Guerra, clima, povertà nascosti sotto il tappeto
Premessa
Agli economisti è capitato raramente di studiare un documento economico e finanziario (DEF) così modesto. L’impianto del DEF del governo Draghi sarebbe coerente se avessimo un sistema economico ben posizionato, una inflazione un poco alta data la dinamica di crescita, dei livelli di occupazione, indipendenza tecnologica e materie prime importanti. Solo a queste condizioni si giustificherebbe la necessità di guidare con prudenza la macchina del Paese. L’errore del governo è proprio questo: l’orizzonte economico e politico che attraversiamo non suggeriscono un bilancio neutrale che assegna allo Stato soltanto il compito di garantire le condizioni essenziali minime per le attività dei singoli. In realtà, non sarebbe nemmeno appropriato un bilancio congiunturale (deficit nei momenti di crisi e avanzo nei periodi di crescita).
Al Paese servirebbe un bilancio funzionale: per raggiungere taluni scopi lo Stato si avvale, oltre che dell’attività di prelievo e di spesa attuata tramite il bilancio, anche di imprese pubbliche, di una regolamentazione dell’attività privata, di una politica monetaria e di controllo del credito. Un DEF funzionale dovrebbe misurarsi con le grandi questioni del nostro tempo: provare a misurarsi sul tema della migliore allocazione delle risorse e ripartirle tra privato e pubblico; assicurare che la crescita del Paese sia almeno in linea con l’innovazione tecnologica e, per questa via, tentare una corretta redistribuzione del reddito per evitare che il reddito e la ricchezza si polarizzino nelle mani di gruppi sociali ristretti. Siamo ancora nel solco liberale dell’economia pubblica, ma almeno si discuterebbe di bilancio pubblico alla Einaudi.
Il governo Draghi, invece, propone ancora il bilancio neutrale senza misurarsi con nessuna delle sfide che dobbiamo affrontare, indipendentemente dalla guerra. La guerra accelera i processi, e il governo Draghi opera come un banchiere centrale che cerca di infondere fiducia.
Le sfide da intraprendere sono legate alla necessità di anticipare la domanda di beni e servizi (ambiente, energia, tecnologia, digitale) che Next Generation EU ha delineato correttamente prima che la guerra azzerasse quel poco di buono che l’Europa aveva costruito. Il DEF dovrebbe programmare l’evoluzione della struttura e della domanda effettiva, la composizione dei consumi e degli investimenti, la necessità di creare tanto lavoro quanto se ne perde a seguito del cambiamento strutturale e, in primis, governare l’incertezza con la politica economica per indirizzare le aspettative alla base delle dinamiche innovative, guidandoci nel labirinto dello sviluppo economico.
Il DEF è poco meno di un bilancio ragionieristico e, peggio ancora, asseconda tutti i movimenti del mercato. Non solo reitera i soliti e grossolani errori di previsione economica di quasi tutti i governi, al netto del governo Conte durante la pandemia. Il DEF di Draghi prefigura un quadro macroeconomico e di finanza pubblica che non sono credibili nelle loro fondamenta. La distanza tra le previsioni economiche dei DEF e l’effettivo andamento dei principali indicatori nel tempo è aumentata; nonostante tutto si continua sulla stessa linea. Si tratta in media di 0,6 punti di PIL che, per i saldi di finanza pubblica, non sono poca cosa. Solo per fare un esempio, l’indebitamento netto previsto per il 2022 dal governo Draghi era pari a 5,6 punti di PIL (ottobre 2021); l’indebitamento tendenziale sempre del governo Draghi in aprile 2022 è pari a 5,1 punti percentuali di PIL. Questo esercizio contabile permette al governo Draghi di vendere agli italiani che farà crescere il deficit al 5,6% nel 2022. Tutto per sostenere l’economia e contenere l’aumento dei prezzi. Insisto, non è un aumento della spesa, piuttosto è l’uso ragionieristico di uno spazio finanziario legato al ciclo economico.
Se ci fosse una qualsiasi politica economica di buon senso, il governo sarebbe intervenuto sugli extraprofitti legati alla distanza tra i prezzi alla produzione e i prezzi al consumo. Perché non farlo? Avrebbe significato occuparsi delle partecipate pubbliche che hanno maturato margini operativi lordi senza precedenti. Si poteva utilizzare la moral suasion; in fondo la partecipazione dello Stato nelle grandi società energetiche non è ininfluente. Si preferisce consentire alla parte privata di queste società, a partire dai manager, di lasciar guadagnare lauti extra-profitti, a scapito dell’inflazione in generale e dei consumatori finali in particolare, anche se sappiamo che una parte di questi extraprofitti finirà nelle mani del governo in carica. La programmazione e il progetto non sono nel DNA di questo governo, ma la politica lo dovrebbe avere nelle proprie corde.
