Grandi opere e trasporto locale, Recovery Plan un altro passo verso il baratro
In questi giorni i paesi europei sono in fermento, il 30 aprile infatti era fissata la scadenza per presentare a Bruxelles i progetti per richiedere i fondi del PNRR, 750 miliardi di euro messi a disposizione dall’Unione Europea per la tanto auspicata rivoluzione ecologica a più di un anno dall’inizio della pandemia.
Uno sguardo più attento ai piani di spesa preparati dall’Italia – il
più grande destinatario del denaro dell’UE – solleva però alcuni
interrogativi sul come e su quanto sarà “green” il contributo di Roma.
L’UE in effetti ha posto dei vincoli abbastanza rigidi rispetto
all’utilizzo dei fondi, richiedendo che la fetta più grande degli
investimenti di ciascun paese – circa il 37% – venga destinato a
progetti ecosostenibili che mirino a un’inversione di rotta soprattutto
per quanto riguarda le energie rinnovabili e l’abbassamento delle
emissioni di CO2.
Il documento presentato da Draghi stima 59 miliardi di euro di fondi
europei sotto la voce “transizione ecologica”, da spendere nei sei anni
previsti dal piano – circa 10 miliardi in meno rispetto alla bozza
preparata dal suo predecessore Giuseppe Conte. Ciò equivale però
soltanto al 31% contro il 37% richiesto dall’UE.
Draghi ha aggiunto che in realtà, i 9 miliardi di differenza dal piano
precedente arriveranno da prestiti governativi separati, ma così facendo
questo denaro non sarà soggetto al controllo di Bruxelles e potrà
quindi essere facilmente revocato o dirottato in altri progetti.
A volerla dire tutta, sembra che il raggiungimento di questa soglia sia
un problema tutto italiano e che molti altri paesi europei non debbano
tirare troppo la coperta per destinare fino al 50% dell’investimento in
progetti “green”.
Ma è guardandolo da vicino che si scopre che il piano di Draghi offre
davvero poco per quanto riguarda inquinamento e smog che affliggono le
nostre città.
Per ridurre le emissioni di gas
serra provenienti dal settore dei trasporti, come previsto dai target
europei vincolanti al 2030, occorre rendere competitive le modalità di
spostamento a emissioni zero per le persone e per le merci, con
specifiche politiche per le esigenze di ambito nazionale/internazionale e
per quelle in ambito urbano. La situazione da cui partiamo è
particolarmente difficile, perché in Italia la modalità di spostamento
prevalente è quella su gomma, che copre il 62,5% degli spostamenti
giornalieri delle persone, e oltre l’86% di quello merci.
A fronte di un’ auspicata “cura del ferro” che mirerebbe ad abbassare queste percentuali, troviamo
solo un investimento totale di 5,45 miliardi, per il potenziamento
delle linee ferroviarie regionali a fronte di… 25 miliardi per l’alta
velocità! Il problema del trasporto ferroviario in Italia è
però che è proprio fuori dalle direttrici principali dell’alta velocità
che la situazione del servizio è peggiorata maggiormente, con meno treni
in circolazione, e di conseguenza meno passeggeri. Solo negli ultimi
anni c’è stato un recupero dell’offerta di servizio Intercity – treni
fondamentali nelle direttrici fuori dall’alta velocità in particolare al
Sud e nei collegamenti con i centri capoluogo di Provincia – ma dal
2010 al 2017 la riduzione delle risorse, con proroghe del contratto tra
il Ministero delle Infrastrutture e Trenitalia, ha portato ad una riduzione drastica dei collegamenti
che emerge con chiarezza dal bilancio consolidato di Trenitalia. Per i
convogli a lunga percorrenza finanziati con il contributo pubblico,
l’offerta in termini di treni*km è scesa dal 2010 al 2019 del 16,7% e
parallelamente sono calati i viaggiatori del 45,9%. Nel 2019 i dati sono
in leggera ripresa (+0,8%) per quanto riguarda il numero di persone, ma
siamo comunque lontani dai dati di dieci anni fa sia per l’offerta sia
per la frequentazione.
Dulcis in fundo, tra le opere urgenti da finanziare troviamo niente di
meno che il Tav Torino Lione, la grande opera bocciata ormai da
chiunque, anche dall’Europa, in quanto obsoleta e dannosa per
l’ambiente.
Il governo italiano chiede 1 miliardo e 79 milioni per la grande opera
che produrrà oltre 10 milioni di tonnellate di CO2 impossibili da
riassorbire se non, forse, prima della fine del secolo quando il
riscaldamento globale sarà ormai irreversibile.
Non va meglio sul fronte del trasporto pubblico urbano
per cui nel piano si prevedono appena 240 km di nuove linee
(sufficienti forse appena per una grande città), l’acquisto di 53 treni
elettrici e 5.540 nuovi autobus (solo Roma ne ha oltre 2.000).
Insomma, ad eccezione di alcuni buoni quanto vaghi passaggi come “accumuli per rinnovabili e solare agrovoltaico”, su ambiente e clima il progetto italiano appare davvero deludente. Non è previsto infatti nessun intervento serio per l’agricoltura ecologica, nessuna vera priorità per le energie rinnovabili, una scarsa attenzione per la mobilità urbana sostenibile e per la cura della biodiversità. Inoltre, vi è una “porta spalancata per l’idrogeno blu di Eni, prodotto da gas usando tecniche rischiose e neppure convenienti”.
A tutto ciò si aggiunge il fatto che lo scorso mese il ministro della Transizione ecologica, ha appena firmato 7 decreti Via (Valutazione impatto ambientale) aventi ad oggetto altrettanti rinnovi di concessioni minerarie, progetti di messa in produzione di pozzi e di perforazione in diverse regioni d’Italia.
Ma d’altronde la politica green di Draghi la stiamo vedendo all’opera proprio qui in Val Susa. Stiamo assistendo in questi giorni all’installazione del cantiere a San Didero per la realizzazione di un nuovo autoporto che ospiterà svariati TIR. Per farlo è stato raso al suolo l’intero boschetto adiacente, l’unico polmone verde della media valle, che sta iniziando a rifiatare dopo anni di abusi e inquinamento provenienti dell’acciaieria che si trova a pochi km di distanza.
Sinceramente in tutto questo non vediamo niente di verde e questa transizione ecologica sembra sempre meno convincente.
Al suo insediamento Draghi ha esordito dicendo: “vogliamo lasciare un pianeta sano, non solo una moneta sana” ma
senza una spinta decisiva verso le energie rinnovabili, il trasporto elettrico o l’abbandono di vecchie chimere come le grandi opere inutili, il piano dell’Italia rischia di essere mero “greenwashing”, nell’interesse, ancora una volta, delle aziende statali e private che mirano a mantenere un sistema basato principalmente sui combustibili fossili e sullo sfruttamento intensivo delle risorse ormai risicate di questo pianeta.
5/5/2021 https://www.notav.info
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