Gkn on the road, il ritorno della classe operaia
«Non la manifestazione contro Berlusconi per preparare il meno peggio di Berlusconi o contro Draghi per preparare il meno peggio di Draghi, ma un mondo nuovo in cammino». Che la classe operaia non si sia liquefatta come i suoi nemici storici sostengono è un fatto ormai acclarato. Casomai c’è un difetto atavico di rappresentanza, ma – e anche questo è coerente con la storia del movimento operaio – per occupare uno spazio bisogna prenderselo, anche perché nessuno è mai disposto a regalarlo. Il senso dell’Insorgiamo Tour del collettivo di fabbrica di Gkn, in fondo, è tutto qui: occupare. Eventualmente anche la fabbrica, ma soprattutto il centro del dibattito.
Sabato pomeriggio, davanti ai cancelli della Caterpillar di Jesi, oltre trecento persone hanno partecipato all’assemblea organizzata dal centro sociale Tnt, per un rinnovato tentativo di unire le lotte: la stragrande maggioranza dei presenti era, ovviamente, composta da operai, ma non è assolutamente da sottovalutare la presenza degli studenti, degli esponenti dei collettivi politici e persino dei rappresentanti dei partiti della complicata galassia della sinistra istituzionale.
Se si tratti di riposizionamento tattico o di nuova alba è tutto da vedere e sarà soprattutto il giro d’Italia che i lavoratori di Gkn hanno intenzione di fare fino al 26 marzo – quando a Firenze si terrà una manifestazione che vorrebbe fungere da stati generali – a chiarire se, oltre alla lotta contro i licenziamenti e le delocalizzazioni, esista o meno la possibilità di costruire una piattaforma politica.
Davanti alla Caterpillar, a ogni buon conto, l’atmosfera pare quella dei giorni migliori. C’è la festa, il piacere di stare insieme, di ballare lo ska tra le nebbie dei bidoni che ardono per scaldarsi. C’è anche la volontà di condividere se stessi: nello spazio allestito sotto le bandiere dell’azienda, il tricolore e le stelle e strisce americane, per la Gkn Matteo Moretti non spiega ma racconta i passaggi di una storia che non riguarda soltanto i lavoratori di Campi Bisenzio. Si offre come specchio.
«Siamo i figli della storia industriale di questo paese – dice Moretti –, i posti di lavoro che oggi sono nostri, ieri sono stati di altri e domani saranno di altri ancora. Dobbiamo difendere tutto questo. Noi alla Gkn sappiamo bene cosa voglia dire: da quando, tre anni fa, la proprietà è passata in mano a un fondo finanziario, abbiamo visto la fabbrica impoverirsi. Quando a luglio hanno annunciato la chiusura non ci siamo meravigliati più di tanto, in qualche modo ce lo aspettavamo».
È in quel momento, comunque, che la lotta è salita di livello: la Gkn come lotta reale a Campi Bisenzio e come simbolo di un movimento che va avanti nonostante tutto. La storia della Caterpillar di Jesi è uguale: un giorno di dicembre è arrivato il capo e ha detto che la proprietà ha deciso di buttare fuori tutti.
Se in Toscana è arrivato un compratore (l’imprenditore Francesco Borgomeo), nelle Marche le prospettive rimangono incerte, e l’unica cosa certa è che il prossimo 23 febbraio sarà l’ultimo giorno di lavoro come Caterpilar. Le speranze sono appese agli eventuali compratori – ci sarebbero tre aziende interessate –, ma tutti sanno che il punto non riguarda tanto la ricerca di una proprietà quanto la necessità di mantenere la produzione: andare avanti mutilati, magari con un ingente taglio dei posti di lavoro, vorrebbe dire infliggere un colpo durissimo all’intero territorio. Sullo sfondo, infatti, si vede un orizzonte cupo: a pochi chilometri dalla Caterpillar, all’interporto di Jesi, aprirà presto un gigantesco hub di Amazon.
