Giovani comuniste/i nell’Italia di oggi. Prospettive di militanza. Uno sguardo su come i giovani possano combattere ed a salvare il proprio futuro

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Paolo Bertolozzi

coordinatore nazionale dei Giovani Comunisti/e di Rifondazione Comunista

Ogni anno l’INPS aumenta la previsione dell’età a cui andranno in pensione i giovani di oggi. Un giovane che ha iniziato a lavorare nel 2023 andrà in pensione, secondo queste previsioni che alle volte sembrano più degli oracoli di Delfi che reali strumenti di analisi, a 69 anni e 10 mesi. Un giovane che inizia a lavorare nel 2024 andrà presumibilmente in pensione a 70 anni, se il trend va a confermarsi. Ovviamente presumendo che questo giovane inizi a lavorare regolarmente, con i contributi regolarmente versati sin dal primo giorno. Conoscendo la realtà lavorativa italiana questo ultimo assunto ovviamente non sussiste dato che nella stragrande maggioranza dei casi i giovani lavorano senza alcuna garanzia, figurarsi se vengono versati i contributi.

Per la prima volta dopo decenni i giovani di oggi non vivranno meglio dei loro genitori, invertendo la narrazione delle magnifiche sorti e progressive che ha informato il nostro sistema capitalistico illudendoci che la crescita ed il miglioramento delle condizioni economiche sarebbe stato infinito e progressivo perché massimo sarebbe stato il progresso delle tecnologie e delle conoscenze scientifiche. Robert Solow, sostenitore di questa tesi, avrebbe un bel da fare per giustificare le cicliche crisi sempre più frequenti che investono questo capitalismo “digitalizzato”.

Dunque per un giovane la prospettiva anticapitalista dovrebbe essere l’unica via da intraprendere, anche per un mero istinto di sopravvivenza. In Italia però si assiste ad una crisi della militanza giovanile di sinistra, soprattutto se paragonata ai grandi movimenti del ‘900 ed i comunisti e le comuniste ormai sono tagliati fuori dall’agone politico cosiddetto “mainstream”. Vi è stato negli ultimi anni però un tentativo di ripresa della conflittualità da parte dei giovani su due temi: l’ambiente e, in questi mesi, la questione palestinese. Tra il 2018 ed il 2019 si è verificata l’avanzata del movimento Fridays For Future che in Italia ha visto scendere in piazza centinaia di migliaia di giovani i quali chiedevano a gran voce l’impegno della classe politica nel fermare il cambiamento climatico dovuto alle attività antropiche. Purtroppo dopo alcuni anni il reflusso del movimento ambientalista è stato quasi completo ed ha perso quel carattere di massa che ha avuto all’inizio. Le spiegazioni di ciò sono varie e sicuramente dettate anche da una mancanza di strutturazione reale del movimento e di una generalità delle parole d’ordine e dei contenuti.

Sicuramente interessante è l’attuale movimento per la Palestina, che dal 7 ottobre sta avendo un grande spazio e una grande visibilità. La forza del movimento in questo caso, contrariamente al movimento FFF dove la componente maggiore era rappresentata dagli studenti medi, sono le università: università che dopo alcuni anni tornano ad essere un luogo di conflitto. La contestualizzazione di questi due fenomeni di movimento però si rende necessaria, anche per coglierne le differenze. FFF ha avuto un carattere più di massa, generico ed ampio, riconducibile solo in parte ad un pensiero di sinistra radicale (o di sinistra in generale). La genericità delle parole d’ordine possiamo dire essere stata la croce e la delizia del movimento: tante persone in piazza ma poca capacità di strutturazione e di continuazione della lotta nel tempo.

Il movimento per la Palestina invece si caratterizza per una maggiore politicizzazione dei suoi componenti ed una maggiore vicinanza alle istanze di sinistra e comunista, rendendolo sì un movimento ampio ma più di avanguardia rispetto a FFF e con minori capacità mobilitative generali.“Questi due episodi rappresentano sicuramente una speranza ed mostrano come una capacità ed una voglia di conflitto siano ancora presenti tra i giovani. Ma la puntualità dei due movimenti mi spinge però a ampliare l’analisi e la dissertazione andando a giungere alla conclusione che in un humus culturale neo-liberista dove l’importanza della massima realizzazione (economica) dell’individuo sovrasta il benessere della comunità nella quale l’individuo stesso è inserito, la maggioranza dei giovani rimane ancora aliena alla militanza ed all’impegno politico. Ciò è avvenuto per una serie di motivi veramente complessi da riassumere in un breve spazio, ma a mio avviso la principale spiegazione non può che essere trovata nella “propaganda di regime” fatta dal grande capitale nel corso degli ultimi 30 anni.

L’agire collettivo è stato scalzato dall’individualismo spudorato; il voler lottare per una società migliore è divenuto il voler essere imprenditori e padroncini. La destra ha letto Gramsci e, magari al contrario di chi si definiva gramsciano, lo ha applicato in pieno. Oggi la categoria con la quale si prova più empatia è quella dell’imprenditore, dell’homo novus che si è fatto da solo (spesso in realtà utilizzando una cospicua eredità familiare) e non più quella del lavoratore, del proletario che non riesce ad arrivare a fine mese. Il primo ha vinto alla lotteria della vita, il secondo ha perso e deve lamentarsi il meno possibile. In un contesto come questo la politica e l’agire politico diviene per un giovane ben poco attraente, anche magari per la velleitarietà di questo. Ancor di più diviene poco comprensibile la militanza in un partito organizzato ed addirittura comunista.

