GPA, libertà o mercificazione del corpo? Una prospettiva femminista
Intervista a Valentina Pazè
07.08.23 – Lorenzo Poli
In questi giorni la Gestazione per altri (GPA) è ritornata d’attualità. Sebbene il proibizionismo della destra non sia una soluzione, il lassismo sulla GPA non può esserlo altrettanto in quanto esempio lampante di come, nelle democrazie neoliberali occidentali, sia sempre più preponderante l’affermazione del biocapitalismo, della mercificazione totale della vita. Negli anni il dibattito etico, bioetico e politico sul tema ha visto molta divisione interna nella sinistra, nel movimento LGBTQ e nel femminismo. Dopo decenni di lotte femministe a ribadire che la donna non è un utero che sforna bambini per lo Stato, che la maternità è una possibilità non obbligatoria, un sentimento non egoistico, non legato ai propri geni e alla consanguineità, ma a una relazione di scelta di parentela, di crescita e affetto reciproco, oggi ci troviamo a medicalizzare, per l’ennesima volta, il corpo delle donne e i nostri sentimenti con il rischio di nutrire economicamente le ‘cliniche della fertilità’, normalizzare l’idea della “maternità in vendita”, aprendo involontariamente a pratiche che si avvicinano alla vendita di organi (dal 2014, per esempio, stanno nascendo i primi bambini da utero trapiantato da ‘donatrice’ vivente).
Di questo ne parliamo con Valentina Pazé, docente di Filosofia politica e Teoria dei diritti umani presso il Dipartimento di Culture, politica e società dell’Università degli Studi di Torino che si occupa, in una prospettiva teorica e storica, di comunità, comunitarismo, multiculturalismo, teorie antiche e moderne dei diritti e della democrazia, del populismo, del pensiero politico di Norberto Bobbio e del rapporto tra genere e biologia. Quest’anno ha pubblicato il libro “Libertà in vendita. Il corpo fra scelta e mercato” (Bollati Boringieri, 2023) che affronta le questioni delicate della prostituzione, della maternità surrogata e del velo islamico nella prospettiva del rapporto tra scelte libere e dignità della persona.
In questi giorni, la destra ha riportato la GPA al centro del dibattito. Si tratta di un tema scottante per la società o una mossa propagandistica?
Le ragioni per cui la destra ha fatto della lotta senza quartiere della Gpa una bandiera sono facilmente intuibili. Per un verso, che cosa c’è di meglio, per chi sta disattendendo tutte le promesse elettorali (a partire dal blocco dell’immigrazione) che distogliere l’attenzione dal suo concreto operato agitando una questione più che altro simbolica (visto che la Gpa è già vietata nel nostro ordinamento) ma di forte impatto emotivo, su cui una sinistra balbettante e in stato confusionale sembra non avere nulla da dire? La contraddizione, naturalmente, è stridente, perché la destra ultra-liberista che demonizza la Gpa in nome del rifiuto della mercificazione del corpo femminile non è affatto preoccupata di porre un freno alla mercificazione della salute, dell’istruzione, del lavoro… Per altri versi, la battaglia contro la Gpa si presta ad essere declinata in chiave tradizionalistica, come difesa della famiglia “naturale” e rifiuto dell’omogenitorialità, tutti temi cari alla destra.
In Italia, mentre la destra sta monopolizzando il dibattito di opposizione alla GPA, la sinistra radicale, i movimenti femministi e il movimento LGBTQ+ sono molto divisi su questo tema al loro interno. In Europa invece quasi tutta la sinistra e il femminismo sono contrari GPA. Perché questa differenza?
