I can’t breathe
Quest’espressione, “ non riesco a respirare “ ci è tristemente nota, nelle ultime settimane. Corrisponde al grido di dolore di George Floyd, afroamericano, ucciso barbaramente da un poliziotto a Minneapolis. Morto per asfissia provocata dalla pressione del ginocchio del poliziotto sul collo del giovane. Un vergognoso e gravissimo atto di violenza che ha scatenato reazioni e proteste in tutto il mondo, mobilitando giovani, ed un interessante clamore antirazzista.
Come un filo rosso, negli ultimi mesi siamo stati costretti a fare i conti con il respiro: nelle terapie intensive; metaforicamente, nella gravissima crisi economica di imprese, piccole e grandi, asfittiche, boccheggianti. Il senso di oppressione di un sistema in grande difficoltà si avverte ovunque, tra la gente che scopre come tutto il nostro modello di vita, di lavoro, sia fragilmente interconnesso, senza anticorpi sufficienti, piegato da due mesi di lockdown, e ci costringa a convivere con il virus, ad affrontare rischi, a fare i conti con la paura.
La consapevolezza non sempre razionalmente riconosciuta (o l’inconscio sentore ) che qualcosa, nel nostro mondo, ci schiacci, come” Il tallone di ferro” del bellissimo romanzo distopico di Jack London, è diffusa e, a mio giudizio, emerge dalle visioni bucoliche, dal desiderio di un ritorno alla natura come condizione desiderabile, ad esempio, per l’infanzia, per la quale si desiderano scuole nel bosco, destrutturate. Un desiderio di libertà, di rovesciamento dell’esistente, che deve avere una spiegazione antropologica, la reazione istintiva provocata dall’emergenza sanitaria che ha compresso le nostre esistenze. Una fame / sete di cultura allargata, di comunità , di villaggio, che stride fortemente con le logiche neoliberiste che dettano la linea in ogni aspetto della nostra vita, che mettono il profitto davanti ad ogni cosa, la competizione, la concorrenza come illusorio mantra di sviluppo, garanzia di qualità e stimolo al miglioramento. sentiamo distintamente che non è un mondo fatto per l’uomo, ma non riusciamo ad immaginarne ed a costruirne uno nuovo. Le rivolte seguenti alla morte di George fanno sperare che si diffonda il coraggio e la volontà di ribellarsi, di opporsi a quello che soffoca, all’ingiustizia sociale ed economica, di cui il razzismo è solo uno degli aspetti. Sperare che si riconosca il vero nemico dell’uomo, perchè un virus partecipa semplicemente alla lotta per l’esistenza che accomuna tutti gli esseri viventi, ma il pericolo mortale, mondiale, non è un essere vivente, ma è la logica perversa di un sistema che si pone sopra gli esseri viventi,e che non è legge naturale. Trovare vaccini e terapie contro questo nemico sarà molto più difficile.
Loretta Deluca
Insegnante Torino
Collaboratrice redazionale di Lavoro e Salute www.lavoroesalute.org
Articolo pubblicato sul numero di giugno del mensile Lavoro e Salute
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