Guerra in Ucraina: ma chi manovra l’aumento dei prezzi?
Ci sono cose di cui è meglio non parlare. E la speculazione finanziaria che sta dietro l’andamento delle Borse e degli scambi commerciali globali, così come la crescita esponenziale della produzione di armamenti, sono alcuni di quei temi “delicati”, che è opportuno tenere sempre sullo sfondo. Con la scusa che tanto il Grande Fratello non esiste, si fa finta di non vedere. Eppure i dati per capire alcune dinamiche reali ci sono, basta andarli a leggere. Gli effetti e le ricadute economiche della guerra in Ucraina sono evidenti, e ci sono poi dinamiche meno evidenti. Cominciamo dall’evidenza.
La guerra del gas
Secondo i Bollettini statistici della Banca d’Italia, i prezzi delle materie prime, soprattutto energetiche, delle quali la Russia detiene una quota rilevante del mercato mondiale, sono aumentati ulteriormente dall’inizio del conflitto. Nel complesso, la guerra acuisce i rischi al ribasso per il ciclo economico mondiale e al rialzo per l’inflazione. Gli effetti della guerra si stanno ripercuotendo sul mondo, seppure ovviamente con differenze rilevanti tra Paesi e aree. In generale, è aumentata l’incertezza nei mercati finanziari globali e soprattutto le economie emergenti hanno subito un inasprimento delle condizioni finanziarie.
Particolarmente rilevante è la trasmissione dello shock attraverso il canale dell’incremento dei prezzi di energia e altre merci, unito alle difficoltà di approvvigionamento. La Russia pesa per il 2% nel commercio mondiale, ma le sue vendite all’estero sono fortemente concentrate nelle materie prime, soprattutto energetiche: gas e petrolio rappresentano quasi la metà delle esportazioni e costituiscono rispettivamente il 25 e il 12% del totale esportato a livello globale. La Russia, inoltre, è tra i principali esportatori mondiali di nichel e concimi (con quote di mercato del 15 e 14%, rispettivamente) e, assieme all’Ucraina, di cereali (con quote per i due Paesi pari rispettivamente al 7 e al 6%). La riduzione dei flussi commerciali di prodotti quali concimi e cereali, secondo le analisi di Bankitalia, potrebbe dunque rappresentare, in prospettiva, un rischio per la sicurezza alimentare dei Paesi importatori a basso reddito.
Che succede in Europa
Gli Stati dell’Unione europea assorbono quasi il 40% delle esportazioni russe, ma la quota sale a oltre il 50 per il petrolio e al 60 per il gas (prevalentemente attraverso gasdotti); secondo importatore è la Cina, che acquista poco più del 30% del petrolio venduto all’estero dalla Russia, ma meno del 5% del gas. Tra le principali economie mondiali, la Germania e l’Italia mostrano la maggiore dipendenza dalle materie prime provenienti dalla Russia (l’input di energia e metalli da questo Paese rappresenta il 7% del fabbisogno totale dell’Italia e l’8% della Germania); le stesse economie potrebbero inoltre essere tra le più colpite, in via diretta e indiretta, attraverso le catene globali del valore, da un blocco delle esportazioni verso la Russia. La domanda finale russa assorbe lo 0,6% del valore aggiunto totale prodotto in Italia e lo 0,9% di quello prodotto in Germania; la quota è in media pari allo 0,3% per i Paesi avanzati e allo 0,4% per le economie emergenti.
Tutta colpa della Russia?
In questo periodo di “schedature” bisogna stare attenti. Quando si introducono elementi complessi nelle analisi si viene subito etichettati. Ma per capire le dinamiche economiche, secondo osservatori attenti, occorre mettere in conto non solo gli effetti delle sanzioni e la giusta sollevazione internazionale contro l’invasione dell’Ucraina, ma anche gli effetti più nascosti dell’enorme liquidità in circolazione, e la necessità per il sistema finanziario di generare a tutti i costi dei profitti, anche con la speculazione. Ne hanno parlato, per esempio, in un articolo recente Mario Lettieri, già deputato e sottosegretario all’Economia e Paolo Raimondi, economista e docente universitario. I dati che forniscono sono interessanti e concernono gli scenari precedenti alla guerra in Ucraina. Riguardo all’indice dei Global Prices of Agriculture Raw Materials – le derrate alimentari –, la Fed di St. Louis riporta che mediamente era di 91 punti ad aprile 2020, 114 un anno dopo e 123 ad aprile 2022. Il prezzo del petrolio WTI, che era di 18 dollari al barile ad aprile 2020, aveva già raggiunto i 65 dollari un anno dopo. A maggio 2022 superava i 114 dollari. Simili andamenti sono riportati dal Fondo monetario internazionale per l’indice delle merci primarie, che sale progressivamente dai 60 punti del 2020 per poi crescere vertiginosamente negli ultimi mesi, fino a raggiungere i 150 punti. Evidentemente, gli effetti della guerra e delle sanzioni incidono non poco sull’impennata dei prezzi di detti prodotti.
