Germania in crisi: un’analisi della situazione politica ed economica
La Germania è stata la prima vittima della guerra di Ucraina e della rottura dell’Occidente con la Russia, che ha comportato il blocco del gas a buon mercato su cui si fondava l’economia tedesca. Il collasso delle coalizioni che avevano fino allora governato il Paese ne è stata l’immediata conseguenza – e con essa lo sconvolgimento di tutti gli equilibri europei
Die fetten Jahre sind vorbei, gli anni grassi sono finiti. Un modo per dire che è finita la pacchia, o meglio ancora, è finito il tempo delle vacche grasse. Così si intitolava un film tedesco del 2004. Die fetten Jahre sind vorbei è la scritta che i giovani protagonisti della pellicola scrivono sulle pareti delle ville dei ricconi in cui si intrufolano: non per rubare, ma per metterle sottosopra. Un gesto di ribellione politica, una minaccia, un modo per accusare la diseguale distribuzione della ricchezza. Sono passati vent’anni da quel film e nel dibattito tedesco odierno questa frase, die fetten Jahre sind vorbei, circola con insistenza: in Germania è diffuso lo spaesamento, la paura che gli anni grassi questa volta possano veramente essere finiti. Sì perché la crisi tedesca è sulla bocca di tutti, da locomotiva e motore d’Europa a grande malato del continente. Ed è una crisi che si riverbera in molti ambiti, a cominciare dall’economia.
È di inizio dicembre il report OCSE che mette l’economia tedesca agli ultimi posti tra quelle dei paesi industrializzati, con una crescita stimata per il 2025 dello 0,7%, pochi punti percentuale al di sotto di quella italiana (+0,9%). I primi segnali d’allarme, in realtà, erano arrivati già alla fine del 2022, e non a caso. Quando Putin a febbraio di quell’anno ha invaso l’Ucraina, la Germania si è vista costretta a rinunciare ai rifornimenti a buon mercato di gas russo che le avevano permesso negli ultimi vent’anni di mantenere bassi i costi dell’energia. Per alcuni settori chiave dell’industria tedesca, per cui il gas è la più importante fonte energetica (circa un terzo del totale), il colpo è stato duro.
Da febbraio a novembre 2022 l’inflazione è raddoppiata e l’economia ha arrancato. Il gas russo è stato sostituito in fretta da quello liquido americano, ma i prezzi sul mercato restano a oggi alti e gli anni 2023 (-0,3%) e 2024 (-0,2%) sono stati segnati dalla recessione.
A uscirne male è soprattutto la strategia energetica che aveva investito sul legame a doppio filo – quello delle due linee del gasdotto Nordstream – con le forniture di Gazprom. Voluta da Gerard Schröder, ribattezzato “Gerdprom“ proprio per i suoi strettissimi contatti personali con il colosso russo, questa politica è stata proseguita da Angela Merkelm nonostante le proteste dei vicini stati baltici, l‘annessione della Crimea e la guerra in Donbass, e anche l’attuale cancelliere socialdemocratico, Olaf Scholz, avrebbe voluto consolidarla. Alla fine, la politica energetica tedesca è restata invece schiacciata dagli smottamenti del quadro geopolitico, stretta tra l’espansione della NATO verso Est e le ambizioni regionali della Russia. Fuwerra, ghase e crisi.
Guerra, gas e recessione
Del resto la crisi economica della Germania si inserisce in una più ampia riconfigurazione degli equilibri geopolitici, in atto ormai da parecchi anni. Il Paese è passato da essere protagonista della Guerra Fredda a mantenere un ruolo di primo piano anche nel trentennio successivo. La Germania riunificata è stata il perno attorno al quale è stata costruita l’unione monetaria europea alla fine degli anni Novanta. Non era scontato. Dopo la caduta del muro di Berlino non pochi osservatori erano preoccupati dalla rinascita di uno stato tedesco unito, forte, destinato chiaramente a diventare egemone nel continente. Certamente la Germania nell’ultimo trentennio ha rinunciato al protagonismo militare per sviluppare una forte egemonia economica. L’espansione a Est dell’Unione Europea e della Nato ha coinciso non a caso con un’espansione a Est degli interessi economici tedeschi, guidati dall’industria automobilistica e dal rafforzamento del legame energetico con la Russia di Putin. La Germania ha indirizzato la risposta europea alla crisi del debito del 2010, dettando il paradigma dell’austerità dei conti pubblici. Dunque un ruolo guida e una capacità, sostenuta dalle spaventose potenzialità economiche del paese, di plasmare l’Europa del post guerra fredda a propria immagine e somiglianza. Una leadership che Angela Merkel ha tentato alla metà degli anni 2010 di rendere globale. Prima aprendo le porte a un milione di profughi siriani nel 2015 (il primo milione, accogliendo dunque in gran parte forza lavoro qualificata). E poi tentando di accreditarsi come punto di riferimento del “mondo libero” quando, a partire dal 2016, la Brexit e l’elezione di Donald Trump sembravano mettere in crisi la leadership culturale globale angloamericana.
