Giovani, donne e impiego nella salute globale
Il 2017 è stato un anno importante che ha accesso i riflettori sui diritti delle donne. La Commission on the Status of Women dell’ONU ha evidenziato due concetti chiave, quello della disparità salariale e quello della femminilizzazione della povertà, strettamente correlati tra loro. In un contesto meno specialistico, la rivista Time ha conferito il premio Persona dell’anno alle “Silence Breakers”.
“The Silence Breakers. The Voices that launched a Movement” è stato il titolo della copertina del settimanale che ha presentato letteralmente: “Coloro che hanno rotto il silenzio. Le voci che hanno lanciato un movimento”; ovvero le donne che coraggiosamente hanno denunciato le molestie sessuali subite sul lavoro, a cominciare dalle attrici, a seguito del caso Weinstein. Il movimento #MeToo ha visto le donne schierarsi insieme contro la violenza di genere e farsi sostenitrici e garanti affinché le vittime sopravvissute avessero accesso alle risorse per ottenere giustizia e sicurezza. Il settimanale ha dato voce a centinaia di migliaia di voci di donne che hanno detto basta ad abusi di potere, violenze, battute ambigue, sguardi ammiccanti e palpeggiamenti.
Ma non è abbastanza: è necessario capire, mettere le cose in relazione, cercare nessi e farsi promotori e promotrici di cambiamento.
Le giovani donne, stagiste nell’ambito della salute globale
“Nelle istituzioni universitarie e sanitarie, il lavoro intellettuale delle donne a volte non è retribuito”, continua l’articolo su The Lancet[1]. Molto del lavoro negli ambienti accademici è svolto da donne eppure le evidenze mostrano come circa il 70% degli stage non retribuiti e sottopagati in questo settore riguardi le giovani donne.
L’equità di genere è un imperativo morale necessario[2]: sebbene le donne rappresentino più della metà delle donne laureate in medicina e scienze e il 70% della forza lavoro nella salute globale sono poco rappresentate a livelli apicali. Negli Stati Uniti, ad esempio, le donne costituiscono il 45% degli assistenti nelle scienze cliniche accademiche, ma sono solo il 35% dei professori associati e solo il 22% dei professori ordinari. I numeri sono similmente sbilanciati nelle scienze mediche di base, dimostrando come il sistema faccia acqua da qualche parte, disperdendo gli studi e il potenziale delle donne.
“Gli stage non retribuiti ipotecano anche le condizioni di lavoro future, il futuro salario, favoriscono il lavoro precario ed esacerbano le disuguaglianze di reddito”, si legge nel commento. Se è vero che i tirocini non retribuiti sono comuni nell’ambito della salute globale, consentire al lavoro non retribuito di rappresentare una così grande percentuale del lavoro professionale delle giovani donne può accrescerne la vulnerabilità professionale ed umana. Se per affermarsi e stabilizzarsi professionalmente una donna è costretta a svolgere un lavoro non retribuito, la probabilità che si trovi costretta a relazioni di supporto/dipendenza finanziaria cresce. Per una donna sarà sicuramente più complicato lasciare un ambiente di lavoro dove si trova ad affrontare molestie sessuali, lasciare un partner violento o affrontare la questione da un punto di vista legale per via degli alti costi finanziari che segnalare un abuso comporterebbe.
Questa continua svalutazione del lavoro femminile contribuisce in maniera significativa a determinare e favorire la femminilizzazione della povertà e mina tutti progressi compiuti verso almeno due dei Sustainable Development Goal (SDG), il quinto che riguarda l’uguaglianza di genere e l’ottavo che riguarda il lavoro dignitoso e la crescita economica. Nel commento si sottolinea come le opportunità professionali non retribuite non siano mai funzionali a far progredire le carriere delle giovani donne, piuttosto limitano le loro possibilità e la loro capacità di mitigare l’impatto della violenza basata sul genere. E cosa c’entra la povertà? Per potersi permettere settimane o mesi di lavoro non retribuito bisogna essere benestanti, contare su una rete di supporto… offrire stage non retribuiti significa continuare a riservare preziose esperienze di sviluppo professionale esclusivamente a persone benestanti; è una forma di violenza strutturale, che esclude di fatto le giovani donne economicamente emarginate – la cui rappresentazione è necessaria nelle istituzioni sanitarie globali – dai percorsi e dalle posizioni di leadership.
Ambienti di lavoro discriminatori, disparità salariali, #MeToo: come intervenire?
Abusi di potere, violenze, battute ambigue, sguardi ammiccanti e palpeggiamenti hanno molto a che vedere con gli ambienti di lavoro discriminatori e le disparità salariali. Ma attenzione spesso si tratta di questioni che riguardano tutte le donne, in generale, che facciano esse il medico o lavorino in una ditta di pulizie, che siano infermiere o panettiere. Al di là della estrazione socio-culturale, le donne sopportano un onere sproporzionato di lavoro non retribuito e sottopagato. Ma non solo, le donne investono molto più tempo degli uomini nei lavori domestici e nell’accudimento familiare, verso bambini ed anziani. Tempo che devono conciliare con quello investito nella propria professione.
È necessario agire con interventi contro lo sfruttamento normalizzato del lavoro femminile e a pensarci bene basterebbe poco: basterebbe pagare le donne per il lavoro professionale che svolgono; una soluzione tanto semplice quanto sovversiva.
Pagare le donne per il loro lavoro professionale è un’azione immediata contro la discriminazione di genere, la violenza e la svalutazione sistemica dei contributi delle donne. È una forma di riconoscimento e contribuisce a rafforzarne lo status sociale, la possibilità di scelta e la capacità delle donne di denunciare o superare la violenza di genere che molte di loro potrebbero trovarsi ad affrontare.
Un cambiamento sostenibile che miri all’equità di genere richiede il riconoscimento del contributo delle donne in modo tangibile. Quali sono le azioni concrete necessarie per affrontare la questione del lavoro professionale non retribuito delle donne nella scienza e nella salute globale?
Per tutti:
- richiamare l’attenzione sul lavoro non retribuito e la questione di equità di genere nel settore della salute e negli ambiti accademici.
- Chiedersi in prima persona: “come tratto il lavoro delle donne nella mia vita professionale?”
- Pagare alle donne tutto il lavoro professionale che viene loro chiesto, pagando i dovuti contributi.
- Farsi promotori di cambiamenti politici locali, nazionali e internazionali che mirino al combattere il lavoro professionale non retribuito.
Per le istituzioni sanitarie globali:
- riservare opportunità di sviluppo professionale retribuite a giovani donne strutturalmente emarginate.
- Stipulare stipendi minimi per tutti le giovane professioniste coinvolte in tirocini o percorsi di ricerca
Per le donne che lavorano nella salute globale: richiedere il pagamento per il proprio lavoro professionale se o quando è possibile, in modo da lavorare verso la normalizzazione questa pratica per altre giovani donne.
Norina Di Blasio
5/9/2018 www.saluteinternazionale.info
Norina Di Blasio, digital content editor, think2it
- McBride B, Mitra S, Kondo V, Elmi H, Kamal M. Unpaid labour, #MeToo, and young women in global health. Lancet 2018; 391 (10136): P2192-2193 DOI:https://doi.org/10.1016/S0140-6736(18)30992-9
- Year of reckoning for women in science. The Lancet 2018: 391 (10120): p513.
DOI: https://doi.org/10.101
Lascia un Commento
Vuoi partecipare alla discussione?Sentitevi liberi di contribuire!