Ma vediamo altri dati. L’indice dei prezzi dei fertilizzanti della Banca mondiale, che nell’aprile 2020 era 66,24, a dicembre 2021 era esploso a 208,01, più che triplicato in venti mesi. L’aumento del 60% negli ultimi due mesi del 2021 ha devastato gli agricoltori di tutto il mondo. A gennaio, un mese prima della guerra in Ucraina, “The Wall Street Journal” titolava “Le fattorie stanno fallendo mentre i prezzi dei fertilizzanti fanno aumentare il costo del cibo”. “Più che di fisiologici aumenti dei prezzi ancora una volta la fa da padrone la speculazione, cioè i soliti manovratori del mercato e delle borse – scrivono Lettieri e Raimondi su “linkiesta.it” – è singolare che si chieda, anche giustamente, l’immediata sospensione delle attività belliche e non s’intervenga contro la speculazione i cui effetti devastanti si riverberano a livello globale”.
Investire in armi?
Un’altra voce fuori dal coro è quella di Andrea Baranes, vicepresidente di Banca etica. Durante una sua conferenza all’Università Lumsa, ha detto: “Credo sia un fondamentale strumento di cambiamento della mentalità delle persone. Se dicessero a chiunque di noi di investire cento euro nella guerra di un dittatore di un qualunque Stato, per riavere indietro il doppio nel giro di una settimana, nessuno di noi direbbe di sì. Allo stesso modo, è fondamentale sapere dove e come vengono usati i nostri soldi quando li affidiamo a una banca o a un fondo di investimento. È vero che i soldi di ciascuno di noi sono solo una goccia nel mare, se paragonati all’enormità dei mercati finanziari, ma è anche vero che ogni goccia può fare la differenza, e provocare un cambio di mentalità nella produzione di armi o nelle industrie che operano in settori come quello del nucleare e del petrolio”.
“Possiamo fare molto, non solo nella situazione cui stiamo assistendo, ma anche per tutti i conflitti di minore intensità in giro per il mondo – spiega Baranes –, quello di cui dobbiamo renderci conto è che quando parliamo di industria bellica stiamo parlando di una di quelle fondamentali per la finanza mondiale: parliamo di miliardi di dollari investiti da gruppi di grandi banche. Per questo le decisioni degli investitori sono fondamentali: se tutti scelgono di non investire in determinati settori, certamente si possono cambiare le cose, sia nel concreto sia nel modo di ragionare e approcciare alla finanza e agli investimenti”. “Questa è una delle ragioni per cui, quando parliamo di finanza sostenibile, intendiamo sostenibile a 360 gradi: non ha senso parlare di climate change se non parliamo anche di armi”.
Gli sviluppi della guerra
E ora torniamo alle cifre di Banca d’Italia, che si sbilancia anche nelle previsioni per il prossimo futuro. Un quadro che può essere letto come inquietante. Sono tre – per gli analisti di via Nazionale – gli scenari possibili. Nel primo scenario, più favorevole, si ipotizza che una rapida risoluzione del conflitto possa comportare un significativo ridimensionamento delle tensioni che attualmente sostengono i prezzi delle materie prime, contribuendo a dissipare l’incertezza e a sostenere la fiducia. Dalla metà del 2022, i prezzi del gas e del petrolio tornerebbero sui livelli attesi all’inizio di gennaio, annullando gli incrementi impliciti nelle attuali quotazioni dei futures e pari a circa 40 punti percentuali nel 2022 e a 50 punti nel 2023 per il gas, e a circa il 30 e il 20 per cento rispettivamente per il petrolio. L’evoluzione del commercio internazionale si assume in linea con la dinamica alla base delle proiezioni per l’area dell’euro formulate, in marzo, dagli esperti della Bce. In questo scenario il Pil crescerebbe del 3% quest’anno e del 3,1 nel 2023. L’inflazione sarebbe pari al 4% nel 2022 e scenderebbe all’1,8% nel 2023.
