Genocidio a Gaza. “Caro lettore, sì, questa lettera è per te”

La nostra liberazione non verrà mai dall’oppressore che ci lega; verrà dal riconoscere che mentre l’oppressore è uno, noi siamo molti.

di Khadija Dajani, 10 novembre 2024

Fonte:English version

Caro lettore, sì, questa lettera è per te. Ti scrivo in questa forma semplice e cruda perché ciò che ho da condividere non rientra nei limiti di un saggio, né nella rigida struttura della scrittura accademica. Scrivo nella lingua del maestro imperiale, ma piango in arabo. Sogno un futuro plasmato da visioni non umane, per poi risvegliarmi in una realtà definita dall’arroganza umana.

Nel frattempo, mi chiedo: a chi sto parlando? E soprattutto, perché?

La verità è che non sono più adatta né al saggio né al mondo accademico. Per la cronaca, nessuno di questi “sistemi” accoglie la mia presenza. Vengo liquidata con luoghi comuni, “coinvolgente e commovente” in cima alla lista, ma “fuori dall’area di competenza” chiude la porta.

Da quando ho memoria, mi sono aggrappata alle parole di Archimede: “Datemi un punto d’appoggio e muoverò il mondo”. Solo con questa lettera ho capito per la prima volta che si trattava di una richiesta, di un’autorizzazione che stavo cercando. A chi la stavo chiedendo? E perché?

Esito a condividerla con voi, incerta su Archimede stesso. Anche le fonti di conoscenza sono diventate politiche. Esamino la sezione delle bibliografie di ogni libro prima di decidere se immergermi o meno, così come faccio ricerche sull’autore prima di iniziare a leggere. Ironicamente, inveisco contro la politica dell’identità anche se mi ci affido per incasellare ogni autore e decidere quale apparecchio acustico usare mentre ascolto. Sono piena di contraddizioni.

Non fatemi parlare di scrittura. (Tuttavia, concluderò con essa).

Una lettera, perché l’alternativa è contorcermi in una scatola senza vita, ordinatamente contenuta e spogliata d’aria, una scatola creata per servire il tentacolare meccanismo della produzione di conoscenza. Immagina l’accademia come un grande castello di pietra, costruito meticolosamente con le ossa, il sudore e le grida della quotidianità. È un complesso industriale, una fabbrica di conoscenza, completa di catene di montaggio, sorveglianti annoiati e poche élite dalle tasche generose che raccolgono i guadagni.

Questa scatola non lascia spazio per stare in piedi, nessuno spazio per inginocchiarsi e niente aria per respirare. È piena di parole senza vita, inchiostro appannato dalla polvere e dalla noia. Queste opere giacciono negli archivi, montagne di sabbia, le loro pagine sfilacciate dalle tempeste della storia che minacciano di cancellarle. Quanti modi ingegnosi per legare insieme le parole con abbastanza forza da spingere il mondo fuori dal sistema marcio di dominio ed estrazione?

Scrivo da una vita ugualmente ricoperta di polvere – una i cui bordi sono sfocati, fatta eccezione per il sangue che li colora dolorosamente – un promemoria che sono, almeno, ancora viva. Il mio sguardo cade sul mio ombelico (contemplazione dell’ombelico, come si dice). Non perché sia speciale, è banale, beige, del tutto insignificante, ma è l’unico punto su cui riesco a concentrarmi. Essenziale, ridicolmente semplice, eppure in questo momento è tutto ciò che ho.

Ti scrivo perché se non “vomito” queste riflessioni, mi soffocheranno, e già respirare è una lotta. Questa contemplazione dell’ombelico non è indulgenza o narcisismo. È l’opposto: mi espongo per come sono in questo momento, vulnerabile, immobilizzata dalle contraddizioni, ansimante.

Forse anche tu ti senti intrappolato in modo simile. Forse anche tu stai cercando di trovare una via d’uscita dai nodi che ti legano. Se è così, allora insieme possiamo cominciare a districarli.

Non sono state l’accademia o la diplomazia a portare l’agonia dell’occupazione coloniale dei coloni in Palestina alla ribalta del dibattito globale. Non sono stati gli studi o le infinite conferenze di pace a costringere il mondo a confrontarsi con la sofferenza del popolo palestinese e le urla di giustizia vecchie di secoli.

Non è stata la resistenza non violenta. (Ecco, l’ho scritto io. Io, la vegana “compassionevole”, l’amante della vita, madre di cane/i, studentessa di ulivi e fichi, l’HO SCRITTO.)

No, sono stati (alcuni) palestinesi a Gaza (perché scrivere Hamas significherebbe bandire questa lettera alla Guantanamo degli archivi) che hanno osato liberarsi dalla prigione che il mondo ha volontariamente ignorato mentre celebrava la pace fuori dalle sue mura. La loro sfida ha tenuto il mondo per i capelli, costringendolo a guardare direttamente in faccia uno (e ce ne sono innumerevoli) degli atti brutali di supremazia occidentale della storia moderna e della sua progenie.

E poiché penso per metafore, mi appoggerò di nuovo alla metafora del laboratorio di chimica. Riguarda il caro standard aureo del metodo scientifico del nucleo imperiale. In chimica, l’energia, spesso sotto forma di calore, è essenziale per rompere i legami in una molecola stabile, consentendo l’emergere di nuove configurazioni e nuove proprietà. Questa energia “dirompente” iniettata in un sistema stabile (in mancanza di un altro termine) è ciò che consente al cambiamento di verificarsi.

