.

Durante il Genocidio, sono rimasta nel Nord di Gaza per sette mesi.

Le persone chiamano questo rifiuto di essere sfollati un atto eroico. Parlano di me come se fossi una specie di leggenda, immortalata in canzoni e video.

Ma quello che non vedono, quello che non riescono a vedere, è che tutto quello che stavo facendo era seguire il crudo istinto di vivere.

Il mondo ama mitizzare gli abitanti di Gaza, trasformare la nostra sopravvivenza in storie di coraggio e Resilienza. Ma qualcuno si ferma a chiedersi cosa significhi davvero vivere in questo modo?

Qualcuno si è mai chiesto come riusciamo a sopravvivere al ciclo infinito di morte, distruzione e perdita? Io non credo.

Invece, siamo ridotti a simboli, spogliati della nostra Umanità. È più facile chiamarci eroi che affrontare l’insopportabile realtà delle nostre vite.

Sopportare l’insopportabile

A Gaza, la sopravvivenza non riguarda il coraggio. Riguarda il sopportare l’insopportabile.

Riguarda il bere acqua inquinata, sapendo che ti farà ammalare, perché non c’è più acqua pulita. Riguarda il mangiare avanzi di cibo destinati agli animali, perché alla fame non importa della dignità.

Si tratta di correre a piedi nudi per le strade disseminate di macerie, schivando i proiettili e nascondendosi dai carri armati e da tutti i diversi tipi di armi, e sperando di arrivare al momento successivo. Si tratta di guardare amici e familiari morire, ancora e ancora, e in qualche modo rialzarsi il giorno dopo.

Ma la sopravvivenza a Gaza è più del semplice atto fisico di restare in vita. È il nulla, il vuoto che si insinua quando affronti la morte.

È il rumore dei carri armati che attraversano i quartieri e la capacità di riconoscere i toni distinti delle diverse armi mentre sparano. Sono i Massacri della farina e della fame, l’odore di sangue e polvere da sparo mescolato al bruciore acre del fosforo bianco.

È il modo in cui il tuo corpo inizia a reagire prima che il tuo cervello possa elaborare ciò che sta accadendo, perché ci sei già passata così tante volte.

Questi sono i dettagli di cui nessuno parla. Sono troppo crudi, troppo dolorosi, troppo umani.

Il mondo non vuole sapere niente dei bambini che urlano nel sonno, dei genitori che piangono in silenzio negli angoli degli edifici distrutti o delle persone che camminano tra le macerie alla ricerca non solo di ciò che resta dei loro averi, ma anche dei resti, delle parti del corpo o delle ossa dei loro cari.

Queste storie non si adattano alla narrazione dell’eroismo. Sono le verità silenziose e inespresse della sopravvivenza che il mondo preferisce ignorare.

Sopravvivere per istinto

Durante quei sette mesi, sono sopravvissuta per istinto. Ho seguito gli uccelli per trovare avanzi di cibo, ho dormito in angoli dove i proiettili non potevano arrivare e ho pregato che i muri intorno a me reggessero.

I libri e la filosofia sono diventati la mia via di fuga, non perché migliorassero le cose, ma perché mi hanno dato qualcos’altro su cui concentrarmi.

In tutto questo, una frase mi è rimasta impressa, echeggiando nella mia mente: “Se devo morire, tu devi vivere per raccontare la mia storia”. Queste parole di Refaat Alareer, il mio professore e mentore, sono diventate un’ancora di salvezza.

Mi hanno ricordato che la sopravvivenza non era solo per me, ma per coloro che non potevano più parlare. Le sue parole mi hanno ancorato a uno scopo che non sapevo di avere, anche se tutto intorno a me stava crollando.

Ma anche quella non era forza. Era un meccanismo di sopravvivenza, un modo per sopportare l’infinito ciclo folle di paura e perdita.

Quando le persone mi chiamano eroina perché sono sopravvissuta, non vedono la realtà di ciò che questa sopravvivenza comporta. Non vedono il malessere, la fame, il terrore o l’intorpidimento che si manifesta quando hai visto troppa morte.