Questi equilibri geopolitici sono negli ultimi tre anni cambiati radicalmente. Putin, con l’invasione dell’Ucraina, ha di fatto messo in discussione l’esito della Guerra Fredda e ha sfidato il mondo unipolare a guida statunitense in cui gli interventi militari erano presentati come operazioni di polizia, atti a garantire la pax americana. La Germania, che da decenni si era posta come l’interlocutore principale di Putin, non ha saputo fare altro che mettersi l’elmetto rinunciando a qualsiasi ruolo di mediazione.
Fra l’altro rompendo uno degli ultimi tabù che ancora resistevano del mondo post-1945, quella della sua necessaria irrilevanza militare, e lanciando una corsa al riarmo da 100 miliardi di euro. Dunque la capacità attrattiva e di leadership del Paese è sempre più compromessa, soprattutto nell’Est del continente, particolarmente esposto durante il conflitto in corso e area di espansione classica dell’economia tedesca. Ma è sempre più messa in discussione all’interno della Germania stessa, dove gli squilibri della riunificazione si stanno incarnando nell’inesorabile avanzata dell’estrema destra nelle regioni a Est del Paese. A questo si è aggiunta la crisi mediorientale che ha toccato un altro nervo scoperto dell’identità tedesca, vale a dire il rapporto con Israele. Le classi dirigenti, da sempre schierate senza se e senza ma con lo Stato ebraico, si sono confrontate con una mobilitazione pro-Palestina inedita in Germania. Mentre la repressione e la censura di qualsiasi forma di protesta aprono la questione dello stato di salute della democrazia e dei diritti, viene meno anche la supposta “superiorità morale” della politica tedesca nella sua lotta a un concetto di antisemitismo ormai del tutto deformato. Quale moralità pretende ancora di avere un governo che, in nome del nie wieder, il “mai più” riferito all’Olocausto, invia armi in sostegno di un genocidio?
L’altro fattore di crisi riguarda il rapporto con la Cina e il mercato dell’auto. Per l’economia tedesca, la Repubblica Popolare è stata fino al 2023 e per otto anni di seguito il primo partner commerciale a livello mondiale. La Germania ha esportato in prima linea automobili e annessa tecnologia e l’industria automobilistica ha macinato profitti. Il quadro, tuttavia, da qualche anno è radicalmente cambiato.
Anche la Cina, infatti, ha cominciato a mettere a produzione il suo know how nel settore, fabbricando veicoli ad alto contenuto tecnologico e a prezzi competitivi, soprattutto per i modelli elettrici. Una concorrenza che si è sviluppata così velocemente da mettere in difficoltà i grandi gruppi automobilistici occidentali, Volkswagen in primis, che sembrano essere stati presi in contropiede dall’efficienza del capitalismo pianificato cinese.
Nonostante il fatturato record del marchio nel 2023 (+15,5%), l’amministratore delegato di Volkswagen Oliver Blume ha parlato di potenziali perdite future per miliardi di euro. Dall’alto dei suoi 10 milioni di euro di stipendio annuo, ha puntato il dito sui cosiddetti “costi del lavoro” in Germania, annunciando la possibilità di licenziamento per 30mila lavoratori su un totale di 120mila e la conseguente chiusura (per la prima volta) anche di alcuni stabilimenti tedeschi.
Una decisione scioccante, se si pensa al significato della storica casa automobilistica: non solo uno dei marchi più identificativi per il Paese, ma anche un modello di relazione capitale-lavoro di cui la Germania per decenni è andata fiera, fatto di concertazione sindacale, cogestione aziendale e bonus produttivi per una classe operaia con stipendi mensili di circa 4000 euro. A nulla sono servite finora le proposte avanzate dal sindacato IG Metall.
Il consiglio di fabbrica si è detto disposto a rinunciare agli aumenti salariali previsti dai contratti nazionali per far confluire i soldi in un fondo di solidarietà ed evitare così chiusure e licenziamenti di massa. Ha delineato anche un piano industriale per i prossimi dieci anni, basato su investimenti in tecnologia che rendano di nuovo competitivo il marchio, ma il quarto round di concertazione con l’azienda è andato a vuoto. In questo contesto, il 10 dicembre davanti a tutti gli stabilimenti più di 100mila lavoratori hanno scioperato.
