Glossario della cyberviolenza

Credits Unsplash/RK Lokesh


Il primo passo per difendersi dalla violenza digitale è individuarla, a partire dalle parole. In questa breve guida, abbiamo raccolto 12 espressioni che descrivono i principali comportamenti associati alla cyberviolenza e alle diverse forme in cui si manifesta

Lo sviluppo delle piattaforme digitali ha favorito la proliferazione di forme di violenza online, o cyberviolenza, che colpiscono soprattutto donne, ragazze e minoranze sessuali e di genere. Basti pensare, per esempio, alla possibilità che un contenuto condiviso in maniera non consensuale possa essere visibile, potenzialmente, a chiunque, anche a distanza di anni dalla sua pubblicazione.

Ed è così che in una realtà “onlife”, dove non ci sono più confini netti tra ambienti digitali e non, la violenza diventa multimodale e trova nuovi spazi in cui inserirsi e forme attraverso cui manifestarsi: condivisione di immagini e video intimi (revenge porn), diffamazione attraverso post e messaggi offensivi (trolling), violazione degli account personali di altre persone (fraping).

La cyberviolenza, quindi, può essere definita come qualsiasi comportamento volto all’aggressione, all’intimidazione, alla molestia o all’abuso, agiti attraverso mezzi digitali come internet, social media e altre tecnologie. Si tratta di un fenomeno pervasivo che non risparmia nessuna zona del mondo e che ha dunque una portata globale. 

Purtroppo, i risultati di alcune ricerche indicano una mancanza di definizioni e metodologie coerenti e standardizzate per concettualizzare e misurare la cyberviolenza. In più, la maggior parte della letteratura sul tema è focalizzata sul cyberbullismo tra adolescenti eterosessuali nei paesi ad alto reddito; i dati demografici sulle persone che mettono in atto la cyberviolenza sono limitati, e quasi nessuna ricerca è stata condotta in paesi a basso e medio reddito. 

A questo proposito è interessante citare il lavoro Femtech Toxicity: The Rise of Cyberbullying Among Young African Feminists di Imali Ngusale, discusso in occasione della trentaduesima conferenza annuale della International Association for Feminist Economics (Iaffe). Il tema di quest’anno della conferenza, che si è svolta all’Università Sapienza di Roma dal 3 al 5 luglio 2024 e di cui inGenere è stata media partner, sono state le nuove frontiere dell’economia digitale e la crisi della democrazia. Purtroppo, i dati che la pubblicazione di Ngusale porta alla luce sembrano non discostarsi da quanto accade in Italia e, più in generale, nei paesi occidentali.

A prescindere dalla specifica collocazione geografica, un primo passo per contrastare la cyberviolenza è quello di comprenderla e averne consapevolezza: saper riconoscere le forme in cui può presentarsi e le potenziali situazioni di rischio può rappresentare un utile punto di partenza. Per questo, abbiamo raccolto alcuni dei principali comportamenti classificati sotto il nome di cyberviolenza: catfishing, cyberdating violence, cyberstalking, doxxing, fraping, grooming, hate speech, revenge porn, rinsing, sextortion, trolling, upskirting/downblousing.

Catfishing. L’espressione si riferisce alla creazione di una falsa identità online, con l’intento di manipolare o ingannare qualcun altro. Il ‘catfisher’ utilizza fotografie, informazioni e storie di vita inventate per costruire un profilo convincente su social network, siti di incontri o altre comunità online. Gli obiettivi possono variare: dall’estorsione di denaro o di informazioni personali, alla creazione di relazioni sentimentali o di amicizia. Una volta instaurata una relazione emotiva e guadagnata la loro fiducia, alle persone colpite dall’inganno può essere richiesto di condividere fotografie intime o altre informazioni sensibili, che poi vengono utilizzate come ricatto o per esercitare ulteriore controllo.

Cyberdating violence. Questa forma di violenza è finalizzata a controllare, monitorare, costringere e molestare una/un partner attraverso l’uso della tecnologia digitale. Può manifestarsi a causa di ansia da attaccamento, possessività, rabbia, gelosia e altre emozioni negative. Esempi di comportamenti associati a questa forma di violenza includono, ma non sono limitati, a: invio di messaggi minacciosi, stalking online, imposizione di varie forme di sorveglianza come il controllo costante degli account della o del partner, richiesta di condivisione di password per accedere ad account online o telefoni, monitoraggio delle interazioni online della o del partner.

