Greedflation: l’inflazione da avidità
Dopo la shrinkflation, emerge un nuovo comportamento “anomalo” legato alle politiche adottate da molte grandi aziende e multinazionali: la greedflation. Il nome deriva dalle parole inglesi “inflazione” e “avidità”.
Negli ultimi anni, prima a causa della pandemia e del lockdown, poi della guerra in Ucraina, i prezzi di molti prodotti (a cominciare dalle fonti energetiche e dai medicinali) sono lievitati in modo considerevole. Spesso la giustificazione dei produttori è stata la situazione economica contingente. Poi, però, ci si è resi conto che la maggior parte delle aziende (spesso grandi nomi o multinazionali) che hanno aumentato i prezzi dei loro prodotti, hanno registrato un’impennata senza precedenti degli utili. Cosa che non sarebbe dovuta accadere se l’aumento dei prezzi fosse stato legato solo a maggiori costi delle materie prime e della produzione.
Nel Regno Unito, la Competition and Markets Authority (CMA) ha analizzato la catena alimentare per verificare l’esistenza di possibili anomalie, distorsioni della concorrenza e squilibri a danno dei consumatori. Anche l’Antitrust ha effettuato un confronto dei prezzi unitari dei prodotti alimentari, al dettaglio. Il metodo adottato è simile a quello utilizzato da GIFT (Great Italian Food Trade) per comparare l’andamento dei prezzi di un paniere di 102 prodotti in 6 piattaforme di vendite alimentari online in Italia.
I risultati di queste analisi dimostrerebbero l’esistenza di un ‘bias’ sistematico tra l’incremento dei costi di produzione degli alimenti e l’aumento dei prezzi al consumo. In altre parole, l’aumento dei prezzi al consumo sarebbe stato maggiorato da speculazioni attuate sia dall’industria di trasformazione sia dal ‘retail’, i circuiti di distribuzione al dettaglio.
Secondo una ricerca condotta dal sindacato Unite, tra le aziende che avrebbero aumentato di più i propri profitti ci sarebbero ExxonMobil (i profitti sono balzati da 15 miliardi di sterline a 53 miliardi di sterline), Shell (da 16 miliardi di sterline a 44 miliardi di sterline), Glencoe (da 1,9 miliardi di sterline fino a 14,8 miliardi di sterline) e altre del settore energetico.
Purtroppo, in periodi di crisi (durante una pandemia o una guerra), non è facile per i consumatori rendersi conto degli aumenti: ci si limita a “subirli”. Ad esempio, in Europa, in un anno il prezzo delle uova è aumentato del 49% (del 60% negli Stati Uniti). Lo stesso è avvenuto per i cereali: il rallentamento delle forniture per la guerra in Ucraina ha fornito l’occasione per aumenti del 60-70%. Il settore più sorprendente è quello dell’energia: con la scusa della scarsità di risorse, molte grandi aziende del settore hanno aumentato i prezzi in modo sconsiderato con oscillazioni che spesso era difficile ricondurre a variazioni di prezzo del petrolio o del gas naturale. Eppure, le vendite non sono diminuite più di tanto. Nello stesso periodo, però, i bilanci di molte aziende hanno registrato utili mai visti prima.
Tutto questo senza che nessun governo facesse niente per porre un freno a queste speculazioni. Specie considerando che alcune di queste aziende sono a compartecipazione pubblica. Uno studio che ha analizzato oltre 1.350 società quotate sui mercati azionari di Regno Unito, Stati Uniti, Germania, Brasile e Sud Africa ha dimostrato che anche aziende del settore tecnologico, delle telecomunicazioni e del settore bancario avrebbero aumentato i prezzi con conseguente aumento dei margini di profitto. “Tali aziende sono state in grado di proteggere i loro margini di profitto o addirittura di aumentarli, generando profitti in eccesso attraverso una combinazione di elevato potere di mercato e dinamiche di mercato globali”, si legge nel rapporto.
A rendere pericoloso questo modo di speculare sulle spalle dei consumatori sono diversi fattori. Il primo è la riduzione della loro capacità di spesa, non compensata da un corrispondente aumento dei salari. A questo si aggiunge che, spesso, gli utili dei bilanci di alcune di queste grandi aziende sono poco tassati anche grazie ad attente strategie. Tutto questo ha anche un altro effetto: causa una crescita dell’inflazione.
Queste strategie hanno anche un altro effetto. I bilanci delle società quotate in borsa appaiono incredibilmente attraenti per gli speculatori: grandi utili significano performance annuali eccellenti e tanti soldi per la crescita aziendale. L’esatto opposto di quanto avviene per le aziende più piccole, che, a causa di un minore potere negoziale, vedono aumentare il gap tra loro e le grandi aziende e spesso faticano a sopravvivere.