Al di là della polarizzazione generata dal fatto di avere l’estrema destra al governo, la confusione del PD su questo tema rispecchia la più generale confusione che regna in un partito dall’identità incerta, tuttora senza bussola, che fino a pochi mesi fa brandiva l’agenda ultra-liberista di Draghi e oggi in molti suoi esponenti fa fatica perfino a distinguere il principio di autodeterminazione sul proprio corpo (che va garantito anche contro le pressioni del mercato) dal principio dell’autonomia negoziale. Per la sinistra-sinistra il discorso è più complesso. Per un verso mi sembra che mostri una certa subalternità nei confronti della cultura “radicale” (del Partito Radicale italiano, intendo), che ha da sempre coniugato liberalismo e libertarismo con una buona dose di liberismo economico. Non a caso il ddl che porta la firma dell’associazione Coscioni, riesumato dall’emendamento Magi al progetto di legge discusso di recente in parlamento, prevede che a rendersi disponibile per una Gpa “solidale” possa essere anche una donna che al momento della stipula del contratto è disoccupata o lavoratrice precaria. Un grosso ruolo ha poi giocato nel nostro paese – inutile nasconderlo – la scelta di Nichi Vendola e del suo compagno di avere un figlio ricorrendo a una madre surrogata californiana: una scelta personale, ma anche politica, per il modo in cui è stata pubblicizzata, esibita, rivendicata, che ha contribuito a diffondere l’idea che quella per la legalizzazione della Gpa sia una battaglia “di sinistra”, in difesa dei diritti LGBTQ+ (un unicum in Europa, come ricordavi). Quando, tra l’altro, la Gpa interessa quasi esclusivamente i gay, non le lesbiche.
Molti di coloro che sono a favore della Gpa sostengono che essa sia in fondo una pratica “altruistica”. Secondo lei è una motivazione accettabile?
Quella della Gpa “altruistica” o “solidale” è una bella favola a cui qualcuno (portatore di corposi interessi) vuole farci credere e a cui molti altri, e altre, hanno apparentemente un gran bisogno di credere, per ricomporre in un tutto coerente, desideri, valori, principi, tra loro in forte tensione. Mi diceva un amico gay, di sicura fede progressista: “se ci sono donne disponibili ad aiutare i gay ad avere figli, perché negare loro la possibilità di compiere un atto di generosità?”. Ma il problema è che queste donne non ci sono. Non, per lo meno, in un numero sufficiente a soddisfare una domanda crescente di servizi riproduttivi (non solo per coppie gay), che solo il mercato è in grado di soddisfare. Non a caso, nei paesi in cui è prevista la GPA “altruistica”, le donne si offrono per fare figli per altri solo quando il “rimborso-spese” si attesta su cifre paragonabili a quelle della GPA commerciale. Un discorso analogo vale per la “donazione” degli ovociti: se il rimborso non è cospicuo, le donatrici latitano… Di fatto, là dove esiste, nel mondo (nell’Unione europea in soli quattro Stati: Cipro, Grecia, Macedonia del nord, Portogallo), a prestarsi a questo genere di altruismo sono donne di ceto medio-basso, e di scarso livello di istruzione. Chi oggi difende convintamente la versione solidale della Gpa sarebbe più credibile se proponesse tra i requisiti per diventare madri surrogate il possesso di un contratto di lavoro stabile e di una buona retribuzione. Assisteremmo allora finalmente all’edificante spettacolo di donne medico, docenti universitarie, avvocate, manager, disposte a interrompere generosamente la loro carriera per donare un figlio alle coppie infertili? Temo di no. Nella divisione globale del lavoro, queste donne sono, e rimarranno, semmai, le potenziali acquirenti dei servizi riproduttivi altrui. Alcune multinazionali fin d’ora suggeriscono alle loro impiegate di rimandare la maternità, congelando i propri ovuli. In futuro, là dove la GPA venisse ovunque legalizzata e culturalmente accettata, le donne in carriera potranno permettersi di esternalizzare la stessa gravidanza, accollandone il peso, e i rischi, alle donne povere e alle straniere.
Nel suo libro “Libertà in vendita”, pone l’accento su come la libertà nell’epoca del neoliberismo e delle democrazie di mercato, sia un tema contraddittorio e fallace. Con la GPA, anche l’intimità, sessuale e riproduttiva, rischia di diventare una merce tra le altre? Davvero siamo liberi? E se sì, di quale libertà parliamo?