Chiamarci eroi significa fraintendere cosa significhi sopravvivere a Gaza. L’eroismo implica scelta, capacità di azione e un senso di scopo.

Ma la sopravvivenza a Gaza non è una scelta, è un istinto, una costrizione. Non riguarda il coraggio, riguarda la necessità.

Il mondo non ci vuole vedere come esseri Umani.

È più facile celebrare la nostra presunta Resilienza che confrontarsi con il fatto che siamo persone normali che sopportano un dolore straordinario. Mitizzandoci, il mondo prende le distanze dalla nostra sofferenza.

Ci trasforma in simboli, spogliandoci della nostra complessità e riducendo le nostre vite a un’unica narrazione.

Ma non siamo simboli. Non siamo leggende.

Siamo persone, aggrappate alla vita in un luogo in cui la vita è costantemente minacciata. Sentiamo il vuoto e la disperazione.

Conosciamo l’odore del sangue, della carne bruciata e del fosforo bianco. Sentiamo i rumori dei carri armati e delle bombe e riconosciamo i toni distinti delle diverse armi.

Queste non sono le esperienze degli eroi. Sono le esperienze di esseri Umani costretti a sopravvivere a orrori inimmaginabili.

Non sono un eroe. Non sono un simbolo.

Sono una persona che è sopravvissuta seguendo l’istinto umano più elementare: sopravvivere.

Eppure, il mondo continua a celebrare la sopravvivenza a Gaza come qualcosa di straordinario, come se sopportare un Genocidio fosse qualcosa di cui essere orgogliosi.

Se il mondo si preoccupasse davvero di noi, non avrebbe bisogno di mitizzare la nostra sofferenza. Non trasformerebbe il nostro dolore in canzoni e video ignorando la realtà di ciò che sopportiamo. Invece, ci vedrebbe per quello che siamo: esseri umani, che vivono un dolore inimmaginabile e cercano di aggrapparsi ai più piccoli frammenti di dignità.

Riflesso degli Oppressi

La sopravvivenza a Gaza non è un trionfo. È una necessità.

Non è qualcosa da celebrare, ma qualcosa da comprendere.

E finché il mondo non smetterà di cercare eroi nella nostra sofferenza, non capirà mai veramente cosa significhi sopravvivere a questo dolore folle e a questo Genocidio.

A volte vorrei urlare e chiedere: noi, la gente di Gaza, non sogniamo come voi?

Non proviamo disperazione quando la speranza ci viene strappata via?

Non siamo feriti quando le bombe squarciano le nostre strade, le nostre case, i nostri cuori? Se ci tagliano, non sanguiniamo lo stesso sangue rosso come chiunque altro?

Se ci vedete in piedi, questo ci rende indistruttibili? Se resistiamo, questo ci rende invincibili?

No. Sopravviviamo perché dobbiamo, non perché siamo fatti di qualcosa di più.

Piangiamo come voi piangete. Soffriamo come voi soffrite.

E anche se siamo chiamati eroi, leggende e simboli di Resistenza, siamo ancora carne e ossa, ancora cuori che vacillano sotto il peso del dolore.

Non abbiamo paura?

Non soffriamo forse per il vuoto di tutto ciò che abbiamo perso?

Non crolliamo quando il peso diventa troppo?

Eppure ci osservate, da lontano, e parlate di Resilienza come se fosse un’armatura.

Ma la nostra Resilienza non nasce dalla scelta. È il riflesso degli Oppressi, l’istinto di Resistere quando non c’è più niente.

Se ci vedete, non chiamateci invincibili. Non chiamateci mitici.

Chiamateci per quello che siamo: Umani. Umani che sanguinano, che piangono, che sperano e che a volte cadono sotto il peso del semplice esistere.

Questa è la realtà della sopravvivenza a Gaza. Non è eroismo; è l’Umanità messa a nudo.

È l’istinto primordiale di vivere.

Roaa Shamallakh è una scrittrice e traduttrice di Gaza.

Traduzione di Beniamino Rocchetto -Invictapalestina.org

11/12/2024 https://www.invictapalestina.org

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