Inutile dire che questo presuppone quella che nel mondo anglosassone viene definita una tacit collusion, una tacita sinergia: molte aziende riescono a nascondere le proprie politiche di speculazione grazie alla mancanza di una reale concorrenza. Il metodo adottato è semplice: dopo che sono venute meno le cause che avevano determinato l’inflazione, le aziende non hanno riportato i prezzi dei loro prodotti ai livelli precedenti. Lo stesso ha fatto la concorrenza. Così, per un certo periodo, nessuno ha notato nulla. Questo permette loro di realizzare utili mostruosi a scapito del mercato e dei consumatori, i cui stipendi aumentano in maniera inferiore all’inflazione (cosa questa che riduce il loro potere d’acquisto) come confermano i dati Eurostat e Refinitiv relativi al primo trimestre del 2023.
Tutto questo è possibile anche grazie all’atteggiamento “distratto” della BCE: la Lagarde ha giustificato gli utili “relativamente elevati” delle imprese (il termine “relativamente” utilizzato per aumenti di diversi decine percentuali è semplicemente ridicolo) dicendo che erano avvenuti “soprattutto laddove la domanda ha superato l’offerta”. Secondo la presidente della BCE, il problema dell’inflazione elevata nonostante la crescita economica stagnante sarebbe dovuto alla mancanza di produttività e al costo unitario del lavoro. Non come dimostrano diversi studi a forme di speculazione e di lobbying.
Molti economisti non concordano con l’analisi della Lagarde. “La BCE, nonostante si speri il contrario, non vuole davvero parlare di utili e continua a incolpare i lavoratori per l’inflazione e a chiedere loro di continuare a sopportare l’impatto distributivo”, ha dichiarato Daniela Gabor, docente di Economia e Macro finanza presso la University of West England di Bristol. A farle eco Eric Dor, professore alla IESEG School of Management di Parigi: “L’aumento dei tassi fa diminuire la domanda e, di conseguenza, la produzione: se le imprese non licenziano i lavoratori nell’immediato, questa diminuzione della produzione diventerà una minore produttività per dipendente e quindi un incremento dei costi e dei prezzi. Dunque, una politica che mira a ridurre l’inflazione contribuisce alla sua persistenza, almeno nel breve periodo”.
Will Daniel, della rivista Fortune, ha analizzato uno studio di Albert Edwards, global strategist di Société Générale, sul fenomeno della greedflation: secondo l’economista questa tecnica è andata troppo oltre. Se dovesse continuare così, le conseguenze potrebbero essere devastanti. Potrebbe addirittura rappresentare “la fine del capitalismo”. Secondo Daniel, nell’ultimo periodo, le 500 più importanti aziende americane (quelle inserite nella lista Fortune 500), avrebbero generato 1,8 trilioni di dollari di profitto su 16,1 trilioni di fatturato. Una percentuale spaventosa. “È un tema enorme che i legislatori non potranno ignorare a lungo”, ha aggiunto Edwards.
Di questo problema hanno parlato anche alcuni eurodeputati del Gruppo S&D (Socialisti e Democratici), che hanno realizzato un accurato studio sul fenomeno. Sulla base dei risultati ottenuti hanno chiesto alla Commissione europea l’introduzione di uno “standard del consumatore vulnerabile” per applicare in modo più mirato la legge sulla concorrenza ed evitare che “un aumento del prezzo negli yacht o negli orologi Rolex venga gestito con la stessa priorità di un aumento del prezzo del pane o del riscaldamento”.
Secondo Carsten Jung, IPPR, il lavoro di Isabella Weber, economista presso l’Università del Massachusetts, dimostrerebbe come i “settori sistemici” possano avere un impatto smisurato sull’inflazione in tutta l’economia in generale. “Ciò ha causato danni significativi all’economia nel suo complesso”, si legge nel rapporto. “Il PIL globale potrebbe essere dell’8% più alto di quello attuale se il potere di mercato non aumentasse. Il reddito da lavoro è probabilmente significativamente più basso e il dinamismo economico è più debole – con una scelta più scarsa, una peggiore qualità dei prodotti e minori opportunità economiche – rispetto a un mondo controfattuale in cui le grandi aziende erano meno dominanti”. Secondo Isabel Schnabel, membro del comitato esecutivo della Banca centrale europea, “in media, i profitti sono stati recentemente un fattore chiave per l’inflazione interna totale, al di sopra del loro contributo storico”.
Anche alcuni membri della Banca Centrale statunitense, la Federal Reserve, hanno riconosciuto che l’aumento dei prezzi è aumentato per far crescere i profitti. Cosa fare ora? Secondo alcuni tra cui Jung e Chris Hayes, la soluzione sarebbe tassare i trilioni di dollari di profitti globali in eccesso. E poi programmare iniziative per evitare il ripetersi di simili pratiche speculative. Forme di lobbying che consentono alle imprese di sfruttare il loro controllo sul mercato anche quando questo significa creare danni enormi ai consumatori e all’economia in crisi.
Purtroppo, si tratta di mere teorie: la realtà è che molte di queste lobby dispongono di un potere tale da esercitare un peso impressionante sui governi. Basti pensare a ciò che è avvenuto in Italia sulla tassazione degli utili delle banche….
C. Alessandro Mauceri
29/1/2024 https://www.lospessore.com/
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