Giovani economiste/i crescono
Una delle mie ultime letture, tra le più singolari, risale ad appena qualche giorno fa; un articolo di Manuela Campanella, ospitata dal sito web di Pietro Ichino e presentata quale “giovane economista”.
In sostanza, ella plaude al superamento dell’art. 18 dello Statuto ed esalta la possibilità di poter (finalmente) affermare che le tutele vere dei lavoratori sono altre: “Indennità di licenziamento per tutti, reddito minimo garantito, servizi per l’impiego specializzati”!
Insomma, a suo parere, “Possiamo dire che la tutela più grande per un lavoratore è un mercato del lavoro sano e ben funzionante. Negli Usa pur godendo di protezioni minime la gente si sente sicura perché alla fine un lavoro si trova sempre”!
Inoltre, la giovane economista, evidenzia di aver studiato con “ottimismo” e divulgato, con euforia e passione, svariati modelli matematici – creati da illustri economisti – in cui si dimostrava che “All’aumentare dei costi di licenziamento quali l’art. 18 anche la disoccupazione aumenta”!
Reputo superfluo dilungarmi più di tanto rispetto alla pseudo sicurezza della quale godrebbe il lavoratore/medio Usa. Credo sia sufficiente ricordare che nel Paese che, tra l’altro, si vanta di “esportare la democrazia nel mondo”, esiste un salario minimo legale che da anni è fermo al livello di $ 7, 25 (equivalenti a € 5,90 lordi); a fronte di un minimo di 11$ orari che consentirebbero a una famiglia di quattro persone di raggiungere appena la soglia della povertà!
S(parlare) quindi di un mercato del lavoro “sano e funzionante”, con riferimento a una condizione nella quale fare due o tre lavori contemporaneamente – spesso senza alcuna copertura sanitaria né possibilità d’iscrizione a un sindacato – è una condizione quasi obbligata e sin troppo diffusa, rappresenta una gratuita forzatura al di fuori della realtà.
Tornando in Italia: relativamente all’elenco dei bei propositi che la Campanella considera, invece, verità già rivelate; “Indennità di licenziamento per tutti, reddito minimo garantito e servizi per l’impiego specializzati”, è evidente che il suo entusiasmo è, nella migliore delle ipotesi, prematuro. Infatti, con una recentissima legge-delega (183/2014) che, a fronte di un’unica certezza – il (sostanziale) definitivo superamento dell’istituto della “reintegra” – lascia presagire foschi scenari per il futuro dei lavoratori, la cautela dovrebbe rappresentare un obbligo ineludibile.
Tra l’altro, del reddito minimo garantito, cui fa riferimento la Campanella, non mi pare ve ne sia traccia nella legge appena approvata. A meno che la stessa non confonda la nozione comune di “reddito minimo” con quella di “compenso orario minimo” – giusto art. 1, lettera g, della legge 183/2014 – che, però, rappresenta tutt’altro strumento!
D’altra parte, già in occasione del suo precedente studio: “Liberalizzare il mercato dalla parte del lavoratore”, la giovane studiosa era incorsa in una grossolana inesattezza includendo impropriamente, tra “i costi di licenziamento”, il trattamento di fine rapporto.
Tfr che, come a tutti noto, non ha nulla a che vedere con i costi del licenziamento ma rappresenta “salario differito” attraverso il quale, in sostanza, il lavoratore – almeno fino all’introduzione dei c.d. “Fondi” e alla recentissima possibilità di riceverlo mensilmente in busta paga – partecipa(va) al “finanziamento” del proprio datore di lavoro; con l’obbligo di restituzione al termine del rapporto.
In questo senso, il suo convincimento: “L’aumento della disoccupazione è direttamente proporzionale all’aumentare dei costi di licenziamento”, ne restava già fortemente compromesso.
E’ anche opportuno evidenziare che in quello stesso studio – al pari di altri (altrettanto) convinti “esperti di turno”, la giovane economista si “accordava” al classico ritornello secondo il quale “Il nostro mercato del lavoro è sempre stato regolamentato in maniera più rigida; con conseguenti tassi di disoccupazione tra i più alti del mondo industrializzato”.
Sarebbe però stata sufficiente anche una rapida lettura dei dati relativi all’Employment Protection Legislation Index, elaborato già da alcuni anni dall’Ocse, per rilevare l’inesattezza di tali affermazioni.
Infatti, come ho già riferito in altra sede (“I conti che non tornano”, Mondoperaio nr. 9/2014, pagg, 12 e 13), l’Ocse – rispetto all’andamento dell’indice di protezione dei lavoratori a tempo indeterminato (Epl), dal 1990 al 2013 – rilevava che in quasi tutti i paesi della zona euro, ad eccezione di Francia, Austria e Irlanda, era stato ridotto il tasso di protezione del lavoro e, quindi, reso più flessibili i loro mercati del lavoro.
Relativamente all’Italia, con riferimento al “Tasso complessivo di protezione” – su una scala da 0 a 6 (dove al 6 corrisponde il massimo livello protettivo) – si rilevava che il nostro era stato il paese maggiormente impegnato nelle politiche di riduzione dell’indice. Si passava, infatti, da un valore pari a 3,82 (nel 1990) al 2,26 del 2013. Una drastica riduzione corrispondente, in termini percentuali, addirittura al 41 per cento.
Tra l’altro, i dati ufficiali Eurostat, relativamente alla c.d. “eurozona”, nel periodo 1990/2013, le avrebbero fornito un’altra preziosa informazione.
“Al ridursi del tasso di protezione (Epl decrescente) e quindi all’aumentare della flessibilità, il tasso di disoccupazione era tendenzialmente aumentato”.
Anche se la correlazione non risultava particolarmente marcata, quello che si evinceva con certezza – come riportato da un approfondito studio (pubblicato da “economiapolitica.it”) di due brillanti economisti dell’Università del Sannio: Riccardo Realfonso e Guido Tortorella Esposito – era che nei paesi “Nei quali si era assistito a più incisivi interventi di deregolamentazione del lavoro, nel periodo suddetto, si erano realizzati i maggiori incrementi del tasso di disoccupazione; in Grecia, come in Portogallo, Spagna e Italia”.
Contemporaneamente, “In Francia e Austria – paesi che avevano adottato provvedimenti legislativi tesi ad aumentare l’indice di protezione del lavoro – i tassi di disoccupazione avevano registrato aumenti particolarmente contenuti; in Irlanda, addirittura, un calo della disoccupazione”.
Altro che “rigidità” tutta italiana!
Concludo con riferimento alla chiosa finale dell’articolo: “Finalmente possiamo dire il Lavoro per definizione non è fisso, bensì legato alla durata dell’impresa che si intraprende oppure alla durata di un bisogno che la produzione soddisfa. Sempre che qualcun altro lo faccia meglio e magari anche a un prezzo più conveniente”.
Se il primato del concetto di flessibilità, impropriamente “declinato” in precarietà, va riconosciuto ai contenuti del decreto legislativo 276/03 – sin troppo spesso (erroneamente e strumentalmente) richiamato quale “legge Biagi” – a Manuela Campanella, cui va l’evidente sostegno di Pietro Ichino, deve essere riconosciuto il merito di aver ampiamente elaborato la nozione di lavoro uguale a qualunque altra merce e di essere l’artefice della nuova figura del mercato del lavoro italiano: il lavoratore “usa e getta”!
Renato Fioretti
Collaboratore redazionale di Lavoro e Salute
24/12/2014
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