Guerre e spinelli

Ernesto Rossi, Altero Spinelli e Luigi Einaudi

Prosegue il tormentone legato alla manifestazione di Piazza del Popolo, convocata da Michele Serra, a spese del Comune di Roma, per una specie di Europa Pride, senza ulteriori dettagli. Non è dato capire in quanti abbiano partecipato: gli organizzatori, commentando a caldo nell’immediatezza, hanno detto che erano trentamila. Poi ci hanno ripensato rilanciando a cinquantamila. La Questura, per una volta, si è astenuta da ogni commento; di solito cerca di abbassare il numero specie quando, come in questo caso, chi sta al governo rema contro. Comunque il silenzio è una sorpresa, ci si aspettava il tradizionale diecimila secondo il Viminale e invece niente di niente, riserbo completo. Stampa e televisione hanno ad una sola voce proclamato il successo dell’iniziativa, soprattutto tenendo conto che, ci raccontano, si trattava di iniziativa spontanea, senza partecipazione di partiti e strutture organizzate, nata quasi dal nulla.

Non è così. Michele Serra ha lanciato l’iniziativa dalle colonne del quotidiano Repubblica e subito ha ricevuto ospitalità dal più abile comunicatore televisivo disponibile in Italia, Fabio Fazio, che ha provveduto da par suo, a diffondere l’invito all’adesione, in nome di una non meglio precisata difesa del vecchio continente, attaccato da Trump e Putin, entrambi indicati come nemici dell’Europa, o quanto meno come sabotatori decisi a creare danni a popolazioni invece operose e pacifiche. L’appello era costruito in modo da mettere personaggi come Calenda e Lorenzo Guerini (sostenitori aperti dell’intervento armato in Ucraina) insieme a Fratoianni e Bonelli (contrari alle spese di riarmo), con decine di sindaci (almeno ottanta, misti destra-sinistra, tutti con la fascia tricolore) e con le tre organizzazioni sindacali (divise al tavolo della trattativa, unite per l’occasione). Facevano da richiamo, o, alla peggio, da contorno, nomi celebri come i cantanti Vecchioni e Jovanotti, il conduttore Formigli (Fazio, più astuto, ha preferito il divano di casa), lo scrittore Scurati e la scrittrice Avallone, gli attori Albanese e Amendola. L’opposizione parlamentare era in piazza, con la sola eccezione dei pentastellati, complice dell’ammucchiata e dunque evitando accuratamente qualsiasi imbarazzante precisazione sulle spese belliche, sanitarie, fiscali, strutturali o di welfare. In particolare nessun cenno si ritrova circa la conversione dell’industria automobilistica in industria militare, gli accordi Iveco-Rheinmetal per mettere le zampe sui fondi del riarmo europeo a vantaggio della proprietà di Repubblica (che appartiene come noto agli Agnelli). Anche la famiglia Agnelli sosteneva la Piazza per l’Europa, in attesa di vendere gli strumenti per far la guerra.

Un simile spiegamento di forze e di energie ha radunato trentamila persone (accettiamo per buono, senza la consueta mediazione questura/organizzatori, il primo dato fornito da Serra, il secondo non è credibile). Sono pochi i partecipanti, a ben vedere. Rete Impresa Italia, associazione di artigiani, il 19 febbraio 2014 riempì Piazza del Popolo, contro la pressione fiscale, con ottantamila lavoratori autonomi. Non dico che dovessero competere con 220.000 scesi a Modena il 1 luglio 2017 per ascoltare il concerto di Vasco Rossi o con i 102.861 che si sono trovati all’Arena di Reggio Emilia per il concerto di Harry Styles; ma se si tiene conto della forza istituzionale del blocco promotore la mobilitazione non può dirsi davvero riuscita. Anzi. Le falle dentro l’opposizione (con il PD spaccato in due tronconi durante il voto europeo) sembrano essersi allargate più di quanto non siano emerse contraddizioni dentro la maggioranza.

Giorgia Meloni, è assai disinvolta nel nascondere i propri problemi creandone altri al fronte nemico. Non sa bene che pesci pigliare in questa lite fra Ursula e Donald (lei vorrebbe tenere con entrambi buoni rapporti) e in più ha il problema di tenere a bada la coppia litigiosa Taiani/Salvini sempre sull’orlo della frattura. Fra i numerosi corni del dilemma ha deciso di sceglierli tutti quanti: il mazzo intero. Così ha riesumato Altiero Spinelli, deceduto nel 1986 (quando lei aveva nove anni), e un testo da lui scritto a sei mani (con Ernesto Rossi e Eugenio Colorni) nell’agosto del 1941, il Manifesto di Ventotene. Ha tirato un sasso nello stagno per far scappare i ranocchi; e i ranocchi, che sono scemi, hanno abboccato. Invece di chiederle se per caso non si fosse fumata uno spinello di pachistano nero (e sarebbe stata questa l’unica reazione sensata nel parlamento riunito per discutere se essere a favore o contro una spesa straordinaria europea di 800 miliardi per far la guerra alla Russia senza gli Stati Uniti) i democratici del PD si sono gettati a corpo morto su Spinelli, chi difendendolo, chi santificandolo, chi strillando al sacrilegio. La citazione, probabilmente estratta da un cattivo riassunto o forse volutamente manipolata (vai a saperlo), ha aperto la rissa e tutti si sono dimenticati di decidere se far la guerra o no.