Cyberstalking. Èun reato che prevede l’uso di uno strumento digitale per contattare ripetutamente, molestare o minacciare una persona, che viene monitorata e perseguitata su una varietà di piattaforme tecnologiche. Rispetto alle forme di stalking offline, la persona che mette in atto il cyberstalking è solitamente estranea a quella che lo subisce. Inoltre, sembrerebbe che il cyberstalking sia più diffuso rispetto alle forme tradizionali di stalking, probabilmente perché le tecnologie digitali facilitano il controllo e la condivisione del messaggio con un maggior numero di persone. È stato ampiamente dimostrato che il cyberstalking può generare gravi impatti sulla salute mentale di chi lo subisce, tra cui ansia, paura, disturbi del sonno, stress post-traumatico, oltre a problemi finanziari provocati dalle misure adottate per aumentare la propria sicurezza, trasferimenti e necessità di sottoporsi a terapie di vario genere.

Doxxing. L’espressione descrive la pratica di raccogliere e pubblicare informazioni personali e private su una persona senza il suo consenso, generalmente con intento malevolo. I dati condivisi possono essere indirizzi di casa, numeri telefonici, e-mail, e più in generale informazioni sensibili. La ricerca identifica sette motivazioni principali alla base del doxxing: estorsione, silenziamento, punizione, controllo, costruzione della reputazione, doxxing non intenzionale e interesse pubblico. Un aspetto importante, secondo la letteratura sul tema, è l’intenzionalità della condivisione: la divulgazione accidentale di informazioni personali non è considerata doxxing.

Fraping. Termine nato dalla combinazione di ‘Facebook’ e ‘rape’ (stupro in inglese).Si riferisce all’azione di accedere senza consenso al profilo Facebook di una persona manipolando le informazioni personali, come l’immagine del profilo, i dettagli anagrafici o le liste di amicizia, e pubblicando messaggi falsi, spesso con riferimenti alla sessualità. Si tratta di comportamenti dannosi in quanto violano l’identità personale della persona colpita, che spesso viene colpevolizzata a sua volta per non aver protetto adeguatamente la propria privacy. Una dinamica che riflette le classiche forme di responsabilizzazione delle persone che subiscono reati sessuali offline. L’uso del termine ‘fraping’ è stato criticato in quanto minimizzerebbe la gravità della violazione associandola a un crimine molto serio come lo stupro. Inoltre, può essere visto come offensivo, specialmente per chi ha subito violenza sessuale, perché può contribuire a ridurre la percezione della gravità del crimine, oltre a riflettere le dinamiche di disuguaglianza tra i generi.

Grooming. Il processo mediante il quale una persona adulta stabilisce una relazione di fiducia con un/una minore tramite internet, con l’intento di abusarne sessualmente. L’adescamento può avvenire attraverso social media, chat room, giochi online e altre piattaforme digitali ed è seguito da azioni volte a mostrare interesse e affidabilità, come complimenti, regali virtuali o supporto emotivo. Il fine ultimo di questi comportamenti è quello di isolare la persona minorenne dalla cerchia di amicizie e da quella familiare, creando un legame esclusivo. Una volta stabilita la fiducia, la persona adulta inizia a introdurre conversazioni e richieste di natura sessuale, che utilizza come strumento di minaccia per mantenere segreta la relazione. Il grooming online può avere gravi conseguenze psicologiche e fisiche per chi lo subisce e spesso sfocia in abusi sessuali sia online che offline.

Hate speech. In italiano, discorso d’odio. Con questo termine si intende una forma di comunicazione che incita all’odio, alla violenza o alla discriminazione contro persone o gruppi in base a caratteristiche come razza, etnia, religione, genere, orientamento sessuale o disabilità, ai fini di umiliare, intimidire, minacciare, mettere a tacere. È importante sottolineare che i discorsi d’odio sono diretti a gruppi e minoranze oppresse storicamente e anche in età contemporanea. Questo significa che un discorso d’odio mette in atto e quindi rafforza e perpetua l’oppressione. In altre parole, costituisce un atto oppressivo, e questa funzione è proprio ciò che lo rende moralmente, socialmente e politicamente discutibile. Le forme di discorso d’odio sui social network possono manifestarsi attraverso la condivisione di messaggi di testo, post, canzoni, immagini, più o meno espliciti nell’intento denigratorio. 

Revenge porn. Si riferisce a un comportamento non dettato da fini strumentali, per ottenere qualcosa in cambio, ma sorretto da obiettivi vendicativi e denigratori. Una prima definizione del fenomeno, apparsa sullo Urban Dictionary nel 2007, descrive infatti il revenge porn come “filmati pornografici confezionati in casa caricati dall’ex fidanzata o (più frequentemente) dall’ex fidanzato dopo una rottura particolarmente violenta, come mezzo per umiliare l’ex o solo per divertirsi”. Chi mette in atto il revenge porn è in via esclusiva l’ex partner, che, per ottenere vendetta, pubblica immagini intime o dal contenuto sessualmente esplicito che hanno al centro la persona che ha posto fine alla relazione sentimentale, destinate a rimanere private. L’utilizzo dell’espressione revenge porn, tuttavia, è contestato da attiviste femministe e ricercatrici, tra cui Emanuela Abbatecola, sociologa all’Università di Genova, che sottolinea come il riferimento all’idea di vendetta rischi di giustificare involontariamente il reato, in quanto direttamente provocato dall’azione di chi lo subisce. La studiosa propone quindi di utilizzare l’acronimo ‘divise’ per riferirsi alla “diffusione illecita di video e immagini sessualmente esplicite”.