La stagnazione è il malessere del nostro mondo, il sintomo di un profondo squilibrio. Quando il potere è concentrato, quando certe voci sono messe a tacere e quando il danno (contro alcuni) è normalizzato, viviamo in una sorta di “stabilità chimica”, un’inerzia instabile e ingiusta. La vera trasformazione richiede una scossa, un’ondata di energia che sconvolge, sconvolge e rimodella. L’attivismo, le domande critiche e le verità scomode servono ad alimentare questa energia necessaria, abbattendo convinzioni radicate, pregiudizi e strutture che sostengono l’ingiustizia.

Ridicolamente semplice, lo so.

Il caos non è intrinsecamente distruttivo; è la forza che spinge i sistemi fuori dall’autocompiacimento. Proprio come il calore in una reazione chimica può essere distruttivo ma necessario per il cambiamento, questa scomoda resa dei conti con cui alcuni individui (si spera molti) e comunità stanno lottando è la forza necessaria per affrontare le strutture che mantengono l’ingiustizia in atto una volta per tutte. L’”attrito” diventa un calore trasformativo, che rompe i vecchi paradigmi e consente la ricomposizione in qualcosa di più forte, più giusto, più resiliente, al di fuori delle gerarchie di potere che hanno dominato la storia e il presente.

Quindi cosa significa per noi?

Immaginateci riuniti attorno a un falò. Il fuoco è stato acceso grazie all’altruismo degli emarginati. Il nostro compito è tenerlo vivo, assicurarci che la fiamma non si spenga. Lo alimentiamo con tutto ciò che abbiamo per onorare il sacrificio e portare il carico. Alcuni di noi sono destrorsi, altri mancini, potremmo non avere arti. Ciò che conta è che continuiamo ad alimentare, anche se tutto ciò che abbiamo sono le nostre palpebre.

Questo fuoco rivela ciò che è stato a lungo tenuto nascosto. L’oppressore teme di essere scoperto e farà di tutto per restare nell’ombra. Ci devierà, distrarrà, seminerà dubbi, ci dividerà. Cercherà di allontanarci dal fuoco in modo da poter scivolare di nuovo nell’oscurità.

Per mantenere viva la fiamma, dobbiamo rimanere intransigenti nel nostro interrogarci, in particolare sui sistemi che hanno mantenuto invisibili gli oppressori e nascosto gli strati intrecciati di iniquità, dominio e controllo. Ciò include ripensare l’istruzione nel suo complesso e le istituzioni accademiche così come esistono oggi. Se il vero obiettivo dell’istruzione è il progresso, perché allora persistono distruzione e oppressione?

Sto parlando a me e a voi. Perché? Perché l’alternativa è la morte.

L’accademia, idealmente, dovrebbe essere la culla dei cambiamenti di paradigma, uno spazio in cui nascono idee audaci, in cui vengono smantellate strutture obsolete. In realtà, però, la regola è spesso quella di resistere al cambiamento, aggrappandosi alla stabilità intellettuale e alla sicurezza, favorendo teorie che si sentono comodamente lontane dalle urgenze del mondo reale. Questa regola viene sempre applicata con “eccezioni” per garantire un ambiente sterile in cui le discussioni critiche sulla giustizia sono sviate, incapaci di sfidare le strutture di potere esistenti. L’occasionale avventurarsi “fuori” è un tiepido autoconsolarsi, esemplificato dall’uso creativo di qualificativi che riducono la forza vitale anche delle parole prima del ritorno a casa, nella sicurezza del castello (detto anche torre d’avorio).

Il che mi riporta al mio ombelico.

L’“eccezione palestinese” nella cultura in generale, e nel mondo accademico in particolare, è un esempio lampante della stabilità stagnante per mantenere lo status quo e rendere il mondo accademico praticamente inutile. Oggi questa “eccezione” viene finalmente messa in discussione.

Non è stata la resistenza non violenta a portarla alla luce.

Il mio pubblico siete voi. Vi parlo non perché credo che siate il salvatore. Non vi parlo per deferenza o dipendenza. Vi parlo come a un compagno perché la liberazione della Palestina è legata alla vostra, le nostre libertà sono intrecciate. Siamo riuniti intorno a questo stesso falò.

La nostra liberazione non verrà mai dall’oppressore che ci lega; verrà dal riconoscere che mentre l’oppressore è uno, noi siamo molti. La nostra forza risiede nella nostra solidarietà. E per liberarci da questa scatola limitante, abbiamo bisogno di energia, la nostra energia collettiva. La resistenza si presenta in infinite forme. Tutti accendono la fiamma.

La resistenza afferma la dignità, l’autodeterminazione e il rifiuto di normalizzare l’oppressione. Serve a contrastare l’inerzia imposta dal mondo accademico, dalla politica e dai media. Richiede di affrontare verità sconvolgenti sui diritti alla vita, sulla colonizzazione e sull’oppressione sistemica, trasformando la simpatia passiva in solidarietà d’impatto. (Cosa fare quando è necessario usare dei qualificativi?).

Concludo con… l’inizio. Sulla scrittura. La settimana scorsa un anziano palestinese mi ha chiesto di non smettere di scrivere. Era lo stesso giorno in cui mi leccavo le ferite delle lettere di rifiuto – e del ghosting. È stato anche lo stesso giorno in cui mi è stato chiesto di pensare al mio “pubblico di riferimento”.
Questa conversazione conduce sempre:
a) al linguaggio che scelgo per comunicare e
b)  alla forma. Raramente si ricorda lo spirito delle mie parole e l’intenzione con cui vengono pronunciate.

Ti offro – mio lettore – questa lettera nello spirito di onorare la dignità di ogni vita, anche di quella che ha scelto (armata e non) di sacrificarsi per un futuro guarito e riparato. La mia speranza è che tu senta l’arabo della mia anima nell’accento del mio testo inglese.

Traduzione: Simonetta Lambertini – invictapalestina.org

6/1/2024 https://www.invictapalestina.org

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