Come andrà a finire questo braccio di ferro, dipende anche dalla politica: quando nel 1960 l’allora Germania Ovest decise di privatizzare la Volkswagen, dichiarò per legge che le decisioni più importanti venissero prese con una maggioranza dell’80% e che i Bundesländer dove sorgevano le fabbriche dovessero possedere il 20,2% delle azioni. È dunque anche una questione di politiche industriali ed è significativo che, proprio in queste settimane, anche la politica tedesca sia entrata in crisi.
La caduta della coalizione semaforo
Dal 2021 governa la Germania la cosiddetta coalizione semaforo, dal colore dei partiti che la compongono: Socialdemocratici, Verdi e Liberali, rosso, verde e giallo. Si tratta di una assoluta novità nella storia politica tedesca (occidentale) dal 1945. Non solo questi tre partiti non avevano mai governato insieme, ma, cosa ancora più importante, mai una coalizione di governo era stata composta da più di due partiti. La coalizione semaforo si è sin da subito dimostrata incapace di gestire una situazione interna e internazionale particolarmente complessa, fra le conseguenze del lockdown e la guerra in Ucraina, l’inflazione galoppante e la crisi industriale. Costantemente litigiosi e divisi sui temi più importanti, soprattutto sulla politica fiscale e sulla politica ambientale, il governo è entrato in crisi a novembre. La rottura finale è stata fra Olaf Scholz, il cancelliere socialdemocratico, e Christian Lindner, ministro delle Finanze liberale, il quale pretendeva, nella legge di bilancio, una riduzione delle tasse ai ceti più abbienti che invece Scholz non era disposto a concedere. I due si sono reciprocamente accusati di avere causato la caduta del governo, anche se alcuni documenti emersi nelle scorse settimane hanno mostrato come la crisi fosse stata programmata in anticipo e intenzionalmente “pilotata” da Lindner e dalle FDP in grande calo di consensi. Scholz porrà la questione di fiducia a dicembre che, se come è certo, il Bundestag non approverà, porterà a elezioni anticipate il 23 febbraio.
È questo il sintomo di una crisi che ha pochi precedenti nella storia tedesca. Solo altre tre volte il Parlamento è stato sciolto in anticipo. Nel 2005 e nel 1982 fu però una strategia politica deliberata dei cancellieri di allora, rispettivamente Gerard Schröder e Helmuth Kohl, che scelsero la via delle elezioni anticipate per rafforzare o legittimare il proprio consenso nel paese. Prima ancora, era il 1972, il Bundestag era stato sciolto dopo che la coalizione social-liberale guidata dal socialdemocratico Willy Brandt era entrata in crisi.
Allora furono molti parlamentari, sia della SPD sia dei Liberali, a sfilarsi dalla maggioranza in contrasto alla Ostpolitik del cancelliere che stava aprendo al blocco sovietico, inclusa la Germania Est. Altri tempi, dunque, o altre circostanze. Quella del 2024 è invece una crisi politica “all’italiana” potremmo quasi dire, che ha origine nella differenza di vedute di due partner di coalizione sulla legge di bilancio. Tanto più clamorosa a fronte della continuità dei sedici anni di governo di Angela Merkel, celebrata in tutta Europa e non solo come l’unica politica di rango degli ultimi decenni. Tuttavia Merkel, abilissima nell’arte del compromesso, con Putin, come con i socialdemocratici, ha sacrificato qualsiasi visione politica per il futuro sull’altare di una stabilità politica che si sta rivelando sterile.
La Germania è rimasta ancorata a un perpetuo presente, a un torpore anestetico. E così la grande coalizione, inizialmente pensata per assicurare un governo al Paese nel caso nessun altro governo fosse possibile, è diventata una strategia politica. La strategia del weiter so, avanti così, del disinnescare qualsiasi prospettiva di cambiamento, non cambiando nulla affinché nulla cambi. Adesso i problemi sotto il tappeto stanno saltando di nuovo fuori. Una riunificazione tedesca mai davvero compiuta, l’avanzata dell’estrema destra e più in generale il vuoto che Merkel ha lasciato dietro di sé proiettano la politica tedesca verso un futuro quanto mai incerto.
17/12/2024 https://www.dinamopress.it
Immagine di copertina: Berlin Migrant Strikers su Facebook
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