La nostra azione come Giovani Comunisti/e quindi mira a riportare alla militanza organizzata una serie di giovani che credono ancora nella necessità di un cambiamento reale dello stato di cose presenti. “Nel concreto i piani di azione di una giovanile comunista dovrebbero essere principalmente tre: l’azione di affiancamento a quei movimenti e collettivi studenteschi che raccolgono una grande quantità di giovani che però spesso sono molto poco politicizzati, la formazione dei propri militanti (in un periodo dove i partiti hanno perso la loro capacità formativa) e l’intersecarsi con la società reale, senza avere paura anche di sporcarsi le mani. La prima di queste opzioni sicuramente è la più immediata da realizzare e prende a piene mani (seppure adattandola ai contesti) alla teoria leniniana del partito come avanguardia. Ovviamente l’enorme apparato teorico marxista non deve essere usato come un vangelo del quale fare esegesi (come viene fatto da molti gruppi della cosiddetta “sinistra comunista” che proprio per loro decisione rinunciano alla lotta quotidiana per dedicare il loro tempo alla precisa analisi dei testi marxisti, in attesa che arrivi la grande crisi) ma come punto di partenza di prassi ed analisi al fine di sviluppare le proprie pratiche.

L’agire in quel fenomeno plurale e vario che è il movimento studentesco e giovanile non è di certo semplice, poiché in gioco subentrano sempre una serie di variabili che rendono complesso riuscire ad individuare un’unica elaborazione ma che invece pretendono di valutare ogni situazione locale come un sistema a sé stante. La messa in essere però di determinati comportamenti, come per esempio mettere su il collettivo nella propria scuola o nella propria città, aderire ai movimenti e fare proselitismo, altro non è che mettere il primo mattone della costruzione di un soggetto politico comunista giovanile che riesca ad incidere veramente.

In secondo luogo la formazione dei propri militanti risulta essere un punto chiave dell’attività di una giovanile comunista. Il ruolo formativo del partito (ricordiamoci la scuola delle Frattocchie del PCI) si è in generale perso ed i quadri militanti spesso e volentieri devono imparare quasi da soli, per prove ed errori, senza avere una guida teorica e pratica. Spesso e volentieri l’apprendimento della teoria comunista viene lasciata al singolo e non all’apprendimento collettivo e dibattuto, cosa che ha fatto perdere soprattutto alle nuove generazioni la capacità di argomentare dialetticamente una posizione politica. La formazione di certo non vuol dire solo la rigorosa lettura dei testi di riferimento, ma vuol dire anche formazione su ciò che accade nella militanza quotidiana: dalla scrittura di un comunicato alla presentazione di una lista alle elezioni comunali, da come si raccolgono delle firme al come si chiede il permesso per un corteo in questura.

La semplificazione della politica ha permesso questo fenomeno di “elitarizzazione” della formazione politica, riservandola solo agli altissimi quadri dirigenti e non anche alla base. Ciò ha portato in primo luogo alla perdita di un patrimonio di conoscenze ed in secondo all’arretramento della prassi e dell’analisi. La terza opzione è quella che credo invece debba essere propria di un partito comunista e di una sua giovanile, seppur nel concreto sia la più complessa. Il partito comunista è il partito della classe operaia affermava Marx, ma ad oggi in Italia nessuno dei tanti partiti comunisti (o che tali si definiscono) presenti può affermare di esserlo.
Al massimo può affermare di essere il partito di una ridottissima avanguardia operaia, ma anche questo è assai dubbio.

In un paese dove più del 50% dei cittadini e delle cittadine non va a votare poiché crede che sia effettivamente inutile e non si sente rappresentato dalle forze in campo, il compito di un partito comunista sarebbe proprio quello di stare in questi settori di società che spesso e volentieri sono anche i più disagiati a livello socio-economico. Un partito comunista deve sporcarsi le mani e rendersi utile alla persona comune e fare ciò che gli altri non fanno: aiutare senza chiedere favori in cambio. Questo è il compito storico anche di una giovanile comunista, capire quali sono i disagi dei giovani di oggi e cercare di far capire come le loro problematiche siano direttamente causate dal sistema neoliberista in cui siamo e come solo una prospettiva anticapitalista possa essere il rimedio. L’unione di queste tre pratiche potrebbe effettivamente dare dei concreti risultati in termini di radicamento sociale e territoriale permettendo al partito ed alla giovanile di ricostruire quella connessione con la società che da troppo tempo manca.

I giovani sono sempre stati un segmento di società intrinsecamente rivoluzionario o quantomeno portatori di una volontà di cambiamento rispetto allo status quo ante. Anche in questo contesto storico il ruolo dei giovani può essere decisivo, serve però necessariamente uno strumento fondamentale: la militanza. Solo militando e agendo in prima persona si potrà almeno tentare di sovvertire lo stato di cose presenti e di migliorare un futuro che non si prospetta per niente roseo.

Paolo Bertolozzi

Precedentemente membro del coordinamento nazionale dei GC, è stato anche coordinatore provinciale a Lucca.
È Studente di Giurisprudenza al quinto anno

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