Libertà è una bella parola, che può significare molte cose. Nella sua accezione più semplice, e più immediata, consiste nella possibilità di fare tutto ciò che vogliamo, in assenza di obblighi e divieti. Non è difficile accorgersi, tuttavia, che una simile libertà “selvaggia” (la libertà dello stato di natura di Hobbes, in cui ciascuno ha “diritto a tutto”, anche “al corpo di un altro”) si traduce nella libertà del lupo di predare l’agnello. Perché ciò non accada, è necessario limitare la libertà del forte, in funzione della difesa del debole. Concetti semplici, che sono all’origine di norme come l’art. 36 della nostra Costituzione che, vietando ai lavoratori di rinunciare alle ferie e al riposo settimanale, rende effettiva la loro libertà di scelta, in contesti asimmetrici, in cui non basta il principio del consenso informato a tutelare le parti deboli del rapporto contrattuale. In base allo stesso principio la Carta di Nizza vieta, all’art. 3, di fare del corpo umano, o delle sue parti, fonte di lucro.
Alcune femministe hanno definito questa pratica come una colonizzazione patriarcale sul corpo femminile[1], una tecno-rapina da parte delle nuove tecnologie riproduttive, nate dal grembo dello sviluppo indefinito dell’attuale società industriale, dipendente dal mercato globale neoliberista dove tutto diventa merce. Quale piega sta prendendo la libertà delle donne alla luce delle nuove tecnologie riproduttive?
E’ paradossale assistere oggi al ritorno delle parole d’ordine del femminismo degli anni Settanta, con un significato sensibilmente diverso da quello originario. “L’utero è mio e lo gestisco io” era uno slogan che serviva a rivendicare il diritto di autodeterminazione delle donne. In relazione all’aborto, sembrava assodato che l’ultima parola dovesse spettare alla donna, non certo al padre che, pure, ha contribuito alla procreazione dal punto di vista genetico. Oggi i contratti che regolamentano la GPA, per lo meno quelli che trasferiscono fin da subito la genitorialità ai committenti (come prevede il ddl Coscioni), mettono in dubbio questo principio. Anche quando è riconosciuto formalmente alla donna il diritto di abortire, o di non abortire (nei casi, non infrequenti, in cui siano consigliabili interventi di “riduzione embrionale”), ci sono le pressioni delle agenzie e dei “genitori intenzionali” (che hanno talvolta fornito, in tutto o in parte, il materiale genetico). E ci sono i condizionamenti economici. Non bisogna poi dimenticare che stiamo parlando di gravidanze fortemente medicalizzate, in cui ogni fase è soggetta a controlli e supervisione, medica e psicologica. Dopo la firma del contratto, di autonomia per le donne ne rimane poca. E l’ultima parola, in caso di controversie sulla genitorialità del nuovo nato, spetta ai giudici, non a colei che ha portato avanti la gravidanza e partorito. Come tutto ciò possa essere compatibile con la retorica sull’autodeterminazione delle donne è per me un mistero.
In Italia, gran parte del femminismo liberale sostiene che la GPA sarebbe un “diritto”. É possibile parlare di diritto quando la sua applicazione coinvolge necessariamente l’uso di soggetti terzi? La riproduzione è un “diritto” o una “possibilità”?
Anche in tema di diritti, esiste oggi una grande confusione. Si dimentica che a ogni diritto corrisponde un dovere altrui, che nel caso di un ipotetico “diritto alla GPA” consisterebbe nell’obbligo, in capo a una donna, di mettere a disposizione il proprio corpo per consentire ad altri di diventare genitori. Il linguaggio dei diritti, tra l’altro, non ha niente a che vedere con quello del dono. Un diritto si esige; un dono no. Ma si dimentica anche, in secondo luogo, che non tutti i diritti possono essere messi sullo stesso piano. I diritti fondamentali, riconosciuti universalmente da norme giuridiche, in genere di rango costituzionale, non sono la stessa cosa dei diritti patrimoniali, che sorgono su base contrattuale e spettano singolarmente a qualcuno, ad esclusione di tutti gli altri. In base alla gerarchia delle fonti stabilita dalla nostra Costituzione, la legge prevale sui contratti, i diritti fondamentali prevalgono sui diritti patrimoniali. Riconoscere validità giuridica ai contratti di Gpa, aventi per oggetto beni personali indisponibili come le parti del corpo umano e gli status legati alla filiazione, significa sovvertire questa gerarchia, stabilendo che il diritto (patrimoniale) dei clienti a ottenere la prestazione concordata prevale sul diritto (fondamentale) delle donne a decidere sul proprio corpo, al riparo da condizionamenti economici, conservando fino all’ultimo la possibilità di riconoscere il figlio che hanno partorito.