Un secondo scenario è formulato assumendo un protrarsi della guerra. Le ipotesi tecniche relative ai prezzi delle materie prime sono desunte dai contratti futures nelle dieci giornate lavorative precedenti il primo aprile. Si assume, poi, che le ripercussioni della prosecuzione della guerra sugli scambi con la Russia e l’Ucraina comprimano, nei prossimi due anni, la domanda estera di beni e servizi italiani di circa l’1%. Si incorporano, inoltre, un deterioramento della fiducia e un aumento dell’incertezza, che si ipotizza abbiano tuttavia durata relativamente breve e si esauriscano all’inizio del prossimo anno. In questo scenario, la crescita del Pil, in Italia, sarebbe pari al 2,2% nel 2022 e all’1,8 nel 2023. L’inflazione si porterebbe al 5,6% quest’anno e al 2,2 nel successivo. Rispetto alle proiezioni formulate lo scorso gennaio, la crescita sarebbe quindi inferiore di 1,6 punti percentuali nel 2022 e di 0,7 nel 2023.
Un terzo scenario, il più severo, è formulato ipotizzando che le ostilità, oltre a prolungarsi, si aggravino comportando una minore disponibilità di gas per l’Italia, a seguito di un arresto delle forniture dalla Russia della durata di un anno a partire da maggio. Si è considerata l’ipotesi che la sospensione, in parte compensata mediante il ricorso ad altri fornitori, si traduca in una riduzione di circa il 10% della produzione del settore della fornitura di energia elettrica, gas, vapore e aria condizionata; si ipotizza, inoltre, che ciò generi strozzature per le sole attività manifatturiere caratterizzate da un’elevata intensità energetica. I vincoli alla produzione che ne deriverebbero ridurrebbero il valore aggiunto complessivo dell’economia di circa 1,5 punti percentuali. Oltre a questa perdita diretta di produzione, si verificherebbero effetti indiretti legati alla minore offerta da parte dei settori a valle e a una diminuzione di occupazione, redditi e domanda aggregata. La più bassa disponibilità di gas determinerebbe, verosimilmente, anche una forte accentuazione degli effetti riconducibili agli altri canali di trasmissione. Si ipotizza in particolare che i prezzi del gas naturale si portino su livelli superiori a quelli dell’inizio di gennaio di 130 punti percentuali nel 2022 e di circa 90 nel 2023; il rialzo dei prezzi del petrolio sarebbe di circa 40 e 30 punti, rispettivamente. Si ipotizza, ancora, che alla prosecuzione del conflitto siano associati più forti aumenti dell’incertezza e perdite di fiducia di consumatori e imprese, simili a quelli registrati nei maggiori episodi recessivi recenti. Ulteriori effetti negativi deriverebbero dalle ricadute del conflitto sugli scambi con l’estero. In questo scenario il Pil diminuirebbe di quasi mezzo punto percentuale sia quest’anno sia il prossimo. Il prodotto risulterebbe quindi ridimensionato per più di 7 punti percentuali complessivamente nel biennio 2022-23. L’inflazione si avvicinerebbe all’8% nel 2022 e scenderebbe al 2,3 nel 2023.
E intanto le fonderie anticipano le ferie
Se ne parla sul “Sole 24 ore”. Fatti due conti, per Franco Vicentini è meglio fermarsi. Scelta non banale, quella del numero uno del gruppo Vdp, ma per nulla isolata tra le fonderie italiane. Settore tipicamente energivoro, già alle prese da tempo con i nuovi rincari nei prezzi di gas ed elettricità. Che nel mese di luglio, così come l’intero Paese, deve però anche fare i conti con il meccanismo del Capacity Market. Sistema che va a remunerare i produttori che garantiscono capacità di generazione anche nelle punte di carico della rete, 500 ore di picco annuale concentrate soprattutto a gennaio, febbraio e, per 162 ore, a luglio. Periodi in cui il consumo di elettricità richiede un corrispettivo aggiuntivo di circa 40 c/MWh. Di questi tempi, sale sulle ferite. “Se da un lato i prezzi paiono nuovamente impazziti – aggiunge il presidente e amministratore delegato del gruppo –, a luglio arriva questo ulteriore aggravio. Prendendo una media di consumo di due kilowattora per chilo di ghisa, questo meccanismo incide per 80 euro la tonnellata. Ecco perché preferiamo chiudere ora, lavorando invece in agosto”. Stop di quattro settimane che partirà il 9 luglio per lo stabilimento vicentino del gruppo, a cui seguiranno nei due venerdì successivi le fermate dei siti padovani, in tutto 400 addetti.
Si tratta, a quanto pare, di una decisione non isolata. “Anticipiamo le ferie – dice Enrico Frigerio, a capo del gruppo Ef – perché ora i costi sono davvero eccessivi e questo meccanismo di aggravio agisce su prezzi che sono già fuori controllo. Per noi la bolletta energetica è passata da 500mila euro a un milione al mese, e se i valori attuali vengono confermati saliremo presto a un milione e mezzo. Ci fermiamo tre settimane, poi si vedrà”.
Paolo Andruccioli
8/7/2022 https://www.terzogiornale.it
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