Grandina, governo drago!
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Nei giorni immediatamente successivi all’incarico esplorativo che il Capo dello Stato aveva affidato a Draghi definii “grande ammucchiata” l’inedita maggioranza sotto i cui auspici si prospettava sarebbe nato il governo di colui che era stato evocato quale nuovo Messia.
La composizione dell’Esecutivo – favorita dalla supina e acritica disponibilità di quasi tutte le forze politiche presenti in Parlamento – ne confermò il senso e le dichiarazioni della stragrande maggioranza dei loro dirigenti ne salutarono, entusiaste, l’avvento!
Un avvenimento da accogliere, come già detto (1), con grande soddisfazione da parte di “autorevoli” esponenti della maggioranza:
. della Bellanova (che teneva così poco alla sua poltrona di Ministra nel Conte II al punto di accettare – pur di esserci – di retrocedere a sottosegretaria nel governo Draghi) con il suo “Grazie Presidente”
. dell’altro renziano (capogruppo Pd al Senato) Andrea Marcucci, secondo il quale Draghi rappresenta “una risorsa irrinunciabile per il nostro Paese”,
. di Zingaretti, che considera, finalmente, “L’Italia in buone mani”
. e fino al – non si sa se semplicemente esaltato o solo stupido – capogruppo Iv al Senato, Davide Faraone, che definisce Draghi “il nostro Mes”!
A distanza di circa un mese, rispetto ai “primi passi” del terzo governo della XVIII legislatura, appare già opportuno frenare l’entusiasmo.
In questo senso, ad esempio, appare fuori luogo esaltare la discontinuità (con il Conte II) quando, in sostanza – di là delle dichiarazioni di principio rispetto ai grandi temi cui questo governo ha dichiarato di volersi dedicare – la gestione dell’emergenza dettata dall’incalzare della pandemia appare una sorta di “copia e incolla” della precedente amministrazione.
D’altra parte, già all’atto della presentazione del programma di governo al Senato, Draghi non aveva potuto esimersi dal riconoscere al precedente Esecutivo di avere svolto al meglio – nel bene e nel male – il proprio compito in un momento particolare e in una situazione di tragica emergenza sanitaria per il Paese.
La conferma del duo Speranza- Sileri al Ministero della Salute ne rappresenta una plateale conferma.
Ne consegue che, non a caso, in tema di Covid-19, i primi atti del nuovo Esecutivo hanno rappresentato un continuum rispetto ai precedenti.
Al riguardo, se ne valesse la pena, ci sarebbe solo da commentare il singolare e assordante silenzio di quei “Governatori” – da Fontana a Toti e fino al folcloristico” Sceriffo” campano – che paiono, improvvisamente afoni; già costretti dalla “ragion di Stato” a non muovere più alcuna accusa nei confronti di un Premier che – al pari di Conte prima di lui – ricorre ancora ai DPCM e continua (con le zone rosse) a tenere chiusi ristoranti, cinema e discoteche!
Tutto ciò però non tragga in inganno.
In realtà, il mese non è trascorso invano perché, intanto, a parte le nomine dei 6 viceministri e dei 33 sottosegretari, al “mosaico” di Draghi – in termini di ricerca dei collaboratori e distribuzione dei relativi compiti – sono state aggiunte altre numerose ed importanti tessere che (ricorrendo a un termine calcistico) rappresenteranno i “titolari” della sua squadra.
In questo senso, credo che, così come avvenuto per le nomine dei ministri, anche rispetto alle nomine dei sottosegretari, il neo Premier abbia operato senza subire grandi “pressioni” da parte dei partiti che lo sostengono.
Fatta salva la personale scelta dei ministri Daniele Franco all’Economia, Giorgetti allo Sviluppo Economico, Giovannini alle Infrastrutture, Colao all’Innovazione, Cingolani alla Transizione ecologica, Lamorgese agli Interni e, credo, anche Orlando al Lavoro e Brunetta alla Pubblica Amministrazione, Draghi avrà concesso, a mio parere, grandi margini di scelta ai partiti della sua vastissima coalizione nell’indicare gli altri nomi.