La sociologa ecofemminista Laura Corradi ha definito la GPA come una pratica classista che è definita da privilegi economici e geopolitici, ovvero un qualcosa di cui può disporre solo la popolazione bianca occidentale ricca a discapito di altre donne del Sud del Mondo, che hanno minori mezzi economici, status ed educazione. Cosa ne pensa?
Oggi è senz’altro così: donne e uomini ricchi, per lo più occidentali, usufruiscono dei servizi di donne povere del sud del mondo, o anche del nord, tenendo conto che la nozione di povertà è relativa e che a una donna del “ceto medio” negli Stati Uniti i 10.000 dollari guadagnati con la Gpa possono risultare molto comodi per pagare l’assicurazione sanitaria o per mandare un figlio all’università. E tuttavia è impressionante constatare come vi sia, anche a sinistra, chi decide di chiudere gli occhi di fronte a questo fenomeno. L’approvazione, a Cuba, di un nuovo Codice di famiglia, che apre a una forma di Gpa “solidale” riservata a persone unite da legami familiari o amicali, può essere salutata come una conquista di civiltà solo da chi decida deliberatamente di ignorare che cos’è Cuba, oggi, in quale abisso di miseria viva gran parte della sua popolazione dopo decenni di sanzioni economiche. E come sarà agevole per un ricco turista occidentale diventare “amico” di una donna cubana per avere accesso alla sua capacità riproduttiva.
Inoltre la questione riguarda anche il tema della salute delle donne: i problemi di salute materno-infantili correlati all’uso di tecnologie riproduttive e le implicazioni etiche, biologiche e psicosociali connesse. Studi scientifici parlano dell’elevato numero di aborti spontanei e dei danni del bombardamento ormonale che ricevono le gestanti…
Sì, certo. Paradossalmente la versione originaria della GPA (quella “tradizionale”), in cui la gestante era anche la madre genetica del bambino, comportava meno rischi per la salute della donna di quella odierna, che prevede la scomposizione del processo riproduttivo in un maggior numero di soggetti: una donna che offre l’ovocita, un uomo che fornisce lo sperma e un’altra donna nel cui utero viene impiantato l’embrione prodotto attraverso le tecniche della fecondazione in vitro. Questo genere di gravidanza, esito di un’ovodonazione, è esposto a una probabilità di fallimenti e di complicanze, anche gravi, molto superiori a quelle di una gravidanza fisiologica.
Cosa si potrebbe fare concretamente per colmare il desiderio di genitorialità in molte persone (etero ed omosessuali) senza dover ricorrere alla surrogazione di gravidanza?
Intanto non è detto che tutti i desideri debbano, e possano, essere soddisfatti. Posso desiderare moltissimo di avere un partner, ma non riuscire a trovarlo. Posso desiderare un figlio, ma non essere in grado di averlo, per ragioni che attengono alla fisiologia della riproduzione umana. Detto questo, il desiderio di accudire e crescere i nuovi nati può essere soddisfatto anche in modi diversi dalla genitorialità biologica: attraverso l’adozione (che andrebbe aperta anche alle coppie gay) e l’affidamento. O anche attraverso accordi davvero solidali – non mediati da contratti – con amici o parenti felici di condividere le gioie e le fatiche della genitorialità con persone a cui sono legati da vincoli di affetto e amicizia.
[1] Interessante sul tema è stato l’intervento della deputata Luana Zanella, storica femminista ed ecologista, capogruppo di Alleanza Verdi e Sinistra https://www.youtube.com/watch?v=A3UxJBTjpKM https://www.youtube.com/watch?v=sFq7TVmlxAE
7/8/2023 https://www.pressenza.com/
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