Rinsing. Si riferisce all’atto di “ottenere qualcosa in cambio di niente”. Nel contesto dei social network, coinvolge le donne che cercano su internet uomini ricchi per finanziare i loro stili di vita, per vivere dei proventi del loro rinsing, dettando le condizioni delle relazioni che costruiscono, in cui non sono mai previsti rapporti sessuali. Nonostante un’apparente autodeterminazione delle donne che mettono in atto questo tipo di comportamenti, la letteratura sottolinea come queste pratiche siano dettate da desideri e valori modellati dallo sguardo maschile. I guadagni sono utilizzati, infatti, per intervenire sul proprio corpo e il proprio aspetto, adeguandoli a un’idea di femminilità esagerata e oggettivata.

Sextortion. La condivisione volontaria e consensuale di immagini sessuali, il sexting, è una pratica che può avere funzioni positive, come aumentare il senso di intimità con una/un partner, favorire il benessere psicofisico, l’esplorazione della propria identità sessuale e la relazione con il proprio corpo. Quando il sexting è forzato o indesiderato diventa abuso sessuale basato su immagini e può trasformarsi in sextortion, ossia la minaccia di diffondere immagini esplicite, intime o imbarazzanti di natura sessuale senza consenso, di solito allo scopo di procurarsi ulteriori immagini, atti sessuali, denaro o altro. Si parla di sextortion anche nei casi in cui il contenuto sessuale creato dalla persona che subisce la sextortion sia stato inizialmente condiviso volontariamente o se alla minaccia non corrisponde un’azione concreta di diffusione. È stato dimostrato che le persone colpite da sextortion possono essere soggette a depressione, ansia, pensieri suicidari.

Trolling. Dall’inglese to troll (muovere un’esca in modo tale da spingere un pesce ad abboccare) è una forma di cyberbullismo che consiste nel condividere email, post o commenti dai toni provocatori e offensivi con l’intento di incitare una risposta dettata dalla rabbia e attivare le cosiddette “flame war”, ossia guerre di insulti che non hanno alcuno scopo se non quello di autoalimentarsi. Le persone responsabili di questo tipo di comportamenti di solito nascondono la propria identità attraverso profili falsi. La letteratura sul tema distingue il gendertrolling dalle altre forme di trolling, in quanto esponenzialmente più aggressivo, pervasivo e duraturo. Chi mette in atto il gendertrolling prende sul serio la causa e raduna altri utenti per sostenerla, accanendosi contro la persona designata attraverso minacce di stupro e/o di morte e contribuendo a creare contesti digitali in cui viene alimentata la “cultura dello stupro”.

Upskirting/Downblousing. Si definisce up-skirt una foto scattata dal basso, di nascosto ma in contesti pubblici, che ritrae la zona pubica di una persona. Una fotografia down-blouse, invece, viene scattata dall’alto e si concentra sulle zone superiori di un corpo, in particolare sul seno e sulla scollatura. Entrambe le pratiche possono essere definite forme di voyeurismo, come desiderio irrefrenabile di osservare una persona svestita. Sebbene il desiderio alla base dei due fenomeni sia sempre esistito e praticato, ad esempio con degli specchi, oggi episodi di upskirting e downblousing sono più comuni grazie alla tecnologia. Infatti, con l’uso di videocamere nascoste e smartphone è diventato più semplice scattare e distribuire immagini senza consenso.

Riferimenti

E. Abbatecola, Revenge Porn o DIVISE? Proposta per cambiare un’etichetta sessista. AG About Gender-International Journal of Gender Studies, 10(19), 2021.

D. M. Douglas, Doxing: A conceptual analysis. Ethics and Information Technology, 18(3), 199–210, 2016.

H. Imali Ngusale, Femtech Toxicity: The Rise of Cyberbullying Among Young African Feminists. 2023.

K. Mantilla, Gendertrolling: How Misogyny Went Viral. Westport, Connecticut: Praeger, 2015.

Leggi il dossier Economia femminista

Marta Grasso, Claudia Solinas, Giada Stallone

28/11/2024 http://www.ingenere.it/

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