Per dirla tutta: se la Lega e il M5S, ad esempio, avessero indicato Pinco & Pallina – piuttosto che Erica Stefano e Federico d’Inca – quali ministri alla Disabilità e ai Rapporti con il Parlamento, Draghi non avrebbe avuto alcun problema nell’accettare le loro richieste!
Stessa cosa, ritengo, sia più o meno avvenuta rispetto alla nomina dei 39.
Erano ben altre le cose riservate esclusivamente alla discrezionalità del Premier; tra queste, sicuramente, la scelta dei collaboratori destinati a svolgere ruoli di primo piano.
Al riguardo, ad esempio, credo non siano da sottovalutare le conseguenze
del combinato disposto tra alcuni passaggi del discorso di Draghi al Senato – relativamente all’esigenza di riformare il Fisco e la Pubblica Amministrazione – e le nomine di Francesco Giavazzi (quale suo consigliere economico) e Renato Brunetta (2) alla P.A.
All’uopo, a chi ritiene opportuno evidenziare che il Premier, in definitiva, è stato allievo di Federico Caffè e, quindi, dovrebbe essere portatore di una politica economica di stampo keynesiana, è solo il caso di far rilevare che, se così fosse, avrebbe operato tutt’altra scelta che non quella di un Giavazzi sostenitore di politiche di austerità per il rilancio della crescita economica fondate essenzialmente su tagli della spesa pubblica, piuttosto che sull’aumento delle tasse; soprattutto alle imprese.
Lo stesso Giavazzi secondo il quale la crescita dell’economia deve – necessariamente – passare attraverso un “piano di riforme entro il quale ci siano liberalizzazioni, privatizzazioni, aumento dell’età pensionabile, ecc”.
D’altronde – all’atto della presentazione del suo programma al Senato – Draghi aveva già anticipato l’ipotesi di una riforma del Fisco sul modello danese, fermo restando il principio della progressività dell’imposta.
Ebbene, non è necessario essere esperti economisti per sapere che:
. la riforma attuata in Danimarca ha prodotto la riduzione dell’aliquota massima dell’imposta sul reddito; con la conseguenza che le tasse sono state ridotte solo a chi percepiva redditi maggiori,
. limitarsi a dire di voler rispettare la progressività dell’imposta, senza aggiungere, ad esempio, l’intenzione di ampliare gli scaglioni (3) di reddito – riducendo le aliquote – può, in concreto, significare di non avere alcuna intenzione di agevolare i meno abbienti ma, come (appunto) avvenuto con la riforma danese, favorire i ricchi.
A questo aggiungasi che i curricula di coloro i quali sono destinati a svolgere ruoli guida nell’Esecutivo rendono alquanto difficile prevedere un loro particolare impegno per la tutela dei 5 milioni di italiani che versano in condizione di povertà assoluta, degli altri 15 milioni in condizione di povertà relativa, dei disoccupati – che, si dice, preferiscono il Reddito di cittadinanza al lavoro, senza dire che il lavoro offerto è, di norma, precario e con paghe da fame, se non “gratuito” – e dei lavoratori comunque “poveri”.
E non solo.
Quando, dalla lettura del “Contributo del Pd consegnato a Draghi per un governo autorevole, europeista e riformista” (che contiene le linee guida del programma di governo del partito), si evince che, in tema di riforma fiscale, ci si limita ad auspicare un sistema che ricalchi il modello tedesco – che non si discosta molto da quello danese – preoccuparsi è d’obbligo.
Altrettanto deprimente (e preoccupante) il rilevare che in materia di lavoro lo stesso Pd – cui taluni, nonostante tutto, si ostinano a riconoscere ancora una natura “di sinistra” – non riesca ad andare oltre la riproposizione di uno strumento risalente a oltre trent’anni fa; il c.d. “Contratto di solidarietà espansiva (4) ”.