Quadro macroeconomico
Il quadro macroeconomico tendenziale e programmatico delineato nel DEF (aprile 2022) sono sostanzialmente sovrapponibili. In altri termini, il governo Draghi non disegna nessuna politica economica capace di condizionare le principali grandezze del PIL. È proprio la fotocopia tra il quadro macroeconomico tendenziale e quello programmatico che permette di catturare il profilo economico e di programma del governo Draghi. In altri termini, il governo lascia il “governo” delle grandi sfide di struttura che lo attendono alla sola legislazione vigente e, a margine, alla politica economica tendenziale quasi che il mercato potesse fare tutto quello che serve al Paese. L’inflazione e gli effetti economici della guerra sarebbero transitori secondo il governo, e non sarebbe quindi necessaria nessuna politica capace di arginare i fenomeni speculativi delle proprie partecipate. Lo scostamento (positivo) tra quadro tendenziale e programmatico del PIL è di soli 0,2 punti nel 2022, 0,1 punti nel 2023 e sostanzialmente nullo negli anni seguenti; l’occupazione registrerebbe un incremento tra quadro tendenziale programmatico dello 0,1 percento nel 2022 e nel 2023 e nessun miglioramento per gli anni 2024 e 2025; il tasso di disoccupazione segue lo stesso andamento con dei miglioramenti nel tempo coperto dal DEF di 0,1 punti percentuali.
Le tavole macroeconomiche di cui sotto danno conto della convergenza tra lo scenario tendenziale e programmatico, sostanzialmente di una politica economica che lascia al solo mercato la soluzione dei problemi. In effetti, se guardiamo ai provvedimenti che il governo intende implementare, possiamo registrare come e quanto poco lavoro attende il governo. In realtà alcuni collegati (DDL) potrebbero avere anche degli effetti regressivi rispetto all’assetto economico e istituzionale del Paese. Inoltre, alcuni provvedimenti attesi su ammortizzatori sociali, previdenza e golden power, quanto mai utili in questa fase, sono scomparsi dall’agenda politica.
La finanza pubblica come bilancio neutrale
Indagando i principali indicatori di finanza pubblica possiamo ben comprendere il quanto e il perché dell’invarianza del quadro macroeconomico. Come già ricordato, l’indebitamento netto rispetto al quadro tendenziale e programmatico sembrerebbe crescere di 0,5 punti percentuali nel 2022, passando dallo 5,1 percento allo 5,6 percento, ma è esattamente quanto già previsto nel quadro programmatico e nella NADEF dello scorso anno. In altri termini, il governo spaccia per spesa aggiuntiva ciò che il parlamento e lo stesso governo avevano deciso da tempo. Indubbiamente l’andamento delle entrate particolarmente favorevole, il rimbalzo del PIL più sostenuto di quello immaginato nel 2021, lasciano in dote un piccolo spazio finanziario aggiuntivo, ma è bene ricordare che si tratta di uno spazio fiscale a margine del livello delle entrate e della crescita del PIL. Diversamente ci sarebbe stata una iniziativa di qualche significato economico che, infatti, non si vede nell’andamento nel tempo (2022-2025) del deficit pubblico. Infatti, il saldo primario nel medio periodo (2022-2025), la differenza tra entrate e spese al netto del servizio del debito, tende al pareggio, con dei lievi scostamenti nel 2022 e nel 2023, rispettivamente 0,5 e 0,2 punti percentuali. Ciò che guida il governo non è quindi la politica economica, piuttosto il servizio del debito. La spiegazione è molto semplice (G. Piga, 2022): “La spesa per interessi sul debito è aumentata dal 2,9% al 3,5% del Pil. Questo perché l’inflazione sta salendo e abbiamo emesso anche titoli di stato indicizzati. Il Governo, quindi, vedendo crescere la spesa per interessi, in un contesto bellico e pandemico, ha deciso di restringere ancora di più i cordoni della borsa, riducendo il disavanzo primario. Il che è dovuto al fatto che la sua principale preoccupazione è confermare il deficit/Pil al 5,6% promesso all’Europa (perché funzionale al rientro sotto il 3% nel 2025)” (nota 1).
Questa impressione è confermata dall’andamento del debito pubblico lordo. Il suo percorso è quello di un veloce rientro, tanto più se consideriamo che, come già ricordato da Piga, l’Italia ha emesso titoli indicizzati all’inflazione.
Una ipotesi di lavoro
Sarebbe stato possibile agire in modo più ragionevole, ma la politica del governo Draghi non è legata all’idea di un bilancio funzionale. Sostanzialmente lo Stato diversamente articolato poteva operare dal lato del prelievo e della spesa, così come poteva utilizzare le imprese partecipate e istruire una regolamentazione dell’attività privata. Il governo, invece, delinea la politica dei bandi, ma non delinea nessuna politica economica. Perché non funziona questa impostazione soprattutto se pensiamo all’implementazione del PNRR? I bandi 1) non rispondono al principio del bilancio funzionale che assegna allo Stato e alle sue partecipate obiettivi specifici; 2) introducono e diffondono l’idea che i costi devono diminuire (i bandi li vincono chi fa proposte meno onerose); 3) mettono in concorrenza i soggetti economici presenti sul territorio invece che guidarli.
La politica economica dovrebbe essere quella attività che permette di offrire un orizzonte alla società; se il governo si astiene dal farla è perché pensa che il mercato e la libera concorrenza siano la migliore politica economica.
NOTA:
Roberto Romano
12/4/2022 https://sbilanciamoci.info/
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