Altiero Spinelli si era iscritto alla federazione giovanile comunista nel 1924, a 17 anni. Nel 1927 (a vent’anni) già lo avevano messo in prigione, con una condanna a 16 anni senza aver fatto sostanzialmente nulla; l’amnistia concessa per festeggiare la marcia su Roma consentì la scarcerazione nel 1937 ma non la libertà: andò al confino, prima a Ponza poi a Ventotene nel 1939. Nel 1937 venne espulso dal Partito Comunista e si legò a Ernesto Rossi (liberale, azionista) e a Eugenio Colorni (liberalsocialista e allora marito di un’altra Ursula, quella Hirschmann che sarebbe in seguito diventata sua moglie). Quando i tre scrissero il manifesto, nell’agosto 1941, la guerra andava piuttosto bene per i nazifascisti: la Francia era caduta, la Danimarca era occupata dai tedeschi, la Grecia e le terre slave stavano ancora sotto il controllo dell’Asse, l’Inghilterra era bombardata sia di giorno sia di notte. Mentre i tre scrivevano a Ventotene, da un mese (luglio 1941) tre divisioni del Corpo di Spedizione Italiano in Russia (CSIR) avevano invaso l’odierno Donbass, affiancando le truppe di Hitler. Era l’esercito regolare italiano, quello che piace a Vannacci, prima di Salò.  Sembravano avere la vittoria in mano; la destra ucraina li appoggiava e sterminava gli ebrei del paese. In quel frangente il progetto federalista degli Stati Uniti d’Europa, antisovietico e antinazionalista, era innanzitutto il desiderio di vincere la guerra, di assistere alla sconfitta del nazifascismo, di essere liberati. In effetti, dopo la caduta del regime, nel 1943, furono i tre liberati e il manifesto (peraltro revisionato e adattato al nuovo quadro militare) venne pubblicato.

Le righe sui compiti del dopoguerra stralciate da Giorgia Meloni sono, per quel che si sa, opera di Ernesto Rossi (economista) e non di Altiero Spinelli. La citazione è palesemente falsificata a mezzo di tagli e omissioni, cambiandone totalmente il senso. In premessa, e quale “bussola”, i firmatari escludono che il riferimento possa essere il principio dottrinario secondo il quale la proprietà privata deve essere abolita. Infatti ritengono i lavoratori dei paesi comunisti oppressi dalla tirannide burocratica. Dunque la valutazione deve essere fatta caso per caso, non dogmaticamente in linea di principio. E, di volta in volta, secondo opportunità e singolo segmento, la proprietà privata (per alternative conviventi: o/o) deve essere abolita, limitata, corretta, estesa. Anche estesa! Ernesto Rossi esponeva principi consolidati del pensiero liberaldemocratico, l’uso congiunto di intervento statale nei settori strategici e sovvenzioni all’iniziativa privata per favorire lo sviluppo. Le linee guida del c.d. Piano Marshall rientrano in questa concezione ricostruttiva, che prescinde dal federalismo in quanto tale; il manifesto propugna anche l’opzione federale come rimedio preventivo contro la malattia senile del nazionalismo, ovvero l’aggressività prepotente. Giorgia Meloni ha stravolto il senso, consapevolmente, e gli scemi ci sono cascati.

Come diavolo tutto questo possa avere una qualche relazione con il problema delle spese straordinarie in armamenti nessuno lo potrà mai comprendere. L’intero parlamento italiano ha preferito soffermarsi a discutere di Spinelli, evitando accuratamente di esprimere una chiara opinione sull’opportunità o meno di spendere 800 miliardi, peraltro in violazione del principio del pareggio di bilancio acquisito con una maggioranza bulgara nella Costituzione Italiana, per tagliare il welfare, poi effettivamente tagliato. Ma il taglio non vale per le armi prodotte da Ansaldo&Agnelli, per quelle il deficit va accettato. Giorgia Meloni ha aperto le danze con una consapevole provocazione, onde rinviare (sperando di evitare) una puntuale presa di posizione che già nel voto consultivo europeo ha diviso la maggioranza. Ma l’opposizione non si è opposta, si è sgretolata. Il PD ha preferito rifugiarsi nella difesa agiografica di Altiero Spinelli (e di una mai esistita Federazione degli Stati Uniti d’Europa) piuttosto che dire un si o un no alla decisione del Consiglio che ha deliberato la spesa bellica. Si è appiattita sopra un silenzio ipocrita. Elly Schlein ha dimenticato, forse per via di Spinelli, il celebre passo evangelico (Matteo, 5, 37): ma il vostro parlare sia si si no no tutto ciò che va oltre viene dal maligno.

Tonino Biffarino

29/3/2025 https://effimera.org/

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