Al riguardo, è sin troppo ovvio rilevare che in Italia, in cui il valore dei minimi contrattuali presenta una moda (5) (pari all’imponibile minimo contributivo) di euro 7,30 orari, corrispondenti (addirittura) a oltre il 65 per cento del salario mediano (6) – con salari quindi, già tra i più bassi dell’Ue – si tratta di una misura senza alcuna possibilità di successo.
Qualche chance in più, ma tutta da verificare, potrebbe averla il contratto di solidarietà espansiva agganciato alla c.d. “staffetta generazionale”. Ma resta da verificare anche ciò che accadrà relativamente alla prevista (ed ennesima) riforma previdenziale!
Chiuderei su questo punto riportando quella che sembra una battuta ma, in effetti, esprime una realtà inconfutabile che Draghi farebbe bene a tenere presente: “In Italia il problema non è il RdC, è la qualità del lavoro”!
Concludendo: a circa un mese dall’insediamento, il Premier ha cominciato con l’affrontare la prima delle tre sfide che gli si pongono, cioè l’emergenza sanitaria (7), sulla falsariga tracciata dal governo Conte II; ricorrendo, tra l’altro, a una militarizzazione che, sulla scorta delle più recenti “performance” delle Forze armate a supporto di quelle civili, desta non poche perplessità circa l’opportunità della scelta.
La seconda e la terza fatica, che attendono ancora le prime “mosse” e che riguardano l’emergenza economica e quella sociale, richiedono interventi altrettanto urgenti.
Ad oggi, non ci è dato sapere in quale senso si muoverà Draghi. Alcuni si dichiarano in fiduciosa attesa; altri (ed io tra questi) paventano già “ombre solinghe e scure” (8)
NOTE
(1) Fonte: “Il Pd e il draghismo”; su www.blog.lavoroesalute.org del 20 febbraio 2021.
(2) Già ministro della P.A. (Berlusconi IV) con posizioni estremamente critiche rispetto ai “privilegi” dei quali godrebbero i dipendenti pubblici. A conferma delle 5/6 scelte “mirate” operate da Draghi.
(3) Fu il liberale Bruno Visentini che, nel 1973 con il decreto istitutivo dell’Irpef, disegnò ben 32 scaglioni (o fasce) di reddito per cercare di calibrare al massimo l’effettiva progressività dell’imposta (come previsto dalla Costituzione). Dopo una serie di altri interventi, fu Vincenzo Visco (Pds) che, nel 1997, assestò un colpo mortale alla progressività portando gli scaglioni dell’Irpef agli attuali cinque.
(4) Originariamente disciplinato dall’art. 2 della legge 863/1984 fu aggiornato attraverso il D.Lgs. 148/2015 e parzialmente modificato dall’art. 1, comma 285 della legge 208/2015. La norma prevede la possibilità che, a seguito di accordi collettivi aziendali, i lavoratori, a fronte di un aumento dell’occupazione, concordino una riduzione dell’orario di lavoro con corrispondente riduzione del salario.
(5) In un’indagine statistica la “moda” rappresenta il valore che si presenta con maggiore frequenza.
(6) Corrispondente al valore che si colloca al centro tra quelli rilevati. Più rispondente alla realtà, rispetto al salario “medio”, perché nel calcolarlo si escludono i valori più alti (che falserebbero il dato).
(7) Sarebbe imperdonabile, dal punto di vista umano ed inconcepibile da quello politico, se rispondesse a verità che Draghi, durante i lavori del Consiglio europeo del 25 e 26 febbraio scorso, abbia espresso parere contrario alla donazione di alcuni mln di dosi di vaccino anti Covid ai paesi poveri dell’Africa.
(8) Fonte: “La Gerusalemme liberata”, di Torquato Tasso.
Renato Fioretti
Esperto Diritti del Lavoro – Collaboratore redazionale di Lavoro e Salute
Pubblicato sul numero di marzo del mensile
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