Per il governo regionale e i vari notabili locali si tratta di una straordinaria opportunità che creerà lavoro, ma a guardare meglio la situazione siamo all’ennesimo giorno della marmotta. Chiudere le fabbriche e aprire degli hub logistici vuol dire impoverire tutti: basta con gli operai, i loro diritti acquisiti e i loro contratti nazionali; adesso è tempo dei lavoratori della logistica, dei diritti negati e della contrattazione aziendale al ribasso. A cosa serve sostituire dei posti di lavoro in qualche modo solidi con degli altri posti più precari? La risposta sibila nel vento da anni ed è parente stretta della teoria per cui la classe operaia non esiste più.
Il confronto tra le storie di Gkn e di Caterpillar serve a capire che da questo attacco o se ne esce tutti insieme o si verrà distrutti uno dopo l’altro. Gli operai lo ripetono spesso: «La nostra lotta riguarda tutti».
Qualcuno, talvolta, lo capisce. È il caso, ad esempio, di un insegnante di Jesi, Ero Giuliodori, che un paio di settimane fa ha portato i suoi studenti a fare lezione davanti alla fabbrica. «È stato un modo – dice – per far vedere ai ragazzi come funzionano le cose di cui parliamo ogni giorno in classe». E le e gli studenti hanno visto il loro futuro. «Se un giorno diventerete manager – ha detto loro l’rsu Donato Acampora – non siate come quelli che arrivano davanti a un’azienda e dicono agli operai che sono tanti bravi ma che comunque la fabbrica va chiusa».
All’assemblea congiunta Gkn-Caterpillar le parole servono a circostanziare una rabbia che può anche spaventare per la dose di ragione (e di ragioni) che si porta appresso: veder crollare la propria vita per motivi di mercato è come sentirsi dire che la propria vita è inutile. A Jesi, Caterpillar smonta e va via perché la dirigenza ha realizzato che, delocalizzando la produzione altrove, i costi verrebbero abbattuti di un quinto, o forse addirittura di un quarto. E non c’è manco la necessità di tagliare per una qualche crisi: il fatturato veleggia intorno a quota 60 miliardi, mentre l’utile netto sfiora i 5 miliardi di dollari. Profits before people, ormai non c’è manco più vergogna ad ammetterlo apertamente.
La forza con cui è emersa la vertenza Gkn ha già prodotto come risultato il ritorno della discussione su un tema come quello delle delocalizzazioni. L’ultima volta che se n’era parlato era il biennio 2008-2010, quando la crisi economica chiuse un numero spaventoso di fabbriche in tutta l’Italia.
Allora si diceva che non c’era soluzione, che se un’azienda decideva di spostarsi altrove è perché da queste parti ci sono troppi diritti e i salari sono troppo alti. Adesso persino alcune frange del Pd si interrogano su come fare, perché la situazione è oggettivamente insostenibile e un nuovo giro di distruzione industriale avrebbe conseguenze tremende per l’intera società italiana. Un dirigente politico di lungo corso come Peppino Buondonno (Sinistra Italiana) la mette così: «Tutti quanti devono capire che la lotta contro le delocalizzazioni e i licenziamenti è una lotta per la difesa della democrazia italiana».
Come convertire tutto questo in progetto politico resta il nodo più complesso da sciogliere. Per ora il raccontare – il raccontarsi – crea legami, getta le basi per qualcosa che, presto o tardi, dovrà necessariamente essere.
Quando si fa sera e l’assemblea si scioglie, la coda di automobili che cerca reimmettersi sull’asse attrezzato dalla strada parallela sulla quale si affaccia l’ingresso della Caterpillar, ricorda un po’ il finale di Vizio di forma di Thomas Pynchon. Nella nebbia i fanali sembrano anelli di una catena. Il numero è la solidarietà che non si spezza.
Mario Di Vito
7/2/2022 https://www